Il
documentario racconta la storia di un'orchestra e di una città, tra vicoli
della casbah e melodie chaabi. Il "Buena vista social club
algerino".
Il
paragone, proposto dalla critica fin dalle prime proiezioni del film (2012),
non è un azzardo.
Come
Wim Wenders sulle tracce delle vecchie glorie della musica cubana, anche
Safinez Bousbia è partita alla ricerca dei sopravvissuti dell'età d'oro della
musica chaabi, aiutandoli a
ritrovarsi e finendo per spingerli a riprendere servizio.
Come
in Buena vista social club l'idea di
una reunion live non è il punto di
arrivo del progetto, bensì la scintilla per un nuovo inizio, che ha riportato
indietro di mezzo secolo tanto i protagonisti dell'orchestra El Gusto (espressione utilizzata nel
dialetto algerino per indicare un momento di piacere e buonumore) quanto gli
spettatori della pellicola, a metà strada tra il documentario storico e
musicale.
"Algeri,
la città dove sono nata. E' qui che il caso, un giorno, mi ha fatto conoscere
un gruppo di vecchi musicisti. Un incontro che avrebbe cambiato la loro vita e
la mia, per sempre..", racconta nelle prime battute del film la giovane
regista, cresciuta in Europa, dove ha studiato tecniche ed arti visive.
Oltrepassando
la soglia di un anonimo mastro specchiaio della casbah, nel 2004, Safinez Bousbia è ben lontana dall'immaginare in
quale genere avventura sta per imbarcarsi. La bottega appartiene all'artigiano
Mohamed Ferkioui, un tempo talentuoso fisarmonicista e direttore d'orchestra,
diplomato al conservatorio di Algeri.
"Ferkioui
ha passato ore a narrare ricordi lontani ma ancora vivi, mostrandomi vecchie
locandine di concerti - spiega la regista -. Alla fine mi ha confidato, a
malincuore, di aver perso di vista ormai da decenni tutti gli amici e i
colleghi con cui aveva imparato a suonare. Dove erano finiti? Sparpagliati
sulle due sponde del Mediterraneo. Così ho deciso di partire alla loro ricerca.
L'idea originaria era semplicemente di rimetterli in contatto con l'artigiano,
non di fare un film. Ma dopo averli incontrati, conosciuti e ascoltati ho
capito che c'era una bella storia da raccontare".
E'
la storia di una città e dei suoi artisti dimenticati.
Algerini
e pieds-noirs, musulmani ed ebrei,
separati da una guerra cinquant'anni fa, ma ancora uniti da una passione
comune: lo chaabi. Dal gusto, il piacere di suonare assieme
questa musica "popolare" (traduzione letterale del termine) - una
sintesi di ritmi berberi locali, canti religiosi e melodie
arabo-giudeo-andaluse - nata nei bassifondi, nelle taverne, nei bar e perfino
nei bordelli alla fine del periodo coloniale, e rapidamente affermatasi come
uno dei simboli culturali della città.
"L'anima
di Algeri è la musica chaabi e
soprattutto la casbah", la culla
di questo genere creato negli anni '20 del secolo scorso dal maestro El Hadj
M'hamed El Anka, alla cui memoria è dedicato il documentario. A parlare è Ahmed
Bernaoui, una delle voci e delle chitarre dell'orchestra.
"Lo
chaabi è una musica popolare nella
sua propria essenza - gli fa eco il collega Mustapha Tahmi. E' la musica della
strada, dei bambini e degli adulti. Se svuotassimo le case della casbah della calce di cui sono fatte,
ogni granello potrebbe recitare un poema di El Anka, talmente questo patrimonio
è incrostato nel sangue".
A
conferma del legame inscindibile tra il genere e la cittadella che sorveglia la
baia, dall'alto del suo promontorio, le note di "El Djazair habibti"
intonate dal mandolino di Chauki El Yamine:
"Algeri amore mio
città di fratelli e amici
vivrò tutta la vita al
tuo fianco
e non ti lascerò mai
La luce si alzerà
e saremo soddisfatti e
felici
Amore mio
sei la più bella tra le
città
circondata dal mare
come una stella dalla
mezzaluna
mi rendi fiero di fronte ai nemici
[…]"
El Gusto
è un ritorno alle origini di un intero paese, attraverso la cultura cosmopolita
che l'ha costruito. E' un miscuglio di sapori tra oriente e occidente, un
mosaico di colori e di identità che hanno fatto di Algeri un contesto singolare
di espressione artistica. Ed anche un esempio di solidarietà e convivenza, come
dimostra il caso del mausoleo Sidi Abderrahmane - luogo di culto nel cuore
della casbah condiviso da ebrei,
cristiani e musulmani -, almeno fino allo scoppio della guerra di liberazione.
E'
a questo punto che i ricordi "dei tempi gloriosi" si interrompono. La
"battaglia di Algeri" impone misure drastiche. Molti dei locali dove
gli artisti erano soliti esibirsi chiudono. Le terrazze e i cortili della
cittadella si spopolano. I morti e la ferocia degli scontri cambiano lo stato
d'animo e le priorità dei musicisti. Non è più il momento di far festa.
Così,
le strade dei principali interpreti dello chaabi
si dividono: i francesi d'Algeria iniziano ad abbandonare la città, direzione
Marsiglia e Parigi, seguiti dai membri della comunità ebraica (e di altre
comunità, spagnole e italiane, presenti nella città vecchia), spinti a partire
dal deteriorarsi della situazione e dallo zelo delle forze coloniali. I
musicisti algerini, invece, si uniscono alla lotta dell'FLN.
La
proclamazione dell'indipendenza, nella memoria di chi è rimasto, è una
parentesi raggiante a cui la musica non può non dare il suo contributo. E'
ancora una volta El Anka ad immortalare il momento con la canzone "El Hamdulillah", "scritta prima della fine della guerra, ma eseguita
per la prima volta in pubblico il 5 luglio del 1962", riferisce il figlio
del grande maestro, oggi membro dell'avventura El Gusto.
"Grazie a Dio non
c'è più colonialismo nel mio paese
grazie a Dio per questo
momento felice
ne abbiamo abbastanza
di questa ingiustizia
speriamo in un giorno
nuovo
Gli uomini hanno dato
la vita
nei nostri deserti e
nelle nostre montagne
Lunga vita all'Algeria
libera
e lunga vita alla sua
gioventù
Lunga vita all'Algeria
a tutti i suoi uomini e a tutte le
sue donne […]"
Gli
anni che seguono i festeggiamenti per la liberazione, però, non riescono a
restituire l'atmosfera e il prestigio del passato. Lo chaabi, con la sua capacità di "far dimenticare la miseria, la
fame e la sete", ha ormai pieno riconoscimento e tuttavia i vecchi artisti
- salvo poche eccezioni - vengono progressivamente marginalizzati dalla scena.
In
molti ripongono lo strumento tra le pieghe dell'oblio. Alcuni continuano ad
esibirsi ma la musica, in un paese scosso da tensioni politiche e da una
carente redistribuzione delle risorse economiche, è lontana dal poter diventare
una vera professione. Anche la casbah,
come gran parte della popolazione, sembra essere abbandonata al suo destino.
"Algeri, la
capitale
il tuo valore è immenso
il tuo amore resterà
nel mio cuore per l'eternità
Uomini senza valore ti
hanno rovinato
Che Dio li punisca
Hanno sporcato questa
città santa
la città dei martiri e
dei santi
Voi che mi ascoltate,
ditemi:
dov'è finito l'odore
della bella Algeri?
Voi che ci siete, ditemi:
dove sono finiti i figli della
capitale? […]"
Sono
versi carichi di malinconia quelli cantati a fine anni '80 da Abdelmajid
Meskoud nel poema "El Assima", rievocati dallo stesso autore
nel corso del documentario. Ma non è la disillusione a dominare il fondo
dell'opera, bensì la speranza, come testimoniano gli sguardi lucidi e
l'emozione dei protagonisti.
Lo
scorrere della pellicola dà l'impressione di una finestra che si spalanca su
una stanza rimasta chiusa troppo a lungo. Una lezione di storia impartita dalle
voci e dalla musica di trovatori sepolti nel fondo delle loro botteghe o nella
lontananza della diaspora.
Uomini
il cui statuto d'artista non viene riconosciuto dalle autorità. Sono queste
persone - considerate quasi dei paria, seppur necessarie a canalizzare
l'emozione di un intero popolo - a farci scoprire un paese diverso,
inimmaginato, dove il dolore non è mai riuscito a mettere a tacere l'anelito
critico e allo stesso tempo gioioso dei fondatori dello chaabi.
El Gusto
offre loro l'occasione di riemergere, di ricominciare un cammino interrotto
cinquant'anni prima, e concede al pubblico la possibilità di conoscere una
serie di figure straordinarie, ricordando che l'Algeria non è solo una terra di
(vecchi e nuovi) massacri o petrolio.
Il
film si chiude sul ricongiungimento dei musicisti e sulle prime esibizioni del
gruppo. "Un ricongiungimento d'amore e di amicizia sincera", come
intona l'orchestra nel brano omonimo ("El Gusto") che
accompagna le immagini del documentario:
"Gioisci mio caro
sulla nave di El Gusto
tu sarai sempre felice
Tutti sono riuniti
con le loro arti e le
loro metafore
la musica
le sagge parole e i
canti
Tutti coloro che amiamo
con le loro differenze
sono saliti a bordo […]"
Dopo
il successo della reunion live di
Marsiglia (2007) - 3 ore e mezza di performance - la nave di El Gusto non si è più fermata. Alle
tournée internazionali è seguita l'incisione di un disco - in parte riproposto
dalla colonna sonora del film - il quale, oltre alle canzoni già menzionate,
contiene arrangiamenti inediti e reinterpretazioni di alcuni brani molto
conosciuti, anche al di fuori dei confini algerini. Ad esempio "Ya Araih Ouine Amsafer", canto popolare reso celebre dal rocker Rachid Taha negli
anni '90, o ancora "Chihlet L'Ayani", una sorta di "Quizas"
in versione locale.
Si
tratta di un album carico di sentimento. Un inno al rispetto e alla tolleranza,
riassunto in modo efficace dalle parole di "Je suis pied-noir". A
lasciarsi trasportare dai cori scanditi al ritmo delle darbuqa e del banjo, o dai
virtuosismi del pianoforte e dei violini, diventa facile convincersi che la
musica può essere ancora uno strumento di libertà.
E
pensare che tutto era cominciato con un banale incontro nel negozio di un
mastro specchiaio…
Per vedere il film completo, in versione originale, clicca qui.
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