A
Dély Brahim nei sobborghi della capitale, migranti e richiedenti asilo, in
maggioranza sub-sahariani fuggiti da zone di conflitto, vivono in situazione
precaria e spesso sono confrontati ad episodi di razzismo. Reportage.
(Foto by TSA) |
di Hadjer Guenanfa per
TSA (Tout sur l'Algérie)
"La
guerra ci ha inseguite fin dentro al campo profughi - afferma - per questo
siamo scappate". Ultime arrivate, lei e sua figlia di cinque anni, si sono
sistemate alle meglio. All'interno della casa le stanze erano già tutte
occupate, così si sono rintanate in un angolo del sottoscala, di fianco ai loro
bagagli.
Di
fronte a Gisèle, una porta socchiusa si affaccia su una stanza di una ventina
di metri quadrati che ospita diverse famiglie. La luce è debole, non ci sono
finestre né condotti di aerazione. L'aria è quasi irrespirabile. Due persone,
insonnolite, rimangono distese sui materassi, mentre gli altri occupanti se ne stanno
seduti.
"Siamo
sei famiglie a vivere qui", spiega una giovane congolese di ventiquattro
anni. Non sa bene perché suo marito abbia deciso di lasciare il paese, per poi
ritrovarsi da queste parti. La ragazza esce ogni tanto dalla stanza per dare
un'occhiata al figlio, che gioca assieme agli altri bambini. Sono molti quelli
che hanno trovato riparo - nel corso degli anni - sotto questo tetto, ormai una
sorta di centro di transito. Se non vanno a scuola, passano il loro tempo a
giocare tra i mattoni o tra i mucchi di sabbia e di sassi lasciati di fronte ai
cantieri delle future residenze.
Dabhi, oppositore
politico in fuga dalla RDC
La
casa si sviluppa su tre piani ed ha diversi punti di accesso. Al secondo, un
gruppo di uomini seduti attorno a un tavolo sta giocando a carte. Dabhi resta
in disparte. Sulla trentina, è sposato e padre di una bimba di nove mesi. Aveva
già conosciuto l'Algeria da studente in ingegneria ad Orano, prima di rientrare
nel 2010 nel suo paese, la Repubblica Democratica del Congo (RDC).
"Sono
diventato un attivista politico - racconta - ed ho partecipato a manifestazioni
e incontri prima delle elezioni". Quanto basta per essere perseguitato.
Così Dabhi fa di nuovo i bagagli, passa a Brazzaville e da lì parte in aereo
per Bamako. "Ho proseguito fino a Kidal, poi l'attraversamento della
frontiera a Tinzerouatine e infine a Tamanrasset nel 2011".
Dabhi
è un richiedente asilo e si è iscritto ad un master in marketing e
comunicazione. "Non ho pagato l'iscrizione però. Se ne sarebbe dovuto
occupare l'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) ma so che ancora non
l'ha fatto".
Il
ragazzo è comunque fortunato, rispetto agli altri profughi. Assieme a sua
moglie e la sua bambina occupa una stanza di dieci metri quadrati, divisa in
tre parti con delle tende. Ha un buon letto, un televisore e un computer
portatile. Pur avendo il libretto universitario, tuttavia, non possiede ancora
il permesso di soggiorno. "Per quello serve un certificato di residenza,
dunque un regolare contratto d'affitto, ed io non ho abbastanza soldi", spiega.
Per
sopravvivere, Dabhi lavora occasionalmente come giardiniere. La scelta
dell'Algeria come terra d'asilo non è stata un caso. Si tratta di un paese alla
frontiera dell'Europa, che già conosceva, e mediamente più ricco dei suoi
vicini. Per aumentare le entrate, sua moglie lavora una volta alla settimana,
il venerdì, come massaggiatrice in un hammam.
Le retate, frequenti,
della gendarmerie
Che
provengano dal Congo, dal Gabon, dal Ghana o dalla Costa d'Avorio, profughi e
migranti sono tutti costretti a superare la traversata del deserto, passando
dal Mali, per poi entrare in territorio algerino dalla frontiera sud.
Nonostante si trovino in condizioni precarie, a volte indeboliti dalle malattie
o dal lungo viaggio, cercano di tirare avanti con qualche espediente, lavorando
in nero quando capita.
In
generale non rimpiangono la scelta di partire, "qui almeno possiamo avere
un po' di pace", anche se talvolta subiscono episodi di razzismo o si
ritrovano vittime di aggressioni. "I vicini chiamano spesso la gendarmerie. Gli agenti fanno irruzione,
chiedono i documenti e sequestrano le bevande alcoliche che abbiamo da parte.
Quando succede di notte i bambini si spaventano a morte".
I
bagni sono in comune e in ogni caso non c'è acqua corrente. Sono rari i vicini
che accettano di offrire qualche tanica. Per strada poi, sono spesso
apostrofati con appellativi degradanti, "negri", "sporchi"
e altri insulti sullo stesso genere. Dipende, tuttavia, dal luogo degli
incontri. "A scuola, per esempio, ho come l'impressione di frequentare
un'altra categoria di algerini, simpatici e calorosi", precisa Dabhi.
Donne vittime di
aggressione
Oggi
sono circa un centinaio i cittadini sub-sahariani che hanno trovato rifugio in
questa zona. Quanti sono in tutta l'Algeria? Secondo il Ministero dell'Interno,
alla fine del 2012, erano circa 25mila i rifugiati insediati nel paese
"per ragioni umanitarie e a causa dei conflitti patiti nei rispettivi
contesti d'origine".
Pur
riuscendo a trovare un tetto, un riparo più o meno fortuito, queste persone
vivono praticamente in strada, fa notare Kader Affak del Comitato di
solidarietà popolare, che si adopera per raccogliere doni e materiali d'ogni
sorta. "La situazione è difficile, sono praticamente alla mercé dei
malintenzionati, delle loro insidie fisiche e verbali", fa notare
l'attivista citando l'esempio di due ragazze maliane violentate ad Orano.
Una
donna, stando alle testimonianze raccolte, sarebbe stata aggredita perfino nei
bagni del palazzo in costruzione a Bouchbouk. "Volevano prendergli i pochi
soldi che aveva", raccontano alcuni dei presenti.
A
volte dei ragazzi algerini si fermano davanti al casamento, "solo per
guardare le donne", s'indigna Alex, un ivoriano di trentotto anni arrivato
da circa sei mesi. "Nelle nostre condizioni non possiamo presentare
nessuna rimostranza". Per questo, secondo Kader, è necessario mettere in
allarme l'opinione pubblica. "Ci scandalizziamo per come vengono trattati
gli algerini nei centri di transito in Europa e poi ci dimentichiamo che qui, a
volte, succede di peggio", conclude l'attivista, ricordando che la
violenza subita dalle due ragazze maliane non è affatto un caso isolato.
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