Il
paese si ritrova con un'equazione senza risposta: il cambiamento sembra far
paura agli algerini, anche a quelli che lo domandano, e spaventa un regime che
tuttavia ne avrebbe bisogno per sopravvivere.
Traduzione
dell'articolo di Kamel Daoud* pubblicato dalla rivista Afkar/idées, Eté 2013,
n. 38, pp. 38-41.
L'Algeria
è un grande punto nero nella cartografia del mondo arabo in agitazione. Non
sembra andare verso una dittatura ferrea, ma nemmeno verso la democrazia. Prevale
uno strano statu quo. Non si sa quello che succede, si ignora chi governi,
quello che ne sarà dei suoi islamisti degli anni '90 e si sa ancor meno sul
modo in cui verranno scelti i dirigenti di domani e sul modo con cui ci si
sbarazzerà (finalmente) dei martiri di ieri.
In
un vasto salone del Ministero, ad Algeri, una delle figure-chiave che amministra
il paese in questo periodo di "interregno" (il presidente Bouteflika
è malato da mesi ed ha recentemente trascorso diverse settimane di ricovero in
Francia) risponde all'autore dell'articolo, che gli ha appena rinfacciato il
carattere artigianale delle comunicazioni ufficiali e la leggendaria mancanza
di trasparenza del sistema:
"Sa, un giorno,
durante la visita di un Presidente francese in Algeria, il suo ministro
dell'Interno mi ha rimproverato l'opacità del sistema algerino e la mancanza di
visibilità. Ho sorriso e gli ho risposto che l'opacità è la nostra sola forza
di fronte al mondo. E' ciò che ci protegge e che protegge il paese, e voi
volete togliercelo?".
In
Algeria il reale è una finzione, il potere è clandestino, dietro ogni algerino
si nasconde un altro algerino e le apparenze diventano consenso. E' il mito
fondatore della res publica nel
paese: chi decide non è colui che appare e che si fa carico di tali decisioni. La
sindrome della clandestinità, figlia della guerra di liberazione fin dall'epoca
delle prime azioni del Fronte di liberazione nazionale (FLN), è ormai la
malattia di un popolo che vive nel sottinteso, nel sospetto e nel dubbio.
E'
questa equazione, in primis, ad aver intrappolato il tentativo di "primavera"
algerina, nel febbraio 2011. Il paese aveva tutto per arrivare ad una
rivoluzione: introiti petroliferi mal amministrati, ingiustizia,
disuguaglianza, disoccupazione - essenzialmente giovanile - confrontata ad una
gerontocrazia minoritaria che detiene il potere in nome dei martiri della
guerra di liberazione oppure in nome di una sorta di tutoria necessaria per la
protezione del paese, ormai sfociata in pura cultura feudale. Un po' come
dappertutto in Africa, dove i protagonisti della decolonizzazione hanno
lasciato il posto al fantasma del "padre del popolo" e del mito
fondatore.
Per
questo nel febbraio 2011, con la Tunisia e l'Egitto in rivoluzione, il mondo ha
rivolto lo sguardo verso il terzo paese candidato: l'Algeria. Un movimento
politico - la Coordination pour le changement et la démocratie - che
raggruppava studenti, oppositori e militanti di diversa natura, ha tentato di
innescare l'effetto domino, chiamando a manifestazioni di massa, ma non ha
avuto vita lunga e si è dissolto dopo qualche settimana. Il regime aveva dalla
sua l'esperienza nella gestione di questo tipo di minacce (divieto per i
poliziotti di utilizzare le armi da fuoco per non "creare dei
martiri") e il popolo non ha accompagnato il sollevamento.
I motivi
dell'immobilismo
I
motivi sono difficili da capire, forse, per chi non è algerino. In primo luogo
bisogna considerare il traumatismo lasciato dalla "guerra civile"
degli anni '90, guerra che ha fatto circa 200 mila morti. Al tempo, gli
islamisti del FIS (Front islamique du salut, ndt) avevano vinto le elezioni, ma il regime ha dimesso dalle sue
funzioni il presidente Chadli Bendjedid, sospeso il processo elettorale dando
il via al confronto armato. Questo ha portato alla perdita di vite umane, distruzione
e dieci anni di instabilità e orrori. Ora, quando si è appena usciti da una
guerra, non si vuole più neanche uscire di casa. Gli appelli alla rivolta
lanciati nel febbraio 2011, rimasti per lo più inascoltati, ne sono una
conferma.
In
secondo luogo, c'è la frammentazione dell'opposizione. Quando, nei primi giorni
di quel febbraio, il comitato incaricato di instradare la "primavera
algerina" ha cercato di proporre degli slogan unitari, federatori, non è
stato capace di trovarne. Una rivoluzione si riconosce anche dal consenso sugli
obiettivi da raggiungere, ma gli algerini sembravano non sapere quello che
bisognava chiedere una volta scesi in strada: esigere la caduta del regime? Di
Bouteflika? Di tutti? Chi cacciare, Ben o Ali? Lo abbiamo già detto, quello
algerino è un sistema opaco, dove il presidente è eletto ma le dittature sono
anonime, familiari, sostenute da lobby e caserme.
Altro
elemento cruciale: la propaganda delle autorità, ben "lavorata"
durante tutto il 2011. La "primavera algerina", in effetti, aveva già
un antecedente: così gli eventi dell'ottobre 1988 (rivolta contro il partito
unico) - con le loro centinaia di morti, le migliaia di persone finite sotto
tortura e la deriva islamista - sono stati recuperati dal regime e presentati
come una "primavera" già consumata. "L'Algeria ha già
pagato", ripeteva nell'aprile 2011 l'allora primo ministro Ahmed Ouyahia;
lo stesso copione è stato ripetuto per mesi dall'attuale ministro degli Esteri
Mourad Medelci durante le visite ufficiali in Occidente.
In
quella situazione, con i vicini in subbuglio, bisognava immobilizzare tanto le
masse all'interno del paese che paralizzare le pressioni internazionali rivolte
al cambiamento. Così gli eventi dell'ottobre '88 - a lungo considerati un
"baccano infantile" dalle autorità - sono ormai venduti come una
rivoluzione anticipata, una "primavera" ante litteram.
Infine,
il regime ha saputo utilizzare bene la retorica e le allusioni rispetto a
quanto gli stava accadendo intorno. L'inizio dei disordini islamisti in Egitto
e Tunisia, e soprattutto la rivoluzione assistita in Libia, con il sostegno
della NATO e della Francia, sono stati strumentalizzati da Algeri per riattivare
il traumatismo coloniale. Il messaggio, diffuso a tamburo battente nei giornali
di fiducia e nelle tv di Stato, consisteva nel dire: "se vi rivoltate
avrete il ritorno in forze della Francia, oltre ad una riedizione della guerra
civile". Abbastanza da inibire la popolazione e disperderla nella paura.
Al
momento delle elezioni legislative del 2012, i tenori del regime hanno
addirittura proposto uno slogan dalle tinte surrealiste. "Votate contro il
cambiamento", ripeteva il premier Ouyahia durante la campagna elettorale.
Ecco allora che il cambiamento ha assunto il significato di caos, disordine,
minaccia, islamismo e guerra, o ancora il ritorno dei colonizzatori.
Il regime algerino: né
dittatura ferrea né democrazia
La
primavera algerina aveva buone ragioni per fare la sua rivoluzione, ma anche
delle buone ragioni per non farla. C'era il rischio di infrangere la pace
sociale post anni '90, la paura, il traumatismo coloniale, la mancanza di
consenso e un ultimo dettaglio: il regime non aveva vertici identificabili. Gli
mancava un Mubarak, un colonnello folle alla stregua di Gheddafi oppure un Ben
Ali. Il sistema non offre bersagli chiaramente identificabili. La presidenza
stessa è percepita come una vittima del regime. Il presidente non riveste il
ruolo del dittatore. La dittatura è un "tutto", una matrice dello
Stato costituita da 200 famiglie e qualche generale. Chi bisognava cacciare in
Algeria? La selezione sarebbe stata difficile.
Per
capire meglio il contesto algerino, bisogna immaginare una Tunisia con enormi
riserve di petrolio, senza Ben Ali ma con centinaia di Trabelsi molto voraci quanto
discreti. In Algeria, secondo la "mitologia" locale, il potere reale
non è visibile e il potere visibile non è reale, pur essendo responsabile della
conduzione del paese. Gli organi statali (presidenza, camere, eletti..) sono
considerati una facciata, il potere è clandestino (servizi segreti militari,
polizia politica, lobby, graduati). Il tutto gestito con una forte retorica
paternalistica ("senza di noi sarebbe il caos, il popolo si farebbe
massacrare e spianerebbe il ritorno della Francia") attraverso un
"consiglio di amministrazione" semi-anonimo che regola gli accessi
alla rendita petrolifera secondo la clientela e i bisogni del momento.
Questo
spiega un paradosso spossante agli occhi dell'osservatore straniero: non si
tratta di una dittatura ferrea, diretta, ma nemmeno di una democrazia. In
Algeria la stampa è più libera che in altre parti del mondo arabo, da due
decenni c'è il multipartitismo, elezioni presidenziali pluraliste, un'opinione
pubblica che si esprime, associazioni e una certa libertà. Ma vi sono
ugualmente una partitura accuratamente dettata e costruita e una democrazia
controllata: le manifestazioni sono vietate, il multipartitismo è un prodotto
"in vitro" del Ministero dell'Interno, le elezioni sono segnate da
frodi e irregolarità, la polizia politica è onnipresente, non vi sono veri
contro-poteri né una giustizia indipendente o un controllo sull'esercito e le
sue spese. Infine, gli oppositori subiscono costantemente minacce, pressioni,
intimidazioni. Insomma, si tratta di una dittatura "molle", dove
l'accentramento del potere non esclude la presenza di autorità locali
(prefetti, governatori) potenti e, su certe scelte, indipendenti.
In
Algeria ci si può considerare formalmente liberi, ma liberi di "girare in
tondo", di ripiegarsi su se stessi. Votiamo, ma è il regime che elegge. Gli
imprenditori sono tenuti sotto stretto controllo, legati da un contratto di
obbedienza, quasi una sorta di patrocinio irrinunciabile, che impedisce
l'emergere di una volontà "liberale" realmente autonoma. La repressione
dei militanti è ben studiata: vengono lasciati emergere dei leader di facciata
(destinati al "consumo" internazionale) ma si soffocano gli attivisti
di base, isolando così i leader stessi. La stampa è libera (seppur stretta dalla
morsa degli inserzionisti pubblicitari, essenzialmente pubblici) ma tra i cosiddetti
giornali indipendenti ce ne sono molti diretti da prestanome del regime per
fare da "contrappeso". Quando nascono organizzazioni o associazioni
dissidenti le autorità, attraverso il braccio dei servizi, le fanno rapidamente
sprofondare in una serie di lotte intestine e scissioni, provocandone la
paralisi e gettando discredito sugli aderenti. In questo modo sono stati
neutralizzati, ad esempio, il movimento berberista, i sindacati autonomi e le
organizzazioni universitarie.
La regola: quando la
dittatura è sfuocata l'opposizione è miope
La
prima risposta da dare alla domanda "Algeria: il cambiamento
impossibile?" riposa in un assunto ormai chiaro. Per compiere una
rivoluzione c'è bisogno di una dittatura identificabile, assente nel caso
algerino. Nel paese si contano circa 9mila rivolte locali all'anno, secondo le
cifre rese note dalla gendarmerie, ma
nessuna rivoluzione in mezzo secolo di indipendenza. Secondo gran parte
dell'opinione pubblica, il presidente non sarebbe un dittatore ma - a sua volta
- una vittima del "sistema": "è una persona per bene, ma mal
consigliata", si sente spesso nei café.
Chi è allora il dittatore in Algeria? Un po' tutti, dal bigliettaio al generale
dell'esercito.
Bisogna
poi considerare un altro grande ostacolo al cambiamento dal basso: il petrolio.
Dal 2011 il regime ha capito che bisognava pagare i "Bouazizi"
piuttosto che lasciarli immolare e innescare la temuta "primavera".
Crediti senza interesse e prestiti a fondo perduto sono stati garantiti ai
giovani, ossia alla maggioranza della popolazione, ricorrendo ai lauti introiti
degli idrocarburi. La strategia di seduzione ha poi fatto leva sull'avvio di
progetti per la costruzione di alloggi popolari, sulle assunzioni statali e
altre misure del genere. Le autorità hanno preferito "pagare piuttosto che
cambiare". Questo ha scatenato un inevitabile richiamo e una moltiplicazione
esponenziale di sit-in, scioperi, rivolte, occupazioni, il tutto all'interno di
una sorta di tacito accordo, invisibile all'osservatore straniero: le proteste
non chiedevano "la caduta del sistema" ma "l'integrazione nel
sistema". "Voglio la mia parte di petrolio" era il motto, e non
"voglio la caduta del regime". "Partage!"
e non "dégage!". Un ragazzo,
che si era dato fuoco per chiedere un alloggio decente, spiegava alla stampa
dopo aver lasciato l'ospedale: "voglio soltanto una casa, non sono
Bouazizi". E' l'accordo provvisorio su cui prova a reggersi il paese:
niente rivoluzione ma redistribuzione momentanea degli introiti degli
idrocarburi. Per ottenere qualche beneficio non serve l'insurrezione generale,
basta un focolaio di rivolta.
Ecco
dunque il secondo elemento di risposta al perché, in Algeria, il cambiamento
sembra impossibile (almeno a corto termine). Le elite chiedono una transizione
dolce (per evitare il ritorno degli islamisti), le classi medie e popolari
chiedono invece la spartizione della rendita.
Islamisti: tra declino
e disgregazione
E
gli islamisti in tutto questo? Oggetto di fascinazione politica in tutto il
mondo e invischiati nelle strategie di potere dei paesi arabi, gli islamisti in
Algeria sono prima di tutto la fonte di brutti ricordi. Sono arrivati, sono
stati battuti e si sono dispersi. Una situazione comunque curiosa, quella
algerina: se il pluralismo politico è a dir poco gracile (rari e deboli sono i
partiti democratici) quello islamista è in aperta sperimentazione.
In
questo senso, e contrariamente agli altri paesi arabi, negli ultimi due decenni
gli islamisti hanno perso terreno sul piano politico. Gli viene rimproverato
l'incubo della guerra civile, il radicalismo assassino, l'ingenuità politica
(progetto di un nuovo Califfato) e soprattutto - nell'ultimo decennio - la
complicità con il regime. Alla fine degli anni novanta è poi avvenuto il loro
sfaldamento (in verità già iniziato con l'avvento del multipartitismo, ndt): alcuni si sono dati alla macchia
per continuare la resistenza, oppure si sono trasferiti più a sud, nel Sahara,
per coltivare il sogno del Sahelistan e di Aqmi (Al-Qaida nel Maghreb
islamico). Altri hanno scelto la via delle urne, optando per una partecipazione
critica al potere. Infine, una terza categoria si è consacrata alla
predicazione per "convertire" il popolo e prepararlo al Califfato attraverso
le parole e non con gli attentati.
Da
queste scissioni sono usciti nuovi leader che si danno battaglia, a colpi di
rivelazioni compromettenti sugli "anni neri", contribuendo così a
discreditarsi agli occhi dell'opinione pubblica. Manipolato, "comprato",
cooptato o più semplicemente ridotto al silenzio, il seguito del vecchio FIS è
ormai soltanto un lontano ricordo: la sua base si è vista scomunicata, i suoi
vertici sono riparati in Qatar o si trovano agli arresti domiciliari, i suoi
militanti sono invecchiati. Non sono più una fonte di "cambiamento"
anche se, all'occorrenza, potrebbero tornare in pista.
In
occasione della "primavera araba", ad esempio, un lungo brivido ha
percorso la schiena di questi "teo-militanti", senza tuttavia sortire
risultati. Durante la sua visita ampiamente mediatizzata in Algeria, all'indomani
della rivoluzione tunisina, Rachid Ghannouchi si è intrattenuto a lungo con il
presidente del MSP (Mouvement de la société pour la paix, formazione islamista
nata ad inizio anni '90 in contrapposizione al FIS, vicina alla Fratellanza
musulmana) per una sorta di benedizione anticipata in vista delle future
elezioni. Ma l'effetto contagio non c'è stato. Alle legislative del 2012, nonostante
le alleanze, i partiti islamici non hanno ottenuto grandi risultati. E a
ragione: "vivono ancora in una sorta di bolla speculativa degli anni '90:
credono di avere ancora in mano le piazze e la popolazione algerina", ha spiegato
un politologo. In termini più realistici, si tratta di uno strano paradosso:
l'islamismo verticale, mirato alla conquista del potere, ha fallito, mentre
quello orizzontale, alla conquista dell'abbigliamento, dei programmi
televisivi, dei corpi e delle idee gode ancora di buona salute.
Nel
corso del suo 5° congresso, tenutosi il 2 maggio 2013 (un anno dopo le
elezioni, ndt), il MSP ha dato il
benservito al segretario generale Bouguerra Soltani, un partecipazionista
discreditato, per rimpiazzarlo con un "radicale" soft: Abderrazak
Mokri, il cui obiettivo è riconquistare non un posto nel governo, ma una certa
verginità. Una barba più allungata rispetto ai predecessori, che si erano
ricavati un posto al sole dell'esecutivo, tra cui due ministri in carica che
hanno preferito lasciare il partito piuttosto che le loro poltrone. Il nuovo
segretario sembra promettere una rivoluzione "dolce".
Nel
paese si è costituito quindi un multi-islamismo che disgrega l'elettorato e ne
riduce l'impatto. Il panorama va dai jihadisti nel Sahara ai partecipazionisti
del MSP, dai salafiti radicali (pertanto attenti e discreti) agli islamisti
"alla turca", fino alle confraternite senza ambizioni politiche,
passando per gli ex-FIS.
Paura esterna
dell'islamismo, timore interno del "vuoto": nessun cambiamento
Per
capire il blocco posto di fronte alle spinte verso il cambiamento nel paese,
bisogna poi prendere in considerazione due ultimi fattori. Primo, è chiaro che
il contesto internazionale - quello occidentale soprattutto - non ha più molta
simpatia per rivoluzioni arabe, che hanno la meglio sui dittatori per poi
rimpiazzarli con "califfi" o Fratelli musulmani. Il regime algerino
sembra così poter approfittare delle evoluzioni in corso: l'Occidente oggi
preferisce un Bouteflika ad un Morsi. Per la stabilità garantita, la sicurezza
dell'approvvigionamento energetico, i flussi migratori post-rivoluzioni e
l'imperativo securitario. Le lodi all'Algeria che coopera contro i terroristi,
che offre un mercato piuttosto stabile, riserve monetarie e che controlla i
suoi islamisti non smettono di piovere sul paese e sul suo "felice" regime.
A
questo si aggiunge l'assenza di alternative. Elemento che blocca sul nascere la
domanda interna di cambiamento: le autorità sono riuscite ad inculcare l'assunto
secondo cui "se non siamo noi e i nostri uomini, chi potrà governare
questo paese ingovernabile?". Così, sebbene Bouteflika sia malato da
diversi anni ed abbia subito recentemente un brusco aggravamento delle sue condizioni,
nessuno sembra prefigurarsi l'esistenza di candidati alternativi credibili.
Anzi, succede l'inverso: le assenze prolungate del Capo dello Stato provocano
paura e inquietudine in una parte dell'elettorato. Il regime è riuscito a scavare
il vuoto attorno a lui, e questo vuoto spaventa.
In
Algeria, nessuna istituzione o organizzazione - sindacato, esercito,
università, media, imprenditori - riesce a produrre dei leader. Le figure
emergenti provengono dai margini non integrati della società: sindacati
autonomi, movimenti a carattere territoriale (rivendicazione identitaria
amazigh, soprattutto in Cabilia, ndt)
e sociale, come per esempio i disoccupati del sud che stanno aumentando la loro
pressione sul regime e domandano la loro "decima". Posti di lavoro in
cambio di stabilità nelle zone sensibili di estrazione petrolifera, dove sono
presenti le grandi multinazionali.
Il
movimento del sud sembra oggi una delle minacce più serie che le autorità si
trovano a fronteggiare da un decennio a questa parte (l'insurrezione in Cabilia
nel 2001, ndt), un movimento che
tuttavia suscita timori al nord. L'inquietudine è dovuta alla propaganda di
regime - che presenta i manifestanti come pericolosi dissidenti e persone
manovrate dall'esterno - alle conseguenze della guerra in Mali sui confini
algerini, alla presenza del petrolio e alla confusione tra progetto unitario
nazionale ed esasperato centralismo su base securitaria. L'Algeria del nord
scopre così che le regioni meridionali non sono un Sahara vuoto. I leader dei
comitati di disoccupati sono accusati di essere dei secessionisti e di voler
dividere il paese. Loro rispondono, al contrario, di voler finalmente integrare
l'Algeria, le sue risorse, il suo petrolio e le sue rendite. Il movimento
sembra isolato, recuperato in alcune delle sue frange, ma il nocciolo duro
riesce a conservare una certa autonomia.
La
paura del vuoto, dunque, è un altro dei motivi che imbrigliano il cambiamento
politico e sociale. Un vuoto che reprime la speranza ma che nuoce allo stesso
regime. A forza di manipolare il "vivaio del pluralismo", facendo
terra bruciata attorno agli elementi per un possibile ricambio, le autorità si
ritrovano oggi senza nuove leve credibili e solide, senza la possibilità di una
"transizione soft" e senza idee. A forza di screditare i partiti, non
possono più farvi ricorso. (…)
Per
questo il paese si trova di fronte ad un dilemma senza apparente via d'uscita:
il cambiamento fa paura, agli algerini e al regime. Ma il cambiamento è anche
una necessità, per gli algerini che lo domandano e per lo stesso regime che - "gattopardianamente"
- ha bisogno di cambiare per sopravvivere. Al momento non ci sono soluzioni, a
parte quella sperimentata da sempre: guadagnare tempo. Perdendo soldi e….tempo
prezioso.
*
Kamel Daoud è un giornalista e novellista algerino. Attualmente collabora con Le Quotidien d'Oran e Algérie-focus.
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