Il
Festival di cinema internazionale del Sahara è riuscito a riunire un regista
marocchino, un atleta saharawi, un regista israeliano e un disegnatore
informatico palestinese. Per sei giorni hanno mangiato allo stesso tavolo e
dormito sotto la stessa tenda.
Traduzione dell'articolo di Pascual
Serrano per La Marea
La
storia è ricca di esempi di come l'arte, la scienza o lo sport siano riusciti
ad avvicinare - a volte a unire - popoli che si erano sempre combattuti. La
missione congiunta Apollo-Soyuz, nel 1975, permise alla navicella sovietica di
incontrarsi e affiancarsi a quella statunitense, facendo in modo che astronauti
di nazioni rivali passassero nello spazio da una parte all'altra, cosa ben più
difficile da concretizzare - al tempo - tra i rispettivi Stati sulla terra.
Altro
esempio, giocatori Usa e cinesi insieme sullo stesso tavolo per quella che è
passata alla storia come la "diplomazia del ping-pong": l'avvio del
disgelo nelle relazioni tra le due nazioni avvenuto nel 1970.
Quanto
successo lo scorso ottobre al Fi-Sahara si può iscrivere in questa dinamica. Il
cinema è riuscito a riunire sotto una stessa tenda un regista marocchino, un
atleta saharawi, un regista israeliano e un disegnatore informatico
palestinese. Una tenda della convivenza. E' accaduto durante i giorni della X
edizione del Festival internazionale cinematografico del Sahara, organizzato
nel campo profughi saharawi di Dakhla (Tindouf), situato in territorio
algerino.
Mohamed
Tayeb è cresciuto in un accampamento di rifugiati palestinesi in Siria. Da lì è
emigrato in Europa fino ad insediarsi in Spagna, dove ha coltivato le sue doti
grafiche. Prima i cartoni animati e adesso, assieme ad altri colleghi, ha
creato il videogioco Zaytun, con
protagonista proprio un rifugiato palestinese.
Durante
il festival ha tenuto alcune lezioni ai giovani saharawi ed ha cercato un
confronto sulle evoluzioni del suo gioco interattivo. Zaytun accoglierà presto nuovi personaggi, tra cui un profugo
saharawi che affiancherà la combriccola di palestinesi, iracheni, zapatisti
messicani e via via tutti gli oppressi e umiliati dalla geopolitica mondiale, gli
eroi di Tayeb.
Quanto
alla sua convivenza con gli altri ospiti del festival, Mohamed dichiara:
"non è importante tanto per il reciproco scambio di informazioni che
avviene, quanto per la bellezza di condividere almeno un tratto di strada
assieme. E' un primo passo".
Il
regista israeliano Guy Davidi ha diretto assieme al palestinese Emad Burnat il
documentario "5 broken cameras", candidato agli Oscar. "Un lavoro condiviso -
spiega Davidi - "ciascuno con compiti differenti. Io ho girato le immagini
e messo per iscritto la sceneggiatura, ma la storia è di Burnat". Come
prova dell'incomunicabilità tra popoli racconta che "per un israeliano,
entrare in territorio algerino è illegale. In pochi hanno avuto la possibilità
di farlo. Io come conseguenza - fino ad ora - ho dovuto subire le critiche
aperte del mio governo".
Riguardo
al conflitto arabo-israeliano, Davidi sottolinea che "ci sono molti
attivisti in Israele a favore della pace e del rispetto dei diritti umani. Non
c'è una soluzione magica al conflitto, ma strade diverse, ognuna delle quali ha
ostacoli gravosi da superare". "D'altra parte - aggiunge - molta
gente che crede nella soluzione pacifica non è abbastanza determinata per
lottare e andare fino in fondo".
Alla
domanda se ritenga una buona idea che i quattro rispettivi capi di governo si
siedano sotto una stessa tenda come hanno fatto loro, Davidi risponde: "gli
farebbe bene senz'altro prendersi un tè tutti assieme, anche se per me la
storia non la fanno i dirigenti ma i popoli".
"La soluzione ideale sarebbe
la tenuta del referendum"
Il
marocchino Nadir Bouhmouch ha scritto, diretto e prodotto il documentario "My Makhzen & Me" incentrato sul movimento di protesta 20
Febbraio, affermatosi nel suo paese durante l'onda lunga delle "primavere
arabe". "In Marocco non c'è democrazia, il governo non ha poteri. A
comandare è il sovrano e la sua corte di amici e consiglieri", afferma il
regista.
Nadir
è il co-fondatore del movimento di disobbedienza artistica Guerrilla Cinema, nato dall'esigenza di denunciare le regole e il controllo imposti
dalle autorità sulla creazione cinematografica, "una restrizione alla
libertà di espressione".
"Bisogna
chiedere un'autorizzazione per poter girare un film, e noi - in segno di
protesta - facciamo riprese rubate, senza permesso e su temi che mai sarebbero
accettati dalla censura istituzionale".
Rispetto
al conflitto tra Rabat e la RASD (Repubblica araba saharawi democratica), Nadir
assicura che in Marocco "intere generazioni sono state indottrinate sulla
marocchinità del Sahara Occidentale. Solo una piccola parte riesce a maturare
una riflessione critica. Inoltre, se i miei concittadini conoscessero le
condizioni in cui vive il popolo saharawi sono convinto che appoggerebbero la
sua domanda di autodeterminazione".
Per
Bouhmouch "l'ideale sarebbe la tenuta del referendum [previsto dalla
tregua conclusa sotto l'egida dell'ONU nel 1991, ndt]. Se lo avessero fatto - come da programma - dopo il
cessate-il-fuoco, i saharawi avrebbero avuto l'indipendenza. Il governo
marocchino, consapevole che il voto non avrebbe mai sancito l'annessione, ha
deciso di rinviarlo all'infinito".
Hmatou
Salah Ameidan è nato a Laayoune (città di riferimento del Sahara Occidentale
sotto controllo marocchino) nel 1982. Fondista, ha conquistato numerosi trofei
internazionali prima di diventare il protagonista del film "The runner". Dopo aver vinto l'ennesima gara con la
maglia della nazionale marocchina, Hmatou è dovuto partire in esilio poiché
colpevole di aver mostrato una bandiera saharawi sulla linea del traguardo.
"Il
film si fa portavoce del mio messaggio - spiega Ameidan - il messaggio di un
atleta che tramite lo sport ha cercato di accendere i riflettori sulla causa
saharawi e sulle violazioni che il mio popolo continua a subire".
Il
documentario è stato proiettato in vari paesi europei e per la prima volta
viene diffuso sul suolo africano. Rispetto alla sua esperienza sotto la tenda
della convivenza, Hmatou dice: "Sono orgoglioso che un marocchino sia qui
al mio fianco. E' un successo sulla strada dell'avvicinamento dei nostri popoli
e un fatto che permette di smentire le falsità propagandate dal regime di
Rabat".
Per
sei giorni e sei notti questi quattro ragazzi hanno mangiato allo stesso
tavolo, hanno dormito sotto lo stesso telo ed hanno passeggiato assieme per il
deserto, chiacchierando per ore di fronte allo schermo del festival. L'augurio
è che in futuro il resto dei loro compatrioti - politici compresi - comincino a
seguire il loro esempio.
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