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lunedì 4 novembre 2013

"L'Egitto non è un paese povero, è un paese corrotto"

A parlare è Gamal Eid, avvocato e presidente dell'Arab Network for Human Rights Information (Anhri), ex-detenuto politico e membro del movimento di opposizione al passato regime Kifaya. L'abbiamo incontrato a Ferrara, dove era ospite del Festival di Internazionale.


Gamal Eid è anche uno dei protagonisti dell'attualità egiziana, una figura di grande interesse per provare a capire cosa sta succedendo nel paese dopo la deposizione di Morsi da parte dell'esercito e i sanguinosi scontri di piazza tra sostenitori della Fratellanza e militari che hanno caratterizzato il mese di agosto (più di mille tra morti e feriti solo fra i sostenitori di Morsi).

"L'Egitto deve uscire dalla polarizzazione che lo sta lacerando", spiega Gamal, mentre la situazione al Cairo rimane estremamente delicata, con il governo provvisorio nominato in luglio dal generale al-Sisi che è chiamato alla stesura di una nuova costituzione. Per le strade intento continuano i regolamenti di conti e la repressione, dopo che i maggiori esponenti della Fratellanza sono stati arrestati -  oggi è iniziato il processo contro Morsi e altri responsabili del governo deposto per la morte di sette persone durante gli scontri di fronte al palazzo presidenziale l'anno passato - e dopo che le organizzazioni politiche e associative legate agli islamisti sono state messe al bando dal tribunale egiziano.

Intanto, per cercare di arginare una frattura politica e sociale sempre più pervasiva e per non perdere di vista gli obiettivi della rivoluzione, un centinaio di personalità della società civile ha dato vita nel settembre scorso ad un nuovo movimento - il Revolutionary Path Front - espressione di quella terza via che si oppone "tanto al ritorno dell'esercito quanto al dispotismo messo in atto dalla Fratellanza".

"Per superare questa dicotomia sterile e cruenta bisogna ripartire dalla battaglia per i diritti, di tutti" afferma Gamal Eid, tra i principali promotori dell'iniziativa, che condanna le violenze e il clima di odio strisciante "da qualunque parte provenga" e sottolinea i crimini commessi negli ultimi tre anni prima dallo Scaf (il Consiglio supremo delle forze armate), poi con l'era Morsi e infine sotto il regime attuale, "che continua ad uccidere civili e a diffondere propositi incendiari per vanificare ogni sforzo di pacificazione".

Partiamo da quello che è successo dopo le manifestazioni di massa del 30 giugno scorso. La destituzione forzata di Morsi da parte dell’esercito, il suo arresto, l’istituzione di un governo ad interim e, sostanzialmente, il ritorno sul davanti della scena politica dell’apparato militare. Eppure tutto era cominciato con una campagna popolare di raccolta firme..

Dopo il 30 giugno le cose sono cambiate, come anche Tamarrod. Nata come una campagna popolare, dal basso, per chiedere la fine dell’era Morsi e l’istituzione di elezioni anticipate, ha probabilmente subito infiltrazioni politiche da parte dei foulul, i membri dell’ex regime. In tanti hanno iniziato a pensare all'esistenza di accordi sotto banco tra Tamarrod e i mukhabarat, i servizi di sicurezza egiziani. Intanto la situazione nel paese era sempre più difficile e complessa, e fra la popolazione si era già consumata una spaccatura: da una parte chi credeva che il governo di Mohammed Morsi, in quanto legittimamente eletto, avesse il diritto di governare fino al suo termine naturale; dall'altra chi invece, considerandolo un’espressione di ‘fascismo’, sosteneva che dovesse fare un passo indietro e indire elezioni anticipate. Io personalmente ritengo che Morsi dovesse lasciare o almeno fare un netto passo indietro: ha avuto la possibilità di farlo con elezioni anticipate, ma ha rifiutato.

Una situazione che sembra sfatare il mito della “transizione ordinata” paventato da alcuni analisti – incentrato su un approccio “democratico-formale” – rivelando una realtà dei fatti intricata e nella gran parte oscura, che sembra tuttavia suggerire l'idea di una rivoluzione permanente, ancora in divenire.

Quello che è successo dopo le imponenti manifestazioni del 30 giugno e gli scontri di piazza - mi riferisco alla destituzione di Morsi e alla presa del potere da parte dei militari - è difficile da definire semplicemente ‘colpo di Stato’: se vogliamo è una tappa di quel processo a volte definito “transitorio”, ma che in realtà è il preludio ad un nuovo ‘round’ di una rivoluzione ancora in corso. Non abbiamo idea di quello che accadrà domani, tra una settimana o tra un mese: per il momento non possiamo che attendere gli sviluppi. Naturalmente quel che resta del vecchio apparato di regime, basato sul potere e la leadership militare, tenta ancora di riprendere il controllo del paese attraverso lo Scaf: ne siamo consapevoli. Non dimenticheremo mai le violenze dell’esercito e non ci fideremo mai dei militari. Ma ormai non possiamo più fidarci neanche degli islamisti: le parole-chiave della rivoluzione del 25 gennaio sono state “giustizia, libertà, dignità”: dopo la vittoria della Fratellanza musulmana non abbiamo ottenuto niente di tutto questo. Non crediamo ai salvatori né alla provvidenza, crediamo nelle persone, nei lavoratori che lottano quotidianamente per i propri diritti, nelle donne che sfidano violenze e repressione. E' questa la strada verso la libertà. Non saranno i militari a regalarcela, ma i nostri sforzi, più che mai necessari in questa fase di passaggio..

Un anno di governo Morsi non era poco per giudicarne i risultati e la sua effettiva o meno volontà di cambiamento?

Io stesso, come tanti altri, alle elezioni del 2011 ho dato il mio voto a Morsi. L’ho fatto perché appartengo a quello che definisco “il popolo del limone”: persone che sono state costrette a votare scegliendo il male minore. Dopo la caduta del regime e la dura parentesi Scaf, al momento delle elezioni, avevamo di fronte solo due possibilità: dare fiducia alla Fratellanza musulmana o votare per Shafik, esponente dell’ex regime al ballottaggio. Abbiamo votato Morsi tappandoci il naso, con una riflessione di fondo: se avesse portato la democrazia avremmo vinto; se non l’avesse fatto, ci saremmo comunque sbarazzati dei residui del vecchio regime. Ma non è andata così. La situazione è divenuta più chiara dopo la dichiarazione costituzionale del novembre scorso: Morsi non è diventato come Mubarak, ma ha comunque assunto posizioni dittatoriali. Inoltre non ha fatto niente per fermare la violenza che si stava diffondendo nel paese verso le componenti cristiane e sciite, non ha impostato nessun cambio di rotta in tema economico, non ha avviato quelle politiche di giustizia sociale che ci aspettavamo da un'organizzazione a base caritativa come la Fratellanza. Anche la libertà di espressione è stata fortemente attaccata: durante i primi 200 giorni del governo Morsi la mia associazione ha monitorato 24 casi di giornalisti e scrittori - tra cui il popolare Bassem Youssef - arrestati o interpellati con l’accusa di aver insultato il presidente. Se li confrontiamo con il passato, sono numeri ancora maggiori dell’era Mubarak. Tante persone sono finite in carcere per vilipendio alla religione, e la violenza dei suoi sostenitori per le strade ha raggiunto livelli per me inimmaginabili e che non si erano mai visti in Egitto. Gli islamisti si sono sentiti protetti e impuniti, legittimati a fare qualunque cosa, anche a riportare indietro la società se fosse stato possibile. Una società che il governo non ha voluto ascoltare, nonostante le tante proposte di riforma presentate dalle associazioni, tra cui quella della Giustizia e dei Media. Morsi ha rifiutato, così come, più tardi, ha rifiutato la possibilità di fare un passo indietro ed indire elezioni anticipate. La gente era delusa e scontenta, anche tra i suoi sostenitori: si aveva l’impressione che niente fosse cambiato, che le cose addirittura stessero peggiorando, che non ci fosse l’intenzione di stabilire uno Stato di diritto ma che la Fratellanza cercasse soltanto di spartirsi il potere con una parte dell’esercito.

Eppure, dopo la grande sollevazione di fine giugno, gran parte della popolazione sembra essersi nuovamente affidata all’esercito, dimenticando le violenze commesse dallo Scaf durante il suo interregno.

Bisogna tenere presente che Morsi alle elezioni ha ottenuto soltanto il 51% dei consensi, contro il 49% guadagnato da Shafik, esponente del vecchio regime e favorito dei militari in qual momento: questo da la misura di una popolazione egiziana in sé già fortemente divisa. A questo vanno aggiunti i tanti che, come me, avevano votato Morsi considerandolo solo il male minore. La leadership della Fratellanza non ha tenuto conto di questa diversità alla base dei numeri che gli hanno dato la vittoria. Hanno governato per loro stessi e non per la popolazione egiziana, nemmeno per la sua maggioranza. Il prezzo, per noi "limoni", è diventato troppo alto da pagare e per quanto all’interno del movimento Tamarrod possano essersi inseriti anche tanti feloul e nazionalisti legati a Mubarak, la gente ha avuto un moto di rifiuto istintivo. Quando dico la gente parlo anche di molti sostenitori di Morsi delusi, perché magari si aspettavano una maggiore islamizzazione dello Stato - come nel caso dell'area salafita - oppure misure concrete per arginare la crisi economica.

Quali sviluppi immagina per il prossimo futuro?

A quattro mesi dalla destituzione di Morsi siamo in attesa di capire da che parte andrà il paese. Di sicuro la rivoluzione non è finita, tutt'altro. Il Revolutionary Path Front - di cui sono uno dei fondatori - è un movimento nuovo, nato dalla convinzione che si possa agire dal basso, a livello di mobilitazione individuale ed extra-partitica. Numericamente siamo ancora pochi, ma cerchiamo di fornire un'alternativa alla polarizzazione che sta lacerando la nostra società, condannando le violenze commesse da entrambe le parti ed uscendo dal binomio pro-Morsi pro-Scaf, due entità che incarnano per noi le due ali della contro-rivoluzione.

Quali sono i principali obiettivi che il movimento si pone, quali i principali punti della vostra agenda politica?

Portare avanti la rivoluzione e veder attuati i suoi obiettivi. Tradotto in misure concrete, significa ristabilire il principio di legalità e costituire un vero Stato di diritto. Se pensiamo che nessuno dei responsabili delle violenze che hanno insanguinato l'Egitto dal 2011 ad oggi ha mai pagato per le ingiustizie commesse, è facile intuire che le rappresaglie continueranno. A questo proposito, il Fronte sta portando avanti diverse campagne di sensibilizzazione, la più importante si chiama "I diritti del popolo egiziano", dal nome del suo documento fondativo. L'obiettivo dell'azione è raggiungere un milione di firme in sostegno al documento per cercare di includerlo nella futura costituzione. La carta afferma l'uguaglianza di tutti i cittadini egiziani in tutti i settori e ne stabilisce i diritti inalienabili verso cui dovrà operare il nuovo governo, dalle condizioni di lavoro alla libertà di espressione, passando per l'accesso alle cure mediche e all'educazione. E' dalla battaglia per i diritti che bisogna assolutamente ripartire.

Come vede l'ipotesi di nuove elezioni?

Le elezioni sono parte del “gioco” democratico-formale, ma la vera democrazia significa giustizia sociale, dignità, libertà. Le parole d’ordine del 25 Gennaio. Tornare al voto adesso non sarebbe la soluzione, e lo scrutinio sarebbe probabilmente pilotato da quelle forze che hanno interesse a mantenere il controllo del paese, in primis l’esercito, che controlla direttamente oltre il 25% dell’economia nazionale. Ecco perché tra le priorità che abbiamo c’è quella di ottenere un testo costituzionale che stabilisca chiaramente quale debba essere il ruolo dei militari in Egitto. L’esercito dovrebbe essere parte dello Stato, non uno “Stato nello Stato”, e il suo controllo economico pervasivo non è più ammissibile. L’Egitto non è un paese molto povero: è un paese molto corrotto. Sono due cose profondamente diverse.

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