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mercoledì 10 luglio 2013

Marocco. "Negli ultimi dieci anni la libertà di stampa si è notevolmente ridotta"

Ad affermarlo è Ahmed Benchemsi, tra i più noti giornalisti del regno e ricercatore a Stanford. Comparirà oggi (8 luglio, ndr) di fronte al tribunale di Parigi per rispondere ad un'accusa di diffamazione, dopo la denuncia intentata da un influente personaggio di corte per un articolo apparso su Le Monde. "Questo tipo di ritorsioni è il prezzo da pagare quando si difendono valori che il sistema viola quotidianamente".




Trentanove anni e una carriera brillante. Dopo le prime esperienze professionali trascorse nelle principali redazioni nazionali (La vie économique, Le Journal..) e in qualità di corrispondente (Jeune Afrique), Ahmed Benchemsi fonda nel 2001 il gruppo TelQuel - editore del settimanale omonimo e della sua versione in darija (variante locale dell'arabo) Nichane - di cui il giornalista è stato direttore fino alla fine del 2010.

Pochi mesi prima, infatti, durante una delle fasi più difficili vissute dalla stampa indipendente nel paese (citazioni in giudizio e boicottaggio pubblicitario avevano portato alla chiusura di alcune tra le testate più apprezzate e "fastidiose", mentre i media on-line erano appena agli inizi), la "censura soft" del regime si è abbattuta proprio sul settimanale Nichane, scomparso dalle edicole sotto il peso dei debiti accumulati.

Per il vincitore del Premio Samir Kassir (2007), già vittima di pesanti condanne pecuniarie e lunghi processi, arriva così il momento di cambiare. Lascia il Marocco per gli Stati Uniti, dove ottiene un posto di ricercatore all'università di Stanford (California). L'immersione nell'attività accademica non comporta, però, la rinuncia di Benchemsi al suo primo amore. "Resto prima di tutto un giornalista".

Vive a distanza le "primavere" nordafricane, ma si schiera in prima linea nel sostenere le manifestazioni pro-democrazia in Marocco. La comparsa del Movimento 20 febbraio, il coraggio e la determinazione dimostrati dalle nuove generazioni che scendono in piazza per denunciare un sistema di governo arcaico e autocratico, sono espressione di quel "cambiamento di mentalità" a lungo invocato dalle colonne dei suoi giornali.

In quei mesi Benchemsi apre un blog, moltiplica le collaborazioni con i media internazionali e getta le basi per il progetto Free Arabs. Proprio da una di queste collaborazioni, con il quotidiano Le Monde, nascono i problemi che vedono oggi il giornalista marocchino dover rispondere ad una denuncia per diffamazione di fronte alla giustizia parigina.

L'articolo in questione - "La grande corruption règne en maître au Maroc" - descrive un paese "minato dai conflitti di interesse (…) dove i poteri forti godono della complicità delle autorità elette e viceversa". A depositare la querela è stato nientemeno che il secretaire particulier del sovrano marocchino, Mounir Majidi: "l'uomo più detestato dagli imprenditori […] per la concorrenza sleale che esercita in nome del monarca e dei suoi interessi personali", scrive Benchemsi, che nell'inchiesta documenta un grave episodio di malversazione - passato sotto silenzio in patria - a beneficio di una delle società di cui è proprietario Majidi.

Nonostante il peso della minaccia, l'ex direttore di TelQuel si dice tranquillo - "vista anche la garanzia di imparzialità fornita dal tribunale francese" - ed è pronto a ribattere ad ogni accusa. Intervista ad Ahmed Benchemsi.

Khalid Gueddar

Cominciamo dall'inizio. Nel suo ultimo editoriale firmato per TelQuel, in data 25 dicembre 2010, scriveva: "Me ne vado perché arriva un momento, nella vita di ognuno, in cui bisogna saper prendere le distanze e osare verso nuove esperienze". Le sue parole, al tempo, furono oggetto di qualche polemica e svariate interpretazioni. Cerchiamo di fare chiarezza. La sua partenza dal Marocco, pochi mesi dopo la chiusura del settimanale Nichane, può essere considerato un "esilio volontario"?

In un certo senso sì. La pressione cominciava a diventare troppo forte. Dopo il triste epilogo di altre testate indipendenti (al-Jarida al-Oula, Le Journal Hebdomadaire..), le autorità stavano puntando il mirino contro il gruppo editoriale TelQuel, i segnali erano inequivocabili. Non volevo che il giornale (TelQuel) subisse la stessa sorte di Nichane, vittima di un'asfissia finanziaria programmata, così - per evitarlo - ho deciso di allontanarmi, anche fisicamente. Molti pionieri della stampa marocchina avevano già abbandonato il paese, lasciando dietro di loro un paesaggio mediatico sempre più sotto controllo. Tra i direttori della mia generazione sono stato l'ultimo a partire.


Per uno come lei, sempre in prima linea nella battaglia per il cambiamento e la democrazia, non è stato frustrante partire proprio alla vigilia delle mobilitazioni, che anche in Marocco - come in altri paesi della regione - hanno riempito le piazze per diversi mesi del 2011?

Sì, è stato davvero frustrante seguire le "primavere" da lontano, negli Stati Uniti. Per fortuna sono tornato spesso in zona ed ho assistito alle manifestazioni del 24 aprile in Marocco. E' vero, non avevo più una tribuna settimanale per esprimermi sull'argomento, come con TelQuel, ma ho avuto modo di pubblicare molto sulla stampa internazionale (Time, Le Monde, The Guardian..) ed il tempo di maturare analisi più approfondite su quanto stava accadendo nel paese (la nascita del movimento di protesta 20 febbraio, la reazione del regime..). Analisi tradotte poi in contributi per diverse riviste accademiche [segnaliamo l'articolo "Morocco: Outfoxing the Opposition" per il Journal of Democracy].


Molti contributi e riflessioni sul contesto sociale e politico marocchino sono arrivati anche dal suo blog. Come riassumerebbe gli ultimi due anni e mezzo, segnati prima dalla protesta popolare e poi dal "processo di riforma" (nuova costituzione, elezioni anticipate) intrapreso dalla monarchia? Scemata l'onda del "20 febbraio", pensa che il regime si sia messo al riparo da ipotetici scenari "rivoluzionari"?

Difficile riassumere in poche righe quanto successo in Marocco dal 2011 senza correre il rischio di semplificare troppo, e ancor peggio di banalizzare, la situazione. Per tornare al blog, e favorire una migliore comprensione del contesto, segnalo due articoli - Morocco's constitution: a royal trickery; Feb20's rise and fall: a moroccan story - che rispondono nel dettaglio alla sua domanda.

In estrema sintesi, la monarchia marocchina è riuscita a guadagnare tempo con una costituzione ingannevole che, nonostante le lodi tessute dentro e fuori dal paese, non ha ridotto i poteri e il peso specifico del sovrano, come invece chiesto dai manifestanti. D'altra parte in questi due anni il movimento 20 febbraio, che nel 2011 ha rappresentato una concreta speranza di cambiamento, si è sgretolato a causa della fragile organizzazione (tra cui l'assenza di figure di spicco e di un programma chiaro).

Ma, al di là delle apparenze, la situazione non è affatto stabile.

Il PJD [Partito della giustizia e dello sviluppo, di ispirazione islamica, vincitore alle elezioni del novembre 2011, nda], almeno con l'attuale leadership, non rappresenta una minaccia per il regime. Si accontenta dello spazio che gli è stato concesso: può guidare formalmente il governo, ma non mette in discussione l'autocrazia (direttive di Palazzo) e la corruzione su cui si fonda il sistema. Se non cambierà linea (e dirigenti) l'unico risultato che otterrà da questa prima esperienza all'esecutivo sarà perdere credibilità e sostegno popolare, come già avvenuto con i colleghi socialisti e nazionalisti che l'hanno preceduto.

Intanto però, i motivi che avevano spinto migliaia di marocchini a scendere in strada - giustizia sociale, equa ripartizione delle risorse, fine della corruzione e del dispotismo delle autorità - restano più che mai d'attualità. E' solo una questione di tempo, ma la gente tornerà a manifestare. Sarà difficile per la monarchia, in quell'occasione, utilizzare una seconda volta il trucco della costituzione per calmare gli animi.


Veniamo adesso alle questioni di attualità, che la riguardano in prima persona: la querela per diffamazione depositata contro di lei presso il tribunale di Parigi dal segretario particolare del re Mounir Majidi. Sembra che lasciare il territorio marocchino non le sia bastato ad evitare le ritorsioni del regime. Dopo i processi in patria, adesso la inchiodano perfino in Francia… perché spingersi così in là?

Non troppo in là, visti i trascorsi passati e dalla loro prospettiva mi sembra una mossa normale, prevedibile. Con la differenza, questa volta, che il processo si svolgerà in un tribunale francese, per me garanzia di indipendenza. Trovarsi di fronte a ritorsioni di questo tipo è il prezzo da pagare quando si difendono valori che un sistema viola quotidianamente.

Mounir Majidi mi accusa di diffamazione perché in un'inchiesta, pubblicata prima sul blog e poi rielaborata per il giornale Le Monde, ho denunciato il traffico di influenze esercitato attraverso la sua "particolare" posizione. Il governo marocchino aveva in programma di versare fondi pubblici ad una società privata appartenente al segretario del re Majidi. Un genere di abusi piuttosto consolidato, risultato del matrimonio malsano tra potere e gestione economica che non è più possibile ignorare (e che alcuni giornalisti indipendenti avevano già provato a denunciare). 

Quanto al processo sono tranquillo e la mia linea difensiva è semplice: posso provare, come ho già fatto nell'articolo, ogni cosa che ho scritto.


In base alla sua esperienza, e considerando anche gli ultimi eventi che vedono il giornalista Ali Anouzla vittima di un nuovo processo dopo aver pubblicato sul sito Lakome una critica aperta al sovrano, qual è la situazione della libertà di stampa e di espressione in Marocco?

Il margine di manovra della stampa indipendente, oggi, è nettamente inferiore a quello di dieci anni fa. Come illustrano bene le vicende dei settimanali Nichane e Le Journal Hebdomadaire, il Palazzo ha ripreso le redini del settore appena ha capito che il tallone d'Achille dei giornali era il finanziamento. La monarchia controlla - o condiziona - le grandi imprese, che danno linfa vitale ai giornali attraverso le inserzioni pubblicitarie. Chi supera i limiti consentiti, ne viene privato.

Sono pochi oggi i supporti che continuano a battersi per conservare la propria indi dipendenza. Tra questi TelQuel, ma è soprattutto dalla stampa on-line che arriva il maggior soffio di libertà e intraprendenza. Adesso, tuttavia, sembra essere arrivato il suo turno di saldare il conto, lo dimostrano gli attacchi ad Ali Anouzla, a cui va tutta la mia solidarietà


Il "maggior inquadramento" dei giornali on-line sembra essere uno dei punti cardine del nuovo Codice della stampa, in fase di revisione finale secondo quanto annunciato dal ministro della Comunicazione. Tra le novità positive del testo, sempre secondo le dichiarazioni ufficiali, si dice che verranno eliminate le pene detentive attualmente in vigore per i giornalisti. Che cosa ne pensa?

Aspetto di vedere il codice. Sono anni ormai che si parla di questa riforma e l'esperienza mi ha insegnato a diffidare degli effetti annuncio.


Qualche mese fa Osservatorioiraq.it si era soffermato sull'avvio della sua nuova iniziativa editoriale, il sito Free Arabs. Come sta andando quest'esperienza?

Bene direi, sia i collaboratori che i lettori sono in continuo aumento. Sto puntando molto su Free Arabs che considero un secondo TelQuel, in rete e su scala internazionale. L'approccio è lo stesso, un sito di informazione militante che difende i valori del secolarismo, le libertà individuali e la creatività (satira..). Una battaglia estremamente attuale nel mondo arabo.

Alla caduta di ogni dittatura, le società coinvolte nei processi di transizione si sono trovate di fronte al dibattito su come impostare il loro avvenire: secondo i dettami dei valori religiosi o secondo i principi dei diritti umani universali. I sostenitori del primo campo sono risultati più forti e meglio strutturati e per i secondi c'è bisogno di maggior organizzazione e chiarezza nelle rivendicazioni. 

Free Arabs è un progetto ambizioso, che andrà valutato sul lungo periodo. Di certo in questa situazione mi sento più libero che in passato e non solo per il fatto di trovarmi negli Stati Uniti piuttosto che in Marocco. Non ho più la responsabilità di un intero gruppo editoriale e il futuro di decine di dipendenti da salvaguardare. La nostra è un'impresa immateriale basata su contributi e collaborazioni volontarie. La sola responsabilità che abbiamo è quella di difendere le nostre idee. Questo senso di "leggerezza" non ha prezzo.


Cosa le manca di più del Marocco e di cosa, invece, fa volentieri a meno?

Sarò scontato, ma a mancarmi di più sono la famiglia e gli amici, oltre alla vivacità culturale e alla cucina locale. Cosa mi manca di meno? Il traffico e le lunghe code di Casablanca [risata divertita, nda].




(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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