Nel
lungo conflitto che ha opposto il governo di Ankara alla popolazione curda
sembra arrivato il momento, per la violenza, di lasciare spazio alla politica.
Ma resta l'incertezza sul futuro dei negoziati. La parola al professor Hamit
Bozarslan.
(articolo di Jordi Bertran per Afkar/Idées n. 38, été 2013)
Dopo
trent'anni di lotta e la morte di quasi 40 mila persone, Abdullah Ocalan,
leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ha negoziato un accordo
per il cessate-il-fuoco con alcuni rappresentanti del governo dalla prigione
d'Imrali, dove si trova rinchiuso dal 1999.
In
cambio del ritiro della guerrilla dal territorio turco, Ankara dovrebbe garantire
il riconoscimento dei diritti politici, delle specificità e dell'autonomia
curde, oltre ad un ammorbidimento della legislazione anti-terrorismo.
L'annuncio dell'accordo è stato accolto come un'occasione storica da migliaia
di persone a Diyarbakir, la città di riferimento del Kurdistan turco, riunitesi
per celebrare il capodanno curdo nel scorso marzo.
Ciò
nonostante, nel paese continua ad esserci incertezza sul futuro di questo processo
di pace e sulle misure che adotterà il premier Recep Tayyip Erdogan, principale
fautore - dal lato turco - del cambiamento di approccio alla questione curda.
Per
analizzare più a fondo la reale portata dell'accordo e il ruolo rivestito dalla
comunità curda in un Medio Oriente scosso dalla crisi siriana, la rivista Afkar ha intervistato il professor Hamit
Bozarslan, direttore del Centro di Studi turchi, ottomani, balcanici e
centrasiatici presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi.
Bozarslan ha appena pubblicato il suo ultimo libro, Storia della Turchia. Dall'Impero ad oggi (Ed. Tallandier).
Quali
sono le ragioni che hanno portato all'accordo tra PKK e governo turco,
specialmente in questa fase?
Due
ragioni interne, prima di tutto. La prima: la Turchia ha condotto tra il 2010 e
il 2011 una politica estremamente repressiva nei confronti del movimento curdo,
senza ottenere nessuna significativa vittoria in termini militari. Si è resa
necessaria l'apertura ad altre soluzioni, e siccome in questa fase l'esercito
non ha più l'influenza di un tempo e l'opposizione al governo è piuttosto debole,
Erdogan ha capito che poteva disporre di un certo margine d'azione ed ha
avviato il processo di pace. Processo che sembra indicare la prospettiva di un
riconoscimento della realtà curda. Tuttavia, in linea con la sua politica di
ridefinizione della Turchia, il premier domanda in cambio ai curdi di
integrarsi e servire la nazione turca e musulmana.
Il
secondo fattore di cui bisogna tener conto è l'attuale dinamismo del movimento
curdo, molto attivo e plurale, diversificato. Sebbene mantenga la sua capacità
militare, il PKK non ha più il monopolio della situazione, che registra una
netta avanzata dell'ala politica. La questione curda è ormai nel cuore del
dibattito in Turchia, non è più un tabù di competenza militare.
Quale
ruolo ha giocato l'instabilità dell'area mediorientale sulla decisione di
aprire il negoziato?
Nel
conflitto siriano sono impegnati circa 30 mila combattenti curdi del Partito
dell'unione democratica (PYD), vicino al PKK pur in assenza di un legame organico,
che controllano una parte del territorio siriano. Invece il PKK mantiene le sue
basi nel Kurdistan iracheno. Dunque, consapevole della complessità della
situazione regionale, il PKK ha preferito accantonare la carta militare a cui
avrebbe potuto dare maggior impulso, accordandosi sulla necessità di trovare un
altro tipo di soluzione, quella negoziale.
Per
giungere all'accordo, sembra che la Turchia abbia offerto la possibilità di
riforme costituzionali e un nuovo contratto sociale atto a ridefinire il
concetto di cittadinanza, per integrare la componente curda. Su cosa si è
realmente impegnato il governo?
Non
si sa. Fino ad ora il governo non ha affrontato nulla in modo concreto. Si è
parlato di riforma costituzionale, ma su questo punto ci sono notevoli ostacoli
interni. Lo stesso Erdogan ha già ammesso che non è sicuro che la costituzione
venga modificata. Stessa cosa per la questione della cittadinanza, sembra che
si vada verso una ridefinizione del concetto, in modo che i cittadini non
saranno considerati unicamente come turchi. Ma lo Stato continuerà ad essere uno
Stato turco. Da questo punto di vista, non sembrano esserci grosse prospettive
di cambiamento.
Per
i curdi di Turchia sarà possibile ottenere un'entità territoriale autonoma?
Il
governo turco potrebbe arrivare ad offrire una decentralizzazione, dando
maggior autonomia a tutte le regioni del paese. Non sarebbe un provvedimento
unicamente rivolto ai curdi, sebbene possa favorire la loro classe politica. Ad
ogni modo, si sa troppo poco sulle reali intenzioni del governo e la situazione
sembra già sul punto di bloccarsi. Erdogan non ha un grosso margine di manovra
e non sembra avere idee molto precise sul modo di portare avanti la trattativa.
Quali
forze si oppongono al processo di pace?
I
nemici si trovano nel campo politico nazionalista e in parte nello stesso
partito di Erdogan (AKP). Inoltre, secondo diversi sondaggi, la maggioranza
della popolazione dell'Anatolia si mostra ostile agli accordi. Ci sono enormi
tensioni in Turchia, e sebbene Erdogan non abbia di fronte un contro-potere
solido e l'esercito resti apparentemente in silenzio, la componente sociale
nazionalista è molto dinamica e trova una sponda tra gli oppositori alla
normalizzazione in seno ai militari e lo stesso AKP.
Di
conseguenza il rischio di provocazioni è enorme e un attentato o ogni altra
sorta di crisi legata alla questione curda potrebbe indebolire la posizione del
premier. Dal lato curdo i rischi sono minori, poiché non si tratta di una
smilitarizzazione del PKK ma solo di un ritiro territoriale, che durerà fino a
novembre. E inoltre, la frangia politica curda è molto più solida,
caratterizzata dall'adesione di intere generazioni di attivisti, da una vita
comunitaria e intellettuale molto vivace. Qualunque cosa succeda, la
controparte curda beneficerà di un ampio sostegno popolare.
Quale
ripercussione sta avendo il nuovo scenario turco sulle comunità curde in Siria,
Iraq e Iran?
Non
c'è un impatto diretto. E' chiaro che Damasco e Bagdad non si rallegrano del
processo avviato tra PKK e governo turco, ma non esiste più una vera coalizione
tra Siria, Iraq e Turchia contro il partito combattente come c'era dieci anni
fa. In Siria, Damasco non controlla più tutto il territorio, e il suo ritiro
dall'area curda tra il luglio e l'agosto del 2012 è molto significativo.
La
situazione è ancora drammatica nel Kurdistan iraniano, ma è in atto una
radicalizzazione silenziosa che si traduce ad esempio con il boicottaggio delle
elezioni. Sebbene non vi siano strutture politiche di riferimento, il movimento
curdo in questo paese è in fase di espansione e potrebbe diventare
immediatamente visibile se un domani sopravvenisse una crisi di governo.
Il
Kurdistan iracheno, invece, sta negoziando con la Turchia in materia di
fornitura petrolifera, in un difficile esercizio di equilibrismo tra i due
paesi.
In
effetti Ankara ha concluso un partenariato energetico con il Kurdistan iracheno
sullo sfruttamento delle sue risorse naturali, fatto che non è stato
particolarmente apprezzato da Bagdad. L'approvvigionamento di idrocarburi
potrebbe aver determinato un'altra influenza sulla decisione di trovare una
soluzione politica alla questione curda in Turchia..
E'
così, tra l'altro è prevista per i prossimi mesi l'approvazione di un nuovo
protocollo in tema di fornitura energetica. A partire dal 2008, il Kurdistan
iracheno rappresenta per la Turchia un contro-potere a Bagdad e soprattutto un
appetibile spazio di apertura economica. Il traffico commerciale
transfrontaliero tra i due paesi rappresenta da solo un volume di circa 4
miliardi di euro, una cifra enorme. La Turchia importa petrolio dalla Russia e dall'Iran,
ma in entrambi i casi le relazioni diplomatiche sono tutt'altro che ottimali.
Quindi, il potenziale energetico del Kurdistan iracheno appare un'ottima
soluzione strategica anche per diversificare le importazioni.
Questo
genere di iniziative in campo economico può rafforzare l'indipendentismo curdo
in Iraq?
Non
credo. Non mi sembra sia venuto il momento per i curdi di dichiarare la loro
indipendenza, nemmeno a corto termine. Fra qualche anno forse, ma per il
momento la strategia curda sembra essere quella di impegnarsi in un esercizio
di equilibrismo regionale. Chiedere l'indipendenza, significa autoescludersi
automaticamente da questa prospettiva. L'attualità mediorientale, in ogni caso,
rende il contesto difficilmente intellegibile. Difficile stabilire come
evolverà la situazione in Iraq, nelle aree curde o in Libano.
La
vicinanza geografica con il conflitto siriano e il recente attentato a Reyhanli,
che ha causato 40 morti nella città situata pochi km al di là dal confine e che
sembra debba essere attribuito agli agenti del regime di Damasco, possono
acuire le tensioni tra le diverse comunità religiose turche?
Si,
dal momento che lo stesso governo turco accende la tensione nel paese
confessionalizzando il conflitto siriano. La lettura religiosa che sta facendo
Ankara degli avvenimenti al di là del confine provoca malumori nella comunità
alevita, il gruppo di confessione alawita più numeroso. Si tratta di circa 15
milioni di persone - marginalizzate e represse tra gli anni '70 e gli anni '90
- che, in generale, hanno una sensibilità politica di sinistra e non
simpatizzano per niente con il regime di Damasco. Tuttavia, Al Assad è
ampiamente sostenuto dall'altra comunità alawita in Turchia, i nusayri, ben più
ridotta in termini numerici (circa 500 mila persone).
In
due anni, Erdogan ha cambiato posizione sul regime di Al Assad. Ora si dice
pronto a fornire armi alle opposizioni e ad aprire corridoi umanitari sul suo
territorio, ma deve gestire allo stesso tempo i 320 mila rifugiati siriani
riparati in Turchia. Ankara si implicherà direttamente in Siria?
La
Turchia non può intervenire da sola, ha bisogno che USA e UE si impegnino
direttamente. D'altro canto, una parte delle armi che la Turchia fornisce ai
ribelli viene dal Qatar e dall'Arabia Saudita e finisce nelle mani della Jabhat al-Nusra, cosa che americani ed
europei non vedono di buon occhio. […]
Quale
ruolo potranno avere i curdi siriani, che rappresentano il 10% della
popolazione del paese?
Non
un ruolo incisivo, perché in realtà hanno paura tanto del governo che
dell'opposizione. Pensano che la resistenza si stia islamizzando e che il
conflitto divenga sempre più un affare arabo-islamico che siriano.
Contrariamente al 2011, quando parteciparono alle manifestazioni pacifiche
contro il regime, adesso sembrano voler restare a margine del conflitto. Stanno
in attesa, non vogliono correre rischi. Oltre al fatto che controllano, ormai
da un anno, un territorio praticamente autonomo.
Nessun commento:
Posta un commento