Dopo
la scarcerazione del rapper Weld El 15, avvenuta nei giorni scorsi (pena ridotta in appello a sei mesi con la condizionale), continua la
mobilitazione in favore della libertà d'espressione. Domani si ritroveranno a
Tunisi promotori e sostenitori della campagna Kolna Jabeur-kolna Ghazi, per chiedere la liberazione del
"primo detenuto d'opinione della Tunisia post-rivoluzionaria" e
depositare la domanda di grazia presidenziale a favore di Jabeur Mejri.
Poco
più di un anno fa, il 25 giugno 2012, la corte d'appello di Monastir confermava
il verdetto emesso in prima istanza contro Jabeur Mejri e Ghazi Beji, due
ragazzi di Mahdia "conosciuti in città per il loro ateismo": condanna
a sette anni e mezzo di carcere e al pagamento di una multa (1200 dinari, circa
600 euro) - la sentenza - per "turbamento dell'ordine pubblico",
"comportamento immorale" e "arrecato pregiudizio a terzi
attraverso il web".
Jabeur
era già finito in arresto il 5 marzo 2012, a causa di una denuncia a suo carico
depositata da due concittadini, dopo aver diffuso su facebook alcuni post dal
contenuto considerato "offensivo" nei confronti della religione
islamica. In particolare, alcune caricature del profeta Mohammed e alcuni stralci
del libro illustrato L'illusion de
l'islam - che racconta con taglio satirico e in modo fortemente
provocatorio la vita del profeta e della moglie Aicha - scritto dall'amico
Ghazi Beji.
Durante
gli interrogatori, in cui Jabeur - non assistito, di fronte all'iniziale
rifiuto da parte di alcuni avvocati di assumere l'incarico - afferma di aver
subito maltrattamenti e torture, viene delineata "la complicità di Ghazi",
che intanto ha lasciato il paese. Approdato in Romania, dopo una fuga rischiosa
attraverso la Libia, la Turchia e la Grecia, è stato condannato in contumacia.
Per
Jabeur invece, ancora in prigione, è iniziato un vero e proprio calvario, che
il detenuto racconta in una lettera
filtrata dal carcere al suo comitato di sostegno, dove vengono descritte le
offese e le umiliazioni inflitte dagli altri detenuti e dall'amministrazione
penitenziaria.
Le
ritorsioni e le minacce, tuttavia, non si sono limitate a questo e anche le
famiglie dei due "apostati", di cui non rinnegano scelte e
comportamenti, sono finite nel mirino di chi ha approfittato dell'episodio per
erigersi a baluardo della fede.
"Mio
figlio è laureato e nonostante ciò disoccupato, non ha mai fatto male a nessuno
- ha dichiarato il padre di Ghazi a Nawaat -.
E' forse più pericoloso di coloro che hanno ucciso degli innocenti durante la
rivoluzione? E' più pericoloso dei Ben Alì e dei Trabelsi o degli snipers che
ci hanno sparato dai tetti? Se mio figlio e Jabeur avessero avuto un lavoro,
una vita degna, non si sarebbero mai ritrovati in mezzo a questa storia. E poi,
sono liberi di pensare quello che vogliono..qual è il problema se non sono
credenti?".
A
questa domanda - indirettamente - aveva risposto l'avvocato Foued Al Zouali,
uno dei due autori della denuncia. "La vicenda non ha nulla a che vedere
con la libertà di espressione […] ciascuno è libero di pensarla come vuole, ma
nel rispetto delle leggi", riferiva il legale al tempo del processo, senza
nascondere tuttavia il suo biasimo per i "colpevoli di ateismo", un
crimine più grave dell'omicidio secondo Zouali.
Le
leggi a cui fa riferimento l'avvocato, e che hanno determinato la condanna di
Jabeur e Ghazi, sono gli articoli 121 e 226 del codice penale e l'articolo 86
del codice delle telecomunicazioni, i principali strumenti giuridici -
intenzionalmente fluidi - a cui era solito fare ricorso il regime di Ben Alì
contro gli oppositori.
Che
cosa c'è di rivoluzionario - domandano i sostenitori della campagna Kulna Jabeur- kulna Ghazi ("siamo
tutti Jabeur-siamo tutti Ghazi") - nel continuare ad imporre bavagli con
l'accusa vaga di "turbamento dell'ordine pubblico"?
A
conferma del carattere prettamente "politico" assunto immediatamente
dal caso, l'inchiesta pubblicata dopo la sentenza di primo grado dalla blogger
Olfa Riahi
in cui sono trascritti tutti gli atti del dossier a carico dei due giovani di
Mahdia. In effetti, i verbali degli interrogatori mostrano in modo chiaro come
le indagini della polizia si siano concentrate esclusivamente sulle intime
convinzioni degli inquisiti e sul libro scritto da Ghazi, "che mette in
dubbio l'esistenza di Dio".
Nonostante
l'interesse dimostrato all'epoca da alcuni cyber-attivisti e l'attenzione
rilanciata dalle ong internazionali (tra cui l'appello di Amnesty International),
la vicenda è rimasta sostanzialmente taciuta all'opinione pubblica tunisina, da
una parte impegnata in altro genere di dibattiti - ad esempio sul futuro
economico e istituzionale del paese - dall'altro innegabilmente contrastata
quando la difesa della libertà di espressione tocca la sensibilità religiosa
collettiva.
Dal
canto suo il comitato a sostegno di Jabeur Mejri,
spalleggiato da blogger, intellettuali e militanti per i diritti umani, mette
in guardia dall'affermazione dell'islam come "linea rossa"
invalicabile, sottolineando l'ambiguità interpretativa e la facilità con cui
potrebbe essere strumentalizzato "a scopi politici" un futuro
ordinamento legislativo orientato in questo senso (il riferimento non è
soltanto al codice penale ma anche alla carta costituzionale in preparazione).
Per
gli attivisti, l'unica fonte di ispirazione in proposito dovrebbe essere la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che all'art. 19 - violato nel
caso di Jabeur e Ghazi - sancisce il diritto alla libertà di espressione e di
opinione in tutte le sue forme.
Anche
per questo, negli ultimi mesi, il comitato ha avviato una campagna di
sensibilizzazione con la richiesta di liberazione immediata per Jabeur Mejri.
Così, sotto lo slogan kolna Jabeur-kolna
Ghazi, domani, si riuniranno a Tunisi (place Pasteur) promotori e
simpatizzanti dell'iniziativa, prima di rimettere nelle mani del presidente
Marzouki una domanda di grazia a favore del "primo detenuto d'opinione
della Tunisia post-rivoluzionaria".
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