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martedì 12 novembre 2013

Turchia-PKK: "niente è ancora deciso, la situazione potrebbe precipitare"

Nel lungo conflitto che ha opposto il governo di Ankara alla popolazione curda sembra arrivato il momento, per la violenza, di lasciare spazio alla politica. Ma resta l'incertezza sul futuro dei negoziati. La parola al professor Hamit Bozarslan.

(articolo di Jordi Bertran per Afkar/Idées n. 38, été 2013)


Dopo trent'anni di lotta e la morte di quasi 40 mila persone, Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), ha negoziato un accordo per il cessate-il-fuoco con alcuni rappresentanti del governo dalla prigione d'Imrali, dove si trova rinchiuso dal 1999.

In cambio del ritiro della guerrilla dal territorio turco, Ankara dovrebbe garantire il riconoscimento dei diritti politici, delle specificità e dell'autonomia curde, oltre ad un ammorbidimento della legislazione anti-terrorismo. L'annuncio dell'accordo è stato accolto come un'occasione storica da migliaia di persone a Diyarbakir, la città di riferimento del Kurdistan turco, riunitesi per celebrare il capodanno curdo nel scorso marzo.

Ciò nonostante, nel paese continua ad esserci incertezza sul futuro di questo processo di pace e sulle misure che adotterà il premier Recep Tayyip Erdogan, principale fautore - dal lato turco - del cambiamento di approccio alla questione curda.

Per analizzare più a fondo la reale portata dell'accordo e il ruolo rivestito dalla comunità curda in un Medio Oriente scosso dalla crisi siriana, la rivista Afkar ha intervistato il professor Hamit Bozarslan, direttore del Centro di Studi turchi, ottomani, balcanici e centrasiatici presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi. Bozarslan ha appena pubblicato il suo ultimo libro, Storia della Turchia. Dall'Impero ad oggi (Ed. Tallandier).


Quali sono le ragioni che hanno portato all'accordo tra PKK e governo turco, specialmente in questa fase?

Due ragioni interne, prima di tutto. La prima: la Turchia ha condotto tra il 2010 e il 2011 una politica estremamente repressiva nei confronti del movimento curdo, senza ottenere nessuna significativa vittoria in termini militari. Si è resa necessaria l'apertura ad altre soluzioni, e siccome in questa fase l'esercito non ha più l'influenza di un tempo e l'opposizione al governo è piuttosto debole, Erdogan ha capito che poteva disporre di un certo margine d'azione ed ha avviato il processo di pace. Processo che sembra indicare la prospettiva di un riconoscimento della realtà curda. Tuttavia, in linea con la sua politica di ridefinizione della Turchia, il premier domanda in cambio ai curdi di integrarsi e servire la nazione turca e musulmana.

Il secondo fattore di cui bisogna tener conto è l'attuale dinamismo del movimento curdo, molto attivo e plurale, diversificato. Sebbene mantenga la sua capacità militare, il PKK non ha più il monopolio della situazione, che registra una netta avanzata dell'ala politica. La questione curda è ormai nel cuore del dibattito in Turchia, non è più un tabù di competenza militare.


Quale ruolo ha giocato l'instabilità dell'area mediorientale sulla decisione di aprire il negoziato?

Nel conflitto siriano sono impegnati circa 30 mila combattenti curdi del Partito dell'unione democratica (PYD), vicino al PKK pur in assenza di un legame organico, che controllano una parte del territorio siriano. Invece il PKK mantiene le sue basi nel Kurdistan iracheno. Dunque, consapevole della complessità della situazione regionale, il PKK ha preferito accantonare la carta militare a cui avrebbe potuto dare maggior impulso, accordandosi sulla necessità di trovare un altro tipo di soluzione, quella negoziale.


Per giungere all'accordo, sembra che la Turchia abbia offerto la possibilità di riforme costituzionali e un nuovo contratto sociale atto a ridefinire il concetto di cittadinanza, per integrare la componente curda. Su cosa si è realmente impegnato il governo?

Non si sa. Fino ad ora il governo non ha affrontato nulla in modo concreto. Si è parlato di riforma costituzionale, ma su questo punto ci sono notevoli ostacoli interni. Lo stesso Erdogan ha già ammesso che non è sicuro che la costituzione venga modificata. Stessa cosa per la questione della cittadinanza, sembra che si vada verso una ridefinizione del concetto, in modo che i cittadini non saranno considerati unicamente come turchi. Ma lo Stato continuerà ad essere uno Stato turco. Da questo punto di vista, non sembrano esserci grosse prospettive di cambiamento.


Per i curdi di Turchia sarà possibile ottenere un'entità territoriale autonoma?

Il governo turco potrebbe arrivare ad offrire una decentralizzazione, dando maggior autonomia a tutte le regioni del paese. Non sarebbe un provvedimento unicamente rivolto ai curdi, sebbene possa favorire la loro classe politica. Ad ogni modo, si sa troppo poco sulle reali intenzioni del governo e la situazione sembra già sul punto di bloccarsi. Erdogan non ha un grosso margine di manovra e non sembra avere idee molto precise sul modo di portare avanti la trattativa.


Quali forze si oppongono al processo di pace?

I nemici si trovano nel campo politico nazionalista e in parte nello stesso partito di Erdogan (AKP). Inoltre, secondo diversi sondaggi, la maggioranza della popolazione dell'Anatolia si mostra ostile agli accordi. Ci sono enormi tensioni in Turchia, e sebbene Erdogan non abbia di fronte un contro-potere solido e l'esercito resti apparentemente in silenzio, la componente sociale nazionalista è molto dinamica e trova una sponda tra gli oppositori alla normalizzazione in seno ai militari e lo stesso AKP.

Di conseguenza il rischio di provocazioni è enorme e un attentato o ogni altra sorta di crisi legata alla questione curda potrebbe indebolire la posizione del premier. Dal lato curdo i rischi sono minori, poiché non si tratta di una smilitarizzazione del PKK ma solo di un ritiro territoriale, che durerà fino a novembre. E inoltre, la frangia politica curda è molto più solida, caratterizzata dall'adesione di intere generazioni di attivisti, da una vita comunitaria e intellettuale molto vivace. Qualunque cosa succeda, la controparte curda beneficerà di un ampio sostegno popolare.


Quale ripercussione sta avendo il nuovo scenario turco sulle comunità curde in Siria, Iraq e Iran?

Non c'è un impatto diretto. E' chiaro che Damasco e Bagdad non si rallegrano del processo avviato tra PKK e governo turco, ma non esiste più una vera coalizione tra Siria, Iraq e Turchia contro il partito combattente come c'era dieci anni fa. In Siria, Damasco non controlla più tutto il territorio, e il suo ritiro dall'area curda tra il luglio e l'agosto del 2012 è molto significativo.

La situazione è ancora drammatica nel Kurdistan iraniano, ma è in atto una radicalizzazione silenziosa che si traduce ad esempio con il boicottaggio delle elezioni. Sebbene non vi siano strutture politiche di riferimento, il movimento curdo in questo paese è in fase di espansione e potrebbe diventare immediatamente visibile se un domani sopravvenisse una crisi di governo.

Il Kurdistan iracheno, invece, sta negoziando con la Turchia in materia di fornitura petrolifera, in un difficile esercizio di equilibrismo tra i due paesi.


In effetti Ankara ha concluso un partenariato energetico con il Kurdistan iracheno sullo sfruttamento delle sue risorse naturali, fatto che non è stato particolarmente apprezzato da Bagdad. L'approvvigionamento di idrocarburi potrebbe aver determinato un'altra influenza sulla decisione di trovare una soluzione politica alla questione curda in Turchia..

E' così, tra l'altro è prevista per i prossimi mesi l'approvazione di un nuovo protocollo in tema di fornitura energetica. A partire dal 2008, il Kurdistan iracheno rappresenta per la Turchia un contro-potere a Bagdad e soprattutto un appetibile spazio di apertura economica. Il traffico commerciale transfrontaliero tra i due paesi rappresenta da solo un volume di circa 4 miliardi di euro, una cifra enorme. La Turchia importa petrolio dalla Russia e dall'Iran, ma in entrambi i casi le relazioni diplomatiche sono tutt'altro che ottimali. Quindi, il potenziale energetico del Kurdistan iracheno appare un'ottima soluzione strategica anche per diversificare le importazioni.


Questo genere di iniziative in campo economico può rafforzare l'indipendentismo curdo in Iraq?

Non credo. Non mi sembra sia venuto il momento per i curdi di dichiarare la loro indipendenza, nemmeno a corto termine. Fra qualche anno forse, ma per il momento la strategia curda sembra essere quella di impegnarsi in un esercizio di equilibrismo regionale. Chiedere l'indipendenza, significa autoescludersi automaticamente da questa prospettiva. L'attualità mediorientale, in ogni caso, rende il contesto difficilmente intellegibile. Difficile stabilire come evolverà la situazione in Iraq, nelle aree curde o in Libano.


La vicinanza geografica con il conflitto siriano e il recente attentato a Reyhanli, che ha causato 40 morti nella città situata pochi km al di là dal confine e che sembra debba essere attribuito agli agenti del regime di Damasco, possono acuire le tensioni tra le diverse comunità religiose turche?

Si, dal momento che lo stesso governo turco accende la tensione nel paese confessionalizzando il conflitto siriano. La lettura religiosa che sta facendo Ankara degli avvenimenti al di là del confine provoca malumori nella comunità alevita, il gruppo di confessione alawita più numeroso. Si tratta di circa 15 milioni di persone - marginalizzate e represse tra gli anni '70 e gli anni '90 - che, in generale, hanno una sensibilità politica di sinistra e non simpatizzano per niente con il regime di Damasco. Tuttavia, Al Assad è ampiamente sostenuto dall'altra comunità alawita in Turchia, i nusayri, ben più ridotta in termini numerici (circa 500 mila persone).


In due anni, Erdogan ha cambiato posizione sul regime di Al Assad. Ora si dice pronto a fornire armi alle opposizioni e ad aprire corridoi umanitari sul suo territorio, ma deve gestire allo stesso tempo i 320 mila rifugiati siriani riparati in Turchia. Ankara si implicherà direttamente in Siria?

La Turchia non può intervenire da sola, ha bisogno che USA e UE si impegnino direttamente. D'altro canto, una parte delle armi che la Turchia fornisce ai ribelli viene dal Qatar e dall'Arabia Saudita e finisce nelle mani della Jabhat al-Nusra, cosa che americani ed europei non vedono di buon occhio. […]


Quale ruolo potranno avere i curdi siriani, che rappresentano il 10% della popolazione del paese?

Non un ruolo incisivo, perché in realtà hanno paura tanto del governo che dell'opposizione. Pensano che la resistenza si stia islamizzando e che il conflitto divenga sempre più un affare arabo-islamico che siriano. Contrariamente al 2011, quando parteciparono alle manifestazioni pacifiche contro il regime, adesso sembrano voler restare a margine del conflitto. Stanno in attesa, non vogliono correre rischi. Oltre al fatto che controllano, ormai da un anno, un territorio praticamente autonomo.



(traduzione pubblicata in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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