Ogni
anno migliaia di persone si incamminano lungo le rotte migratorie che
dall'Africa puntano verso l'Europa. Tra loro sono molti quelli che finiscono
intrappolati a Ceuta, minuscola enclave spagnola lungo le coste del Marocco
settentrionale, a pochi chilometri dal "vecchio continente".
(Traduzione dell'articolo di Anais Lefébure per
JOL Press)
Di
fatto hanno raggiunto il territorio europeo, ma molto spesso si ritrovano imprigionati
nella piccola cittadina per anni, senza sapere quale sarà il loro futuro.
Vi
proponiamo il trailer del documentario Ceuta,
douce prison ("Ceuta, dolce prigione") - che uscirà nelle sale il
prossimo gennaio - e un'intervista a Jonathan Millet, regista del film assieme
a Loic H. Rechi.
Cosa l'ha portata a
girare questo film? Cosa ci raccontano le sue immagini?
Siamo
partiti a Ceuta con il progetto di scrivere un film sulle frontiere. L'idea era
di raccontare la realtà, la quotidianità di un piccolo territorio - perché
Ceuta è veramente una minuscola enclave spagnola in Marocco - mostrandone tutte
le disuguaglianze. Sul posto ci siamo resi conto che Ceuta non era solo la
frontiera tra il Marocco e la Spagna, ma tra il nord e il sud, e che questa
ristretta penisola simbolizzava bene tutte le disparità che possono esistere
tra i paesi del nord e quelli del sud. A fare da sfondo, un immenso muro che
permette agli abitanti di barricarsi e che protegge questa sorta di prigione a
cielo aperto; un limbo dove i migranti sono costretti a rimanere per anni.
Noi
abbiamo voluto raccontare tutto questo, affinché ogni spettatore possa farsi
alla fine la propria idea. Pensiamo inoltre che quanto succede a Ceuta sia ancora
poco conosciuto, divulgato, attraverso libri, film o televisione. Questa
assenza di immagini e di mediatizzazione ci ha stimolato, ci ha dato il
coraggio di alzare la voce per denunciare le condizioni quotidiane delle
migliaia di migranti "parcheggiate" nell'enclave.
Da dove provengono
principalmente i migranti che arrivano a Ceuta?
Dipende
dalle evoluzioni interne ai paesi d'origine. Quando siamo arrivati nel 2011
c'era un grande movimento di camerunensi e ivoriani, in seguito all'acuirsi
della crisi e degli scontri in Costa d'Avorio di due anni prima. Le rotte sono
lunghissime. Per questo le ripercussioni e le conseguenze di ciò che accade nei
paesi di provenienza arrivano alle frontiere d'Europa con qualche anno di
ritardo.
Ad
esempio, abbiamo conosciuto molti camerunensi che avevano originariamente
improntato il cammino verso la Libia. Soltanto che hanno raggiunto il paese in
piena "primavera araba" (con le bombe NATO e le gravi conseguenze
dell'instabilità sulla popolazione di pelle nera, ndt) e sono stati costretti a deviare in Algeria per poi arrivare a
Ceuta, via Marocco. Sempre nel 2011, c'erano anche indiani, pakistani, un
birmano e un cubano..insomma si tratta di un crocevia tra numerosi percorsi
migratori.
Qual è lo status dei migranti,
una volta che questi raggiungono Ceuta?
Uno
status incerto, senza nome: sono in attesa. Una volta fermati, vengono piazzati
in un centro di detenzione temporanea. Ma il centro è aperto, poiché l'intera
enclave è già in sé una "prigione". Possono circolare per la città,
senza abbandonarla: da una parte c'è il muro e dall'altra il mare.
Il
95% dei migranti che raggiungono la penisola sono rinviati nei rispettivi paesi
d'origine, ma la procedura può prendere fino a 5 o 6 anni, prima che un
verdetto li costringa a passare nei veri centri di detenzione della Spagna
europea e a prendere il volo di ritorno.
La
maggior parte dei migranti bloccati a Ceuta non sa nemmeno che cosa sta facendo
lì, che cosa aspettarsi per i mesi a venire. Restano in uno stato di totale
disinformazione, dal momento che gli abitanti dl posto difficilmente parlano
inglese o francese, il che rende la loro attesa ancor più penosa e dolorosa. Il
non sapere di cosa sarà fatto il domani si trasforma in angoscia sorda, che
mina il morale e la salute psichica dei migranti. (…)
Tra loro, c'è chi pensa
a tornare indietro spontaneamente nel momento in cui prendono coscienza di cosa
li attende a Ceuta?
Il
problema è che nel momento in cui arrivano a Ceuta, anche se volessero
rientrare a casa, non possono farlo da soli poiché non gli è permesso di
ripartire nell'altro senso. Inoltre, il ritorno implica altre pesanti
conseguenze. Alcuni sono fuggiti da situazioni politiche e sociali estreme,
altri hanno intere famiglie che contano sulla loro riuscita. Tornare indietro
non è la migliore delle ipotesi.
Quando
arrivano a Ceuta raccontano ai familiari che non sanno cosa potranno fare, che
lo scopriranno di giorno in giorno. Ad ogni modo, l'idea del ritorno è sinonimo
di fallimento e vergogna, di conseguenza in pochi la prendono in
considerazione. Sanno che cosa rischiano su questo tipo di rotte, hanno visto
un gran numero di morti - soprattutto nel deserto algerino - e sono consapevoli
di aver messo il loro presente in stand by, in attesa di una vita migliore più
avanti.
In questa situazione,
c'è uno slancio di solidarietà tra i migranti?
Sì.
Mentre lungo le rotte si registra una solidarietà soprattutto comunitaria, a
Ceuta c'è uno spirito molto più unitario, una sorta di compattezza: sanno di
essere soli contro il resto del mondo. I nemici sono facilmente identificabili:
i poliziotti, i guardiani del centro, gli agenti di pattuglia alla frontiera e
i militari, molto numerosi nell'enclave. Abbiamo assistito a momenti molto
forti, dove tutti questi migranti di lingua e nazionalità diversa - circa 8200
quando eravamo sul posto - si aiutavano tra loro, soprattutto per accogliere al
meglio gli ultimi arrivati.
Chi
arriva a Ceuta lo fa per mare (soprattutto dopo l'innalzamento della doppia
rete che segna il confine terrestre, ndt),
lasciandosi trasportare dalla corrente su piccole canoe o gommoni buttati in
acqua lungo le coste marocchine. Dopo 15 o 20 ore di tragitto, arrivano
completamente disidratati e in gravi condizioni. Sono sempre altri migranti a
prendersi cura di loro, qualunque sia la nazionalità. Si è sviluppata una
solidarietà molto simile a quella carcerale.
E' grazie
all'intervento di scafisti e trafficanti che raggiungono l'enclave spagnola?
No.
Ad esempio, noi abbiamo seguito dei ragazzi camerunensi che sono arrivati a
Ceuta passando per Nigeria, Niger, Algeria e Marocco. La maggior parte sono
partiti con pochi soldi in tasca. Impossibile in queste condizioni pagare un
trafficante, per come viene intesa questa figura in Europa. Piuttosto, i migranti
ricorrono ad aiuti individuali, occasionali, per superare i differenti ostacoli
che di volta in volta incontrano sul loro cammino. Un posto di blocco, la
polizia di frontiera..
Questi
"facilitatori", di solito, sono persone che hanno già vissuto l'esperienza
migratoria, senza successo, ma che non vogliono tornare a casa per timore di
mettere in piazza il loro fallimento. Sono una sorta di fixer, ma non hanno una vera rete o organizzazione alle spalle.
Arrivati in Marocco si nascondono nelle foreste vicine al mare, si radunano in
piccoli gruppi e fanno una colletta per acquistare un gommone, che
provvederanno loro stessi a mettere in acqua.
Come è vissuto l'arrivo
dei migranti dagli abitanti di Ceuta?
Piuttosto
male. Gli abitanti sono circa 70 mila, non molti. E la popolazione, in virtù
del contesto geografico e ambientale in cui si trova, è molto ripiegata su se
stessa. Nei confronti dei migranti, nel migliore dei casi, si ostenta
indifferenza, nel peggiore si passa agli insulti e a veri e propri atti di
razzismo. Politicamente, la situazione si riflette in un voto estremamente
conservatore. Nell'aria l'ostilità è palpabile.
I
marocchini che vivono a Ceuta sono gli unici che aiutano almeno un po' i
migranti, specie coloro che tentano di lavorare in nero (pulendo le macchine
nei parcheggi o aiutando a trasportare i carichi della spesa). Sono soprattutto
gli spagnoli anziani a mostrare risentimento e nervosismo, dovuto anche alla
lunga storia di esacerbato nazionalismo e di chiusura di questo piccolo avamposto
in territorio africano. In generale, Ceuta non brilla di certo quanto ad accoglienza.
Che cosa fanno le
autorità locali di fronte al fenomeno migratorio?
Quando
i gommoni non arrivano al porto, ma si allontanano alla deriva, la Croce Rossa
procede al salvataggio nelle acque spagnole e li trascina a riva. Una volta
arrivati nell'enclave, i migranti devono essere immatricolati dalla polizia,
che ne registra le generalità, e poi vengono iscritti al CETI (il centro
temporaneo per migranti). Quello che li aspetta in questo centro sono piccole
stanze sovraffollate. Molti preferiscono insediarsi nei boschi vicini, per
sopravvivere si danno alla pesca e ai lavoretti di fortuna in attesa che il
tribunale emetta il suo verdetto.
Quali politiche sono
state adottate per contrastare l'afflusso dei migranti?
Più
che con la Spagna, è con l'Europa che il Marocco si confronta. I paesi UE hanno
chiesto agli Stati adiacenti un appoggio nella lotta contro l'immigrazione ed
hanno concluso diversi accordi di buon vicinato. La sostanza è che il Marocco
deve rallentare il più possibile l'afflusso. Di conseguenza, Rabat procede a
retate periodiche sul suo territorio per fermare i migranti e spedirli oltre
frontiera nel deserto algerino, oppure li arresta e li lascia in carcere, rendendo
così la loro condizione più dura e penosa possibile. Abbiamo ascoltato racconti
atroci di migranti transitati per le prigioni marocchine. Le spiagge del regno
maghrebino sono super sorvegliate. Al momento del nostro passaggio circolavano
addirittura voci sul fatto che le autorità alawite pagassero dei senzatetto per
affondare i gommoni in partenza. Il Marocco si dimostra ligio alle consegne
europee..
Perché ha definito
Ceuta una "dolce prigione"?
I
primi migranti che abbiamo incontrato erano indiani. Ci confessavano gli enormi
problemi nel raccontare alle famiglie la loro situazione. Ceuta è territorio
spagnolo, ma si trova ancora in continente africano. E' una stazione balneare
dove fa bel tempo, dove ci sono spiagge, negozi e belle ragazze. Le foto che
inviavano ai familiari ritraevano tutto questo. Allo stesso tempo però, per
loro Ceuta è una prigione da cui è impossibile uscire autonomamente. Il
contrasto è terribile, quasi inesplicabile. (…)
Gli ultimi drammi
successi a Lampedusa potranno contribuire ad accendere i riflettori su quanto
sta accadendo a Ceuta?
Nel
caso di Lampedusa ci si è subito focalizzati sull'onda emotiva della tragedia,
ma ho avuto l'impressione che il problema globale non sia stato affrontato
seriamente, con un'analisi di fondo della situazione. Il problema non è legato
solo a Lampedusa, interessa tutta l'Europa e soprattutto le sue porte
d'ingresso. Io resto ottimista, per questo ho deciso di fare questo
documentario, per spingere alla riflessione su certe politiche, per aprire il
dibattito.
L'attualità,
purtroppo, sembra darci ragione. Si parla ancora di cifre, numeri e poco altro.
Noi invece abbiamo cercato di fare nomi e restituire identità. Perché lo
spettatore possa lui stesso identificarsi in questi migranti sconosciuti che
così tanto ci somigliano. La maggior parte delle persone che abbiamo incontrato
hanno la nostra stessa età, ascoltano la stessa musica, hanno punti di
riferimento simili. Prima di parlare di "300 camerunensi" o del
"25% di somali" ci interessa far sapere che ogni migrante ha una sua
forte personalità, una sua storia, spesso dura. Se si trovano su queste rotte è
perché degli eventi estremi li hanno costretti, non sono partiti per ingenuità
o divertimento.
(La versione in italiano di questo articolo è stata pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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