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mercoledì 30 ottobre 2013

Ceuta, prigione a cielo aperto

Ogni anno migliaia di persone si incamminano lungo le rotte migratorie che dall'Africa puntano verso l'Europa. Tra loro sono molti quelli che finiscono intrappolati a Ceuta, minuscola enclave spagnola lungo le coste del Marocco settentrionale, a pochi chilometri dal "vecchio continente".


(Traduzione dell'articolo di Anais Lefébure per JOL Press)

Di fatto hanno raggiunto il territorio europeo, ma molto spesso si ritrovano imprigionati nella piccola cittadina per anni, senza sapere quale sarà il loro futuro.

Vi proponiamo il trailer del documentario Ceuta, douce prison ("Ceuta, dolce prigione") - che uscirà nelle sale il prossimo gennaio - e un'intervista a Jonathan Millet, regista del film assieme a Loic H. Rechi.


Cosa l'ha portata a girare questo film? Cosa ci raccontano le sue immagini?

Siamo partiti a Ceuta con il progetto di scrivere un film sulle frontiere. L'idea era di raccontare la realtà, la quotidianità di un piccolo territorio - perché Ceuta è veramente una minuscola enclave spagnola in Marocco - mostrandone tutte le disuguaglianze. Sul posto ci siamo resi conto che Ceuta non era solo la frontiera tra il Marocco e la Spagna, ma tra il nord e il sud, e che questa ristretta penisola simbolizzava bene tutte le disparità che possono esistere tra i paesi del nord e quelli del sud. A fare da sfondo, un immenso muro che permette agli abitanti di barricarsi e che protegge questa sorta di prigione a cielo aperto; un limbo dove i migranti sono costretti a rimanere per anni.

Noi abbiamo voluto raccontare tutto questo, affinché ogni spettatore possa farsi alla fine la propria idea. Pensiamo inoltre che quanto succede a Ceuta sia ancora poco conosciuto, divulgato, attraverso libri, film o televisione. Questa assenza di immagini e di mediatizzazione ci ha stimolato, ci ha dato il coraggio di alzare la voce per denunciare le condizioni quotidiane delle migliaia di migranti "parcheggiate" nell'enclave.


Da dove provengono principalmente i migranti che arrivano a Ceuta?

Dipende dalle evoluzioni interne ai paesi d'origine. Quando siamo arrivati nel 2011 c'era un grande movimento di camerunensi e ivoriani, in seguito all'acuirsi della crisi e degli scontri in Costa d'Avorio di due anni prima. Le rotte sono lunghissime. Per questo le ripercussioni e le conseguenze di ciò che accade nei paesi di provenienza arrivano alle frontiere d'Europa con qualche anno di ritardo.

Ad esempio, abbiamo conosciuto molti camerunensi che avevano originariamente improntato il cammino verso la Libia. Soltanto che hanno raggiunto il paese in piena "primavera araba" (con le bombe NATO e le gravi conseguenze dell'instabilità sulla popolazione di pelle nera, ndt) e sono stati costretti a deviare in Algeria per poi arrivare a Ceuta, via Marocco. Sempre nel 2011, c'erano anche indiani, pakistani, un birmano e un cubano..insomma si tratta di un crocevia tra numerosi percorsi migratori.


Qual è lo status dei migranti, una volta che questi raggiungono Ceuta?

Uno status incerto, senza nome: sono in attesa. Una volta fermati, vengono piazzati in un centro di detenzione temporanea. Ma il centro è aperto, poiché l'intera enclave è già in sé una "prigione". Possono circolare per la città, senza abbandonarla: da una parte c'è il muro e dall'altra il mare.

Il 95% dei migranti che raggiungono la penisola sono rinviati nei rispettivi paesi d'origine, ma la procedura può prendere fino a 5 o 6 anni, prima che un verdetto li costringa a passare nei veri centri di detenzione della Spagna europea e a prendere il volo di ritorno.

La maggior parte dei migranti bloccati a Ceuta non sa nemmeno che cosa sta facendo lì, che cosa aspettarsi per i mesi a venire. Restano in uno stato di totale disinformazione, dal momento che gli abitanti dl posto difficilmente parlano inglese o francese, il che rende la loro attesa ancor più penosa e dolorosa. Il non sapere di cosa sarà fatto il domani si trasforma in angoscia sorda, che mina il morale e la salute psichica dei migranti. (…)


Tra loro, c'è chi pensa a tornare indietro spontaneamente nel momento in cui prendono coscienza di cosa li attende a Ceuta?

Il problema è che nel momento in cui arrivano a Ceuta, anche se volessero rientrare a casa, non possono farlo da soli poiché non gli è permesso di ripartire nell'altro senso. Inoltre, il ritorno implica altre pesanti conseguenze. Alcuni sono fuggiti da situazioni politiche e sociali estreme, altri hanno intere famiglie che contano sulla loro riuscita. Tornare indietro non è la migliore delle ipotesi.

Quando arrivano a Ceuta raccontano ai familiari che non sanno cosa potranno fare, che lo scopriranno di giorno in giorno. Ad ogni modo, l'idea del ritorno è sinonimo di fallimento e vergogna, di conseguenza in pochi la prendono in considerazione. Sanno che cosa rischiano su questo tipo di rotte, hanno visto un gran numero di morti - soprattutto nel deserto algerino - e sono consapevoli di aver messo il loro presente in stand by, in attesa di una vita migliore più avanti.


In questa situazione, c'è uno slancio di solidarietà tra i migranti?

Sì. Mentre lungo le rotte si registra una solidarietà soprattutto comunitaria, a Ceuta c'è uno spirito molto più unitario, una sorta di compattezza: sanno di essere soli contro il resto del mondo. I nemici sono facilmente identificabili: i poliziotti, i guardiani del centro, gli agenti di pattuglia alla frontiera e i militari, molto numerosi nell'enclave. Abbiamo assistito a momenti molto forti, dove tutti questi migranti di lingua e nazionalità diversa - circa 8200 quando eravamo sul posto - si aiutavano tra loro, soprattutto per accogliere al meglio gli ultimi arrivati.

Chi arriva a Ceuta lo fa per mare (soprattutto dopo l'innalzamento della doppia rete che segna il confine terrestre, ndt), lasciandosi trasportare dalla corrente su piccole canoe o gommoni buttati in acqua lungo le coste marocchine. Dopo 15 o 20 ore di tragitto, arrivano completamente disidratati e in gravi condizioni. Sono sempre altri migranti a prendersi cura di loro, qualunque sia la nazionalità. Si è sviluppata una solidarietà molto simile a quella carcerale.


E' grazie all'intervento di scafisti e trafficanti che raggiungono l'enclave spagnola?

No. Ad esempio, noi abbiamo seguito dei ragazzi camerunensi che sono arrivati a Ceuta passando per Nigeria, Niger, Algeria e Marocco. La maggior parte sono partiti con pochi soldi in tasca. Impossibile in queste condizioni pagare un trafficante, per come viene intesa questa figura in Europa. Piuttosto, i migranti ricorrono ad aiuti individuali, occasionali, per superare i differenti ostacoli che di volta in volta incontrano sul loro cammino. Un posto di blocco, la polizia di frontiera..

Questi "facilitatori", di solito, sono persone che hanno già vissuto l'esperienza migratoria, senza successo, ma che non vogliono tornare a casa per timore di mettere in piazza il loro fallimento. Sono una sorta di fixer, ma non hanno una vera rete o organizzazione alle spalle. Arrivati in Marocco si nascondono nelle foreste vicine al mare, si radunano in piccoli gruppi e fanno una colletta per acquistare un gommone, che provvederanno loro stessi a mettere in acqua.


Come è vissuto l'arrivo dei migranti dagli abitanti di Ceuta?

Piuttosto male. Gli abitanti sono circa 70 mila, non molti. E la popolazione, in virtù del contesto geografico e ambientale in cui si trova, è molto ripiegata su se stessa. Nei confronti dei migranti, nel migliore dei casi, si ostenta indifferenza, nel peggiore si passa agli insulti e a veri e propri atti di razzismo. Politicamente, la situazione si riflette in un voto estremamente conservatore. Nell'aria l'ostilità è palpabile.

I marocchini che vivono a Ceuta sono gli unici che aiutano almeno un po' i migranti, specie coloro che tentano di lavorare in nero (pulendo le macchine nei parcheggi o aiutando a trasportare i carichi della spesa). Sono soprattutto gli spagnoli anziani a mostrare risentimento e nervosismo, dovuto anche alla lunga storia di esacerbato nazionalismo e di chiusura di questo piccolo avamposto in territorio africano. In generale, Ceuta non brilla di certo quanto ad accoglienza.


Che cosa fanno le autorità locali di fronte al fenomeno migratorio?

Quando i gommoni non arrivano al porto, ma si allontanano alla deriva, la Croce Rossa procede al salvataggio nelle acque spagnole e li trascina a riva. Una volta arrivati nell'enclave, i migranti devono essere immatricolati dalla polizia, che ne registra le generalità, e poi vengono iscritti al CETI (il centro temporaneo per migranti). Quello che li aspetta in questo centro sono piccole stanze sovraffollate. Molti preferiscono insediarsi nei boschi vicini, per sopravvivere si danno alla pesca e ai lavoretti di fortuna in attesa che il tribunale emetta il suo verdetto.


Quali politiche sono state adottate per contrastare l'afflusso dei migranti?

Più che con la Spagna, è con l'Europa che il Marocco si confronta. I paesi UE hanno chiesto agli Stati adiacenti un appoggio nella lotta contro l'immigrazione ed hanno concluso diversi accordi di buon vicinato. La sostanza è che il Marocco deve rallentare il più possibile l'afflusso. Di conseguenza, Rabat procede a retate periodiche sul suo territorio per fermare i migranti e spedirli oltre frontiera nel deserto algerino, oppure li arresta e li lascia in carcere, rendendo così la loro condizione più dura e penosa possibile. Abbiamo ascoltato racconti atroci di migranti transitati per le prigioni marocchine. Le spiagge del regno maghrebino sono super sorvegliate. Al momento del nostro passaggio circolavano addirittura voci sul fatto che le autorità alawite pagassero dei senzatetto per affondare i gommoni in partenza. Il Marocco si dimostra ligio alle consegne europee..


Perché ha definito Ceuta una "dolce prigione"?

I primi migranti che abbiamo incontrato erano indiani. Ci confessavano gli enormi problemi nel raccontare alle famiglie la loro situazione. Ceuta è territorio spagnolo, ma si trova ancora in continente africano. E' una stazione balneare dove fa bel tempo, dove ci sono spiagge, negozi e belle ragazze. Le foto che inviavano ai familiari ritraevano tutto questo. Allo stesso tempo però, per loro Ceuta è una prigione da cui è impossibile uscire autonomamente. Il contrasto è terribile, quasi inesplicabile. (…)


Gli ultimi drammi successi a Lampedusa potranno contribuire ad accendere i riflettori su quanto sta accadendo a Ceuta?

Nel caso di Lampedusa ci si è subito focalizzati sull'onda emotiva della tragedia, ma ho avuto l'impressione che il problema globale non sia stato affrontato seriamente, con un'analisi di fondo della situazione. Il problema non è legato solo a Lampedusa, interessa tutta l'Europa e soprattutto le sue porte d'ingresso. Io resto ottimista, per questo ho deciso di fare questo documentario, per spingere alla riflessione su certe politiche, per aprire il dibattito.

L'attualità, purtroppo, sembra darci ragione. Si parla ancora di cifre, numeri e poco altro. Noi invece abbiamo cercato di fare nomi e restituire identità. Perché lo spettatore possa lui stesso identificarsi in questi migranti sconosciuti che così tanto ci somigliano. La maggior parte delle persone che abbiamo incontrato hanno la nostra stessa età, ascoltano la stessa musica, hanno punti di riferimento simili. Prima di parlare di "300 camerunensi" o del "25% di somali" ci interessa far sapere che ogni migrante ha una sua forte personalità, una sua storia, spesso dura. Se si trovano su queste rotte è perché degli eventi estremi li hanno costretti, non sono partiti per ingenuità o divertimento.


(La versione in italiano di questo articolo è stata pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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