A parlare è Gamal Eid, avvocato
e presidente dell'Arab Network for Human Rights Information (Anhri), ex-detenuto
politico e membro del movimento di opposizione al passato regime Kifaya. L'abbiamo incontrato a Ferrara, dove era ospite
del Festival di Internazionale.
Gamal Eid è anche uno
dei protagonisti dell'attualità egiziana, una figura di grande interesse per
provare a capire cosa sta succedendo nel paese dopo la deposizione di Morsi da
parte dell'esercito e i sanguinosi scontri di piazza tra sostenitori della Fratellanza
e militari che hanno caratterizzato il mese di agosto (più di mille tra morti e
feriti solo fra i sostenitori di Morsi).
"L'Egitto deve
uscire dalla polarizzazione che lo sta lacerando", spiega Gamal, mentre la
situazione al Cairo rimane estremamente delicata, con il governo provvisorio nominato
in luglio dal generale al-Sisi che è chiamato alla stesura di una nuova
costituzione. Per le strade intento continuano i regolamenti di conti e la
repressione, dopo che i maggiori esponenti della Fratellanza sono stati
arrestati - oggi è
iniziato il processo contro Morsi e altri responsabili del governo deposto per
la morte di sette persone durante gli scontri di fronte al palazzo
presidenziale l'anno passato - e dopo che le organizzazioni politiche e
associative legate agli islamisti sono state messe al bando dal tribunale
egiziano.
Intanto, per cercare di
arginare una frattura politica e sociale sempre più pervasiva e per non perdere
di vista gli obiettivi della rivoluzione, un centinaio di personalità della
società civile ha dato vita nel settembre scorso ad un nuovo movimento - il
Revolutionary Path Front - espressione di quella terza via che si oppone "tanto
al ritorno dell'esercito quanto al dispotismo messo in atto dalla Fratellanza".
"Per superare
questa dicotomia sterile e cruenta bisogna ripartire dalla battaglia per i
diritti, di tutti" afferma Gamal Eid, tra i principali promotori
dell'iniziativa, che condanna le violenze e il clima di odio strisciante
"da qualunque parte provenga" e sottolinea i crimini commessi negli
ultimi tre anni prima dallo Scaf (il Consiglio supremo delle forze armate), poi
con l'era Morsi e infine sotto il regime attuale, "che continua ad
uccidere civili e a diffondere propositi incendiari per vanificare ogni sforzo
di pacificazione".
Partiamo
da quello che è successo dopo le manifestazioni di massa del 30 giugno scorso. La
destituzione forzata di Morsi da parte dell’esercito, il suo arresto,
l’istituzione di un governo ad interim e, sostanzialmente, il ritorno sul
davanti della scena politica dell’apparato militare. Eppure tutto era
cominciato con una campagna popolare di raccolta firme..
Dopo il 30 giugno le
cose sono cambiate, come anche Tamarrod. Nata come una campagna popolare, dal
basso, per chiedere la fine dell’era Morsi e l’istituzione di elezioni
anticipate, ha probabilmente subito infiltrazioni politiche da parte dei foulul, i membri dell’ex regime. In
tanti hanno iniziato a pensare all'esistenza di accordi sotto banco tra
Tamarrod e i mukhabarat, i servizi di
sicurezza egiziani. Intanto la situazione nel paese era sempre più difficile e
complessa, e fra la popolazione si era già consumata una spaccatura: da una
parte chi credeva che il governo di Mohammed Morsi, in quanto legittimamente
eletto, avesse il diritto di governare fino al suo termine naturale; dall'altra
chi invece, considerandolo un’espressione di ‘fascismo’, sosteneva che dovesse
fare un passo indietro e indire elezioni anticipate. Io personalmente ritengo
che Morsi dovesse lasciare o almeno fare un netto passo indietro: ha avuto la
possibilità di farlo con elezioni anticipate, ma ha rifiutato.
Una
situazione che sembra sfatare il mito della “transizione ordinata” paventato da
alcuni analisti – incentrato su un approccio “democratico-formale” – rivelando
una realtà dei fatti intricata e nella gran parte oscura, che sembra tuttavia
suggerire l'idea di una rivoluzione permanente, ancora in divenire.
Quello che è successo
dopo le imponenti manifestazioni del 30 giugno e gli scontri di piazza - mi
riferisco alla destituzione di Morsi e alla presa del potere da parte dei
militari - è difficile da definire semplicemente ‘colpo di Stato’: se vogliamo
è una tappa di quel processo a volte definito “transitorio”, ma che in realtà è
il preludio ad un nuovo ‘round’ di una rivoluzione ancora in corso. Non abbiamo
idea di quello che accadrà domani, tra una settimana o tra un mese: per il
momento non possiamo che attendere gli sviluppi. Naturalmente quel che resta
del vecchio apparato di regime, basato sul potere e la leadership militare,
tenta ancora di riprendere il controllo del paese attraverso lo Scaf: ne siamo
consapevoli. Non dimenticheremo mai le violenze dell’esercito e non ci fideremo
mai dei militari. Ma ormai non possiamo più fidarci neanche degli islamisti: le
parole-chiave della rivoluzione del 25 gennaio sono state “giustizia, libertà,
dignità”: dopo la vittoria della Fratellanza musulmana non abbiamo ottenuto
niente di tutto questo. Non crediamo ai salvatori né alla provvidenza, crediamo
nelle persone, nei lavoratori che lottano quotidianamente per i propri diritti,
nelle donne che sfidano violenze e repressione. E' questa la strada verso la
libertà. Non saranno i militari a regalarcela, ma i nostri sforzi, più che mai
necessari in questa fase di passaggio..
Un
anno di governo Morsi non era poco per giudicarne i risultati e la sua
effettiva o meno volontà di cambiamento?
Io stesso, come tanti
altri, alle elezioni del 2011 ho dato il mio voto a Morsi. L’ho fatto perché
appartengo a quello che definisco “il popolo del limone”: persone che sono
state costrette a votare scegliendo il male minore. Dopo la caduta del regime e
la dura parentesi Scaf, al momento delle elezioni, avevamo di fronte solo due
possibilità: dare fiducia alla Fratellanza musulmana o votare per Shafik,
esponente dell’ex regime al ballottaggio. Abbiamo votato Morsi tappandoci il
naso, con una riflessione di fondo: se avesse portato la democrazia avremmo
vinto; se non l’avesse fatto, ci saremmo comunque sbarazzati dei residui del
vecchio regime. Ma non è andata così. La situazione è divenuta più chiara dopo
la dichiarazione costituzionale del novembre scorso: Morsi non è
diventato come Mubarak, ma ha comunque assunto posizioni dittatoriali. Inoltre
non ha fatto niente per fermare la violenza che si stava diffondendo nel paese
verso le componenti cristiane e sciite,
non ha impostato nessun cambio di rotta in tema economico,
non ha avviato quelle politiche di giustizia sociale che ci aspettavamo da
un'organizzazione a base caritativa come la Fratellanza. Anche la libertà di
espressione è stata fortemente attaccata: durante i primi 200 giorni del
governo Morsi la mia associazione ha monitorato 24 casi di giornalisti e
scrittori - tra cui il popolare Bassem Youssef - arrestati o interpellati con
l’accusa di aver insultato il presidente. Se li confrontiamo con il passato,
sono numeri ancora maggiori dell’era Mubarak. Tante persone sono finite in
carcere per vilipendio alla religione, e la violenza dei suoi sostenitori per
le strade ha raggiunto livelli per me inimmaginabili e che non si erano mai
visti in Egitto. Gli islamisti si sono sentiti protetti e impuniti, legittimati
a fare qualunque cosa, anche a riportare indietro la società se fosse stato
possibile. Una società che il governo non ha voluto ascoltare, nonostante le
tante proposte di riforma presentate dalle associazioni, tra cui quella della
Giustizia e dei Media. Morsi ha rifiutato, così come, più tardi, ha rifiutato
la possibilità di fare un passo indietro ed indire elezioni anticipate. La
gente era delusa e scontenta, anche tra i suoi sostenitori: si aveva
l’impressione che niente fosse cambiato, che le cose addirittura stessero
peggiorando, che non ci fosse l’intenzione di stabilire uno Stato di diritto ma
che la Fratellanza cercasse soltanto di spartirsi il potere con una parte dell’esercito.
Eppure,
dopo la grande sollevazione di fine giugno, gran parte della popolazione sembra
essersi nuovamente affidata all’esercito, dimenticando le violenze commesse
dallo Scaf durante il suo interregno.
Bisogna tenere presente
che Morsi alle elezioni ha ottenuto soltanto il 51% dei consensi, contro il 49%
guadagnato da Shafik, esponente del vecchio regime e favorito dei militari in
qual momento: questo da la misura di una popolazione egiziana in sé già fortemente
divisa. A questo vanno aggiunti i tanti che, come me, avevano votato Morsi
considerandolo solo il male minore. La leadership della Fratellanza non ha
tenuto conto di questa diversità alla base dei numeri che gli hanno dato la
vittoria. Hanno governato per loro stessi e non per la popolazione egiziana,
nemmeno per la sua maggioranza. Il prezzo, per noi "limoni", è diventato
troppo alto da pagare e per quanto all’interno del movimento Tamarrod possano
essersi inseriti anche tanti feloul e
nazionalisti legati a Mubarak, la gente ha avuto un moto di rifiuto istintivo. Quando
dico la gente parlo anche di molti sostenitori di Morsi delusi, perché magari
si aspettavano una maggiore islamizzazione dello Stato - come nel caso
dell'area salafita - oppure misure concrete per arginare la crisi economica.
Quali
sviluppi immagina per il prossimo futuro?
A quattro mesi dalla
destituzione di Morsi siamo in attesa di capire da che parte andrà il paese. Di
sicuro la rivoluzione non è finita, tutt'altro. Il Revolutionary Path Front - di
cui sono uno dei fondatori - è un movimento nuovo, nato dalla convinzione che
si possa agire dal basso, a livello di mobilitazione individuale ed
extra-partitica. Numericamente siamo ancora pochi, ma cerchiamo di fornire
un'alternativa alla polarizzazione che sta lacerando la nostra società,
condannando le violenze commesse da entrambe le parti ed uscendo dal binomio
pro-Morsi pro-Scaf, due entità che incarnano per noi le due ali della
contro-rivoluzione.
Quali
sono i principali obiettivi che il movimento si pone, quali i principali punti
della vostra agenda politica?
Portare avanti la
rivoluzione e veder attuati i suoi obiettivi. Tradotto in misure concrete,
significa ristabilire il principio di legalità e costituire un vero Stato di
diritto. Se pensiamo che nessuno dei responsabili delle violenze che hanno
insanguinato l'Egitto dal 2011 ad oggi ha mai pagato per le ingiustizie
commesse, è facile intuire che le rappresaglie continueranno. A questo proposito,
il Fronte sta portando avanti diverse campagne di sensibilizzazione, la più
importante si chiama "I diritti del popolo egiziano", dal nome del
suo documento fondativo. L'obiettivo dell'azione è raggiungere un milione di
firme in sostegno al documento per cercare di includerlo nella futura
costituzione. La carta afferma l'uguaglianza di tutti i cittadini egiziani in
tutti i settori e ne stabilisce i diritti inalienabili verso cui dovrà operare
il nuovo governo, dalle condizioni di lavoro alla libertà di espressione,
passando per l'accesso alle cure mediche e all'educazione. E' dalla battaglia
per i diritti che bisogna assolutamente ripartire.
Come
vede l'ipotesi di nuove elezioni?
Le elezioni sono parte
del “gioco” democratico-formale, ma la vera democrazia significa giustizia
sociale, dignità, libertà. Le parole d’ordine del 25 Gennaio. Tornare al voto
adesso non sarebbe la soluzione, e lo scrutinio sarebbe probabilmente pilotato
da quelle forze che hanno interesse a mantenere il controllo del paese, in primis
l’esercito, che controlla direttamente oltre il 25% dell’economia nazionale.
Ecco perché tra le priorità che abbiamo c’è quella di ottenere un testo
costituzionale che stabilisca chiaramente quale debba essere il ruolo dei
militari in Egitto. L’esercito dovrebbe essere parte dello Stato, non uno
“Stato nello Stato”, e il suo controllo economico pervasivo non è più
ammissibile. L’Egitto non è un paese molto povero: è un paese molto corrotto.
Sono due cose profondamente diverse.
Nessun commento:
Posta un commento