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mercoledì 2 gennaio 2013

Donne Marocco: i diritti negati

La riforma del codice di famiglia, nel 2004, aveva suscitato un'ondata di entusiasmo tra le organizzazioni femministe ma ancora oggi la nuova legislazione fa fatica ad essere applicata. Il bilancio è magro e i diritti delle donne continuano ad essere elusi.
(Photo by Jacopo Granci)

Mounia è stata violentata da un infermiere dell'ospedale di Rabat mentre era in cinta del terzo figlio. Lo stupro, che ha distrutto i suoi sogni di trentenne, ha dato il via a quattro anni di interminabili procedure giudiziarie. Una vera e propria battaglia, durante la quale Mounia ha perso quasi tutto, a cominciare dal marito che all'inizio la sosteneva ma poi ha finito per testimoniare contro in cambio di una somma considerevole. Nonostante sia stata riconosciuta la recidività dell'aggressore, la donna ha dovuto penare non poco per arrivare al verdetto di colpevolezza. E' stata definita "pazza e mitomane" durante il dibattimento e solo il sostegno di alcune organizzazioni per i diritti umani è riuscita ad assicurarle una difesa efficace. "Non ci credevo più - racconta la ragazza - e sono felice che, almeno sotto questo aspetto, sia stata fatta giustizia. Ma a quale prezzo? Mio marito mi ha lasciato e mi ha cacciato di casa. Per fortuna sono stata accolta dai miei genitori e adesso mi guadagno da vivere andando a servizio".

La riforma del codice di famiglia (mudawwana), concessa dal sovrano e approvata dal parlamento otto anni fa, aveva fatto sperare in un sensibile miglioramento della condizione della donna nel paese, almeno in ambito privato e civile. Ma le misure[1] previste faticano ancora a trovare un riscontro concreto e non intaccano il complesso meccanismo di pressioni e violenze a cui le marocchine devono quotidianamente far fronte. Una lacuna legislativa e giuridica o una questione di mentalità?

"Quando due uomini si battono per strada c'è sempre qualcuno pronto a separarli. Invece, quando un uomo picchia o maltratta pubblicamente una donna, nessuno interviene. Perché? Il pensiero comune è che ha senz'altro delle buone ragioni per farlo", è il commento amaro di Aicha Ait M'Hand, avvocato e vice-presidente dell'Association démocrate des femmes du Maroc (ADFM). Secondo Khadija Ryadi, presidente dell'Association marocaine des droits humains (AMDH), "negli ultimi anni, vista la necessità del governo di uniformarsi alle convezioni internazionali in materia, i codici sono stati emendati con articoli che sanzionano le violenze sulle donne. Ma il primo problema è che questi dispositivi sono insufficienti e di per sé lacunosi e il secondo, ancor più grave, è l'assenza di una reale volontà politica nell'eradicazione del fenomeno. In caso di violenza su una donna difficilmente si arriva in tribunale e, quando succede, la corruzione o la mentalità arcaica dei giudici hanno spesso la meglio".

D'altronde la vittima dei maltrattamenti è obbligata a fornire prove e testimoni per avere almeno la speranza di avviare il procedimento. Niente di più difficile quando la violenza matura a porte chiuse, come nella maggioranza dei casi. Stando alle statistiche diffuse quest'anno dallo stesso governo, circa 6 milioni di donne nel paese (che conta 32 milioni di abitanti in totale) sono rimaste vittime di abusi e sopraffazioni, di cui più della metà in ambito domestico. Secondo un'inchiesta della rete associativa Anaruz, le violenze coniugali si eleverebbero addirittura all'82% dei casi recensiti.


Legalità non fa rima con consuetudine

Nella vicenda di Fatima la violenza subita è di altra natura. Sbattuta fuori di casa dal marito dopo trent'anni di vita in comune, si è ritrovata per strada dall'oggi al domani senza troppe spiegazioni. E' stata privata dei suoi figli, dei suoi beni materiali…in breve della sua vita. Il marito ha sposato un'altra donna senza chiedere il suo permesso né quello del giudice (come invece prescrive la mudawwana). "La giustizia è solo un inganno, un'enorme menzogna! - si dispera Fatima - Non ho più niente, potrei uccidermi o uccidere chi mi ha provocato questo dolore, chi se ne preoccuperebbe? Peggio di così non può andare". Prima di arrendersi all'evidenza e alla disperazione la donna aveva bussato a tutte le porte. Si è rivolta al tribunale, ha chiesto un appuntamento con il magistrato, ha ricevuto l'appoggio delle associazioni per i diritti umani ed ha perfino raccontato la sua storia alla stampa. Tutto inutile. Le leggi ci sono ma difficilmente vengono applicate.

Come nel caso dell'art. 49 del codice di famiglia, secondo il quale  gli sposi, oltre all'atto di unione, devono sottoscrivere un altro documento consacrato alla gestione dei beni accumulati durante il matrimonio (e alla loro divisione in caso di separazione). "Un passaggio ignorato, in maniera quasi sistematica, anche quando la procedura passa per vie legali" fa sapere Khdija Ouelammou, responsabile del centro di ascolto Nejma a Rabat.

Tra gli aspetti più delicati rimessi dalla mudawwana al parere e alla volontà del giudice - oltre al divorzio in sé e all'affidamento dei figli - c'è la questione degli assegni familiari. L'ammontare del sostegno finanziario concesso alle donne divorziate non è fissato da alcun parametro e molto spesso non tiene conto della preservazione delle condizioni economiche e sociali in cui viveva la famiglia prima della separazione né del salario percepito dal marito, come invece è vagamente indicato dalla legge.

Ma la vicenda di Fatima è ancora più complessa, dal momento che non si tratta né di un divorzio né di un ripudio secondo i termini previsti dal codice. Inoltre l'episodio non costituisce un'eccezione - fanno sapere le associazioni - e, anzi, sono sempre più frequenti i casi di donne cacciate arbitrariamente di casa che si rivolgono alle poche strutture destinate "ufficiosamente" ad accoglierle. Perché ufficiosamente? Perché la legislazione punisce "chiunque aiuti una donna a fuggire dal tetto coniugale" perseguendolo per "complicità in sequestro di persona". Poco importa, quindi, che il marito l'abbia sbattuta fuori, fintanto che la separazione non è ratificata dal tribunale. Non a caso il ministero dello Sviluppo sociale si rifiuta di mettere in atto dispositivi di sostegno alle donne che si ritrovano in tale situazione e si affida all'intervento sporadico delle associazioni, chiudendo gli occhi sul "crimine" che queste commettono ospitandole nei loro centri di accoglienza.

Per la signora El Maghnaoui, responsabile del centro Annajada (Rabat), si tratta di un atteggiamento ipocrita e irresponsabile, data l'ampiezza che sta assumendo il fenomeno. "Alcune riescono a trovare rifugio da qualche parente, passano settimane o mesi a casa di amici, ma la maggior parte - prima o poi - non ha altra scelta che la strada. Capita sempre più di frequente di vedere piccoli gruppi di donne, sedute su un pezzo di cartone, che trascorrono la notte sotto i portici di un palazzo".


I matrimoni tra minori e il "Marocco profondo"

Oltre alle violenze fisiche e morali, per strada e in famiglia, oltre alla questione della divisione dei beni e del sostentamento familiare, altri aspetti devono essere aggiunti a questo triste elenco dei diritti negati alle donne. A cominciare dalle molestie e dai ricatti subiti in ambito professionale, malgrado le recenti integrazioni al codice del lavoro. La legge n. 24.03 punisce (in teoria) il responsabile dell'abuso fino a due anni di carcere, ma non considera le molestie come un crimine (bensì come un "atto dannoso") e non prevede sanzioni contro le violenze morali.

Un altro esempio dell'incerta applicazione del nuovo codice di famiglia è quello delle unioni tra minori.[2] Secondo le cifre pubblicate dal ministero della Giustizia, nel 2010 sono state 44.572 le domande di matrimonio presentate a questo proposito ai magistrati, il 92% delle quali convalidate. Ma ancora una volta facciamo riferimento ai dati pervenuti per vie legali. Una minima parte rispetto alla diffusione della pratica nelle realtà extraurbane, dove spesso la popolazione non è nemmeno al corrente delle novità apportate dalla riforma.

E' quanto si evince, per esempio, dal lavoro della fondazione Ytto, impegnata dal 2009 in una campagna di sensibilizzazione degli abitanti della regione di Tadla-Azilal (a carattere montagnoso-rurale, situata nella zona centrale del paese). La zona - sintomatica di quel "Marocco profondo" lontano, non solo fisicamente, dallo sviluppo dei centri costieri - è segnata da uno dei più elevati tassi di analfabetismo del regno (87% per le donne e 77% per gli uomini). "Un terreno fertile per le unioni orfi (consuetudinarie, nda), senza atto di matrimonio, in cui non c'è bisogno di spendere soldi in formalità e burocrazia", spiega un'attivista dell'organizzazione.
(Photo by Jacopo Granci)
Nei villaggi recensiti dalla fondazione Ytto le donne, fin dalla giovane età, svolgono tutte le mansioni possibili: lavorano la terra, tagliano e raccolgono la legna, si occupano della casa e dei bambini. Senza alcuna forma di tutela. Da queste parti si dice che "la schiena di una donna è solida come quella di un mulo". La maggioranza delle ragazze si sposano tra gli undici e i diciassette anni e i matrimoni sono ancora celebrati con la sola benedizione della fatiha (la sura di apertura del Corano, nda), in presenza di dodici testimoni, e vengono considerati come un contratto morale tra i padri degli sposi. Di divorzio, assegni familiari e diritti delle donne non è neanche il caso di parlarne.

Il persistere di simili contesti, dove lo Stato brilla per la sua assenza a tutti i livelli (assistenziale, informativo e di impulso allo sviluppo) e dove spesso gli abitanti non hanno nemmeno di che far fronte ai costi delle certificazioni previste dalla mudawwana, sembra costituire l'ennesima testimonianza di quella mancanza di volontà politica - a cui accennava all'inizio la presidente dell'AMDH Khadija Ryadi - necessaria per un effettivo miglioramento della condizione femminile (e non solo) nel paese.


(Questo articolo è stato pubblicato nello speciale donne - formato e-book - "La solitudine di Sherazade" di Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)



[1] In sintesi le novità previste dal testo approvato nel 2004: la famiglia è posta sotto la responsabilità congiunta dei due coniugi (e non più sotto la responsabilità esclusiva del marito); la regola dell'obbedienza dovuta al marito dalla sposa è abrogata; la donna non ha più bisogno del tutore per potersi sposare; l'età minima legale per il matrimonio è passata da 15 a 18 anni; la procedura richiesta alla moglie per accedere al divorzio è stata semplificata; il ripudio non è più solo vincolato alla volontà del marito, ma anche all'approvazione del giudice; la poligamia, sebbene ammessa, è resa più restrittiva, esigendo la possibilità economica del marito di provvedere ai bisogni di due (tre, quattro) famiglie, l'avallo della prima moglie e del magistrato (anche se l'art. 16 prevede delle eccezioni in proposito).
[2] Sebbene la mudawwana fissi in generale a 18 anni l'età minima del matrimonio, l'art. 20 del testo autorizza il giudice a sposare una minorenne dietro specifica richiesta.

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