La
riforma del codice di famiglia, nel 2004, aveva suscitato un'ondata di
entusiasmo tra le organizzazioni femministe ma ancora oggi la nuova
legislazione fa fatica ad essere applicata. Il bilancio è magro e i diritti
delle donne continuano ad essere elusi.
(Photo by Jacopo Granci) |
Mounia
è stata violentata da un infermiere dell'ospedale di Rabat mentre era in cinta
del terzo figlio. Lo stupro, che ha distrutto i suoi sogni di trentenne, ha
dato il via a quattro anni di interminabili procedure giudiziarie. Una vera e
propria battaglia, durante la quale Mounia ha perso quasi tutto, a cominciare
dal marito che all'inizio la sosteneva ma poi ha finito per testimoniare contro
in cambio di una somma considerevole. Nonostante sia stata riconosciuta la
recidività dell'aggressore, la donna ha dovuto penare non poco per arrivare al
verdetto di colpevolezza. E' stata definita "pazza e mitomane"
durante il dibattimento e solo il sostegno di alcune organizzazioni per i
diritti umani è riuscita ad assicurarle una difesa efficace. "Non ci
credevo più - racconta la ragazza - e sono felice che, almeno sotto questo
aspetto, sia stata fatta giustizia. Ma a quale prezzo? Mio marito mi ha
lasciato e mi ha cacciato di casa. Per fortuna sono stata accolta dai miei
genitori e adesso mi guadagno da vivere andando a servizio".
La
riforma del codice di famiglia (mudawwana),
concessa dal sovrano e approvata dal parlamento otto anni fa, aveva fatto
sperare in un sensibile miglioramento della condizione della donna nel paese,
almeno in ambito privato e civile. Ma le misure[1]
previste faticano ancora a trovare un riscontro concreto e non intaccano il
complesso meccanismo di pressioni e violenze a cui le marocchine devono
quotidianamente far fronte. Una lacuna legislativa e giuridica o una questione
di mentalità?
"Quando
due uomini si battono per strada c'è sempre qualcuno pronto a separarli.
Invece, quando un uomo picchia o maltratta pubblicamente una donna, nessuno
interviene. Perché? Il pensiero comune è che ha senz'altro delle buone ragioni
per farlo", è il commento amaro di Aicha Ait M'Hand, avvocato e vice-presidente
dell'Association démocrate des femmes du Maroc (ADFM). Secondo Khadija Ryadi,
presidente dell'Association marocaine des droits humains (AMDH), "negli
ultimi anni, vista la necessità del governo di uniformarsi alle convezioni
internazionali in materia, i codici sono stati emendati con articoli che
sanzionano le violenze sulle donne. Ma il primo problema è che questi
dispositivi sono insufficienti e di per sé lacunosi e il secondo, ancor più
grave, è l'assenza di una reale volontà politica nell'eradicazione del
fenomeno. In caso di violenza su una donna difficilmente si arriva in tribunale
e, quando succede, la corruzione o la mentalità arcaica dei giudici hanno
spesso la meglio".
D'altronde
la vittima dei maltrattamenti è obbligata a fornire prove e testimoni per avere
almeno la speranza di avviare il procedimento. Niente di più difficile quando
la violenza matura a porte chiuse, come nella maggioranza dei casi. Stando alle
statistiche diffuse quest'anno dallo stesso governo, circa 6 milioni di donne
nel paese (che conta 32 milioni di abitanti in totale) sono rimaste vittime di
abusi e sopraffazioni, di cui più della metà in ambito domestico. Secondo
un'inchiesta della rete associativa Anaruz, le violenze coniugali si
eleverebbero addirittura all'82% dei casi recensiti.
Legalità non fa rima
con consuetudine
Nella
vicenda di Fatima la violenza subita è di altra natura. Sbattuta fuori di casa
dal marito dopo trent'anni di vita in comune, si è ritrovata per strada
dall'oggi al domani senza troppe spiegazioni. E' stata privata dei suoi figli,
dei suoi beni materiali…in breve della sua vita. Il marito ha sposato un'altra
donna senza chiedere il suo permesso né quello del giudice (come invece
prescrive la mudawwana). "La
giustizia è solo un inganno, un'enorme menzogna! - si dispera Fatima - Non ho
più niente, potrei uccidermi o uccidere chi mi ha provocato questo dolore, chi
se ne preoccuperebbe? Peggio di così non può andare". Prima di arrendersi
all'evidenza e alla disperazione la donna aveva bussato a tutte le porte. Si è
rivolta al tribunale, ha chiesto un appuntamento con il magistrato, ha ricevuto
l'appoggio delle associazioni per i diritti umani ed ha perfino raccontato la
sua storia alla stampa. Tutto inutile. Le leggi ci sono ma difficilmente
vengono applicate.
Come
nel caso dell'art. 49 del codice di famiglia, secondo il quale gli sposi, oltre all'atto di unione, devono
sottoscrivere un altro documento consacrato alla gestione dei beni accumulati
durante il matrimonio (e alla loro divisione in caso di separazione). "Un
passaggio ignorato, in maniera quasi sistematica, anche quando la procedura
passa per vie legali" fa sapere Khdija Ouelammou, responsabile del centro
di ascolto Nejma a Rabat.
Tra
gli aspetti più delicati rimessi dalla mudawwana
al parere e alla volontà del giudice - oltre al divorzio in sé e
all'affidamento dei figli - c'è la questione degli assegni familiari.
L'ammontare del sostegno finanziario concesso alle donne divorziate non è
fissato da alcun parametro e molto spesso non tiene conto della preservazione
delle condizioni economiche e sociali in cui viveva la famiglia prima della
separazione né del salario percepito dal marito, come invece è vagamente
indicato dalla legge.
Ma
la vicenda di Fatima è ancora più complessa, dal momento che non si tratta né
di un divorzio né di un ripudio secondo i termini previsti dal codice. Inoltre
l'episodio non costituisce un'eccezione - fanno sapere le associazioni - e,
anzi, sono sempre più frequenti i casi di donne cacciate arbitrariamente di
casa che si rivolgono alle poche strutture destinate "ufficiosamente"
ad accoglierle. Perché ufficiosamente? Perché la legislazione punisce
"chiunque aiuti una donna a fuggire dal tetto coniugale"
perseguendolo per "complicità in sequestro di persona". Poco importa,
quindi, che il marito l'abbia sbattuta fuori, fintanto che la separazione non è
ratificata dal tribunale. Non a caso il ministero dello Sviluppo sociale si rifiuta
di mettere in atto dispositivi di sostegno alle donne che si ritrovano in tale
situazione e si affida all'intervento sporadico delle associazioni, chiudendo
gli occhi sul "crimine" che queste commettono ospitandole nei loro
centri di accoglienza.
Per
la signora El Maghnaoui, responsabile del centro Annajada (Rabat), si tratta di
un atteggiamento ipocrita e irresponsabile, data l'ampiezza che sta assumendo
il fenomeno. "Alcune riescono a trovare rifugio da qualche parente,
passano settimane o mesi a casa di amici, ma la maggior parte - prima o poi -
non ha altra scelta che la strada. Capita sempre più di frequente di vedere
piccoli gruppi di donne, sedute su un pezzo di cartone, che trascorrono la
notte sotto i portici di un palazzo".
I matrimoni tra minori
e il "Marocco profondo"
Oltre
alle violenze fisiche e morali, per strada e in famiglia, oltre alla questione
della divisione dei beni e del sostentamento familiare, altri aspetti devono
essere aggiunti a questo triste elenco dei diritti negati alle donne. A
cominciare dalle molestie e dai ricatti subiti in ambito professionale,
malgrado le recenti integrazioni al codice del lavoro. La legge n. 24.03
punisce (in teoria) il responsabile dell'abuso fino a due anni di carcere, ma
non considera le molestie come un crimine (bensì come un "atto
dannoso") e non prevede sanzioni contro le violenze morali.
Un
altro esempio dell'incerta applicazione del nuovo codice di famiglia è quello
delle unioni tra minori.[2]
Secondo le cifre pubblicate dal ministero della Giustizia, nel 2010 sono state
44.572 le domande di matrimonio presentate a questo proposito ai magistrati, il
92% delle quali convalidate. Ma ancora una volta facciamo riferimento ai dati
pervenuti per vie legali. Una minima parte rispetto alla diffusione della
pratica nelle realtà extraurbane, dove spesso la popolazione non è nemmeno al
corrente delle novità apportate dalla riforma.
E'
quanto si evince, per esempio, dal lavoro della fondazione Ytto, impegnata dal
2009 in una campagna di sensibilizzazione degli abitanti della regione di
Tadla-Azilal (a carattere montagnoso-rurale, situata nella zona centrale del
paese). La zona - sintomatica di quel "Marocco profondo" lontano, non
solo fisicamente, dallo sviluppo dei centri costieri - è segnata da uno dei più
elevati tassi di analfabetismo del regno (87% per le donne e 77% per gli uomini).
"Un terreno fertile per le unioni orfi
(consuetudinarie, nda), senza atto di
matrimonio, in cui non c'è bisogno di spendere soldi in formalità e
burocrazia", spiega un'attivista dell'organizzazione.
(Photo by Jacopo Granci) |
Nei
villaggi recensiti dalla fondazione Ytto le donne, fin dalla giovane età,
svolgono tutte le mansioni possibili: lavorano la terra, tagliano e raccolgono
la legna, si occupano della casa e dei bambini. Senza alcuna forma di tutela. Da
queste parti si dice che "la schiena di una donna è solida come quella di
un mulo". La maggioranza delle ragazze si sposano tra gli undici e i
diciassette anni e i matrimoni sono ancora celebrati con la sola benedizione
della fatiha (la sura di apertura del
Corano, nda), in presenza di dodici
testimoni, e vengono considerati come un contratto morale tra i padri degli
sposi. Di divorzio, assegni familiari e diritti delle donne non è neanche il
caso di parlarne.
Il
persistere di simili contesti, dove lo Stato brilla per la sua assenza a tutti
i livelli (assistenziale, informativo e di impulso allo sviluppo) e dove spesso
gli abitanti non hanno nemmeno di che far fronte ai costi delle certificazioni
previste dalla mudawwana, sembra
costituire l'ennesima testimonianza di quella mancanza di volontà politica - a
cui accennava all'inizio la presidente dell'AMDH Khadija Ryadi - necessaria per
un effettivo miglioramento della condizione femminile (e non solo) nel paese.
[1] In sintesi le novità previste
dal testo approvato nel 2004: la famiglia è posta sotto la responsabilità
congiunta dei due coniugi (e non più sotto la responsabilità esclusiva del
marito); la regola dell'obbedienza dovuta al marito dalla sposa è abrogata; la
donna non ha più bisogno del tutore per potersi sposare; l'età minima legale
per il matrimonio è passata da 15 a 18 anni; la procedura richiesta alla moglie
per accedere al divorzio è stata semplificata; il ripudio non è più solo
vincolato alla volontà del marito, ma anche all'approvazione del giudice; la
poligamia, sebbene ammessa, è resa più restrittiva, esigendo la possibilità
economica del marito di provvedere ai bisogni di due (tre, quattro) famiglie,
l'avallo della prima moglie e del magistrato (anche se l'art. 16 prevede delle
eccezioni in proposito).
[2] Sebbene la mudawwana fissi in generale a 18 anni l'età minima del matrimonio,
l'art. 20 del testo autorizza il giudice a sposare una minorenne dietro
specifica richiesta.
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