Intervista
al giornalista e attivista Omar Radi, ospite ad inizio ottobre del
Festival di Internazionale tenuto a Ferrara. Un'occasione per parlare delle
gravi minacce alla libertà di espressione nel regno e per fare il punto sulla
situazione politica ed economica di un paese "in eterna transizione".
Omar Radi durante un sit-in di solidarietà con Ali Anouzla a Rabat |
Omar, lei ha fatto
parte della redazione del sito Lakome. Il suo fondatore e direttore, dopo aver
scontato più di un mese di detenzione preventiva, si trova ancora perseguito
con l'accusa di "apologia e sostegno materiale al terrorismo". Che
cosa ne pensa?
L'arresto
e il genere di accuse formulate contro Ali Anouzla sono un segnale allarmante,
gravissimo. Negli ultimi anni la stampa on-line è diventata una fonte primaria
di informazioni per i marocchini. Il numero dei lettori non è neanche
lontanamente comparabile con quella cartacea. Allo stesso tempo i giornali
elettronici sono indipendenti, non vivono della pubblicità nazionale e quindi
non possono essere ricattati dalle autorità, sfuggendo al bavaglio. In breve,
rappresentano un pericolo per il regime che tiene alle sue linee rosse e al
controllo dell'informazione.
Con
l'arresto di Ali, uno dei simboli dell'informazione libera in Marocco, si è
voluto dare l'esempio agli altri. L'obiettivo non è soltanto mettere a tacere
Anouzla, una voce che dà fastidio e che non perde occasione di inchiodare i
rappresentanti politici ed economici alle loro responsabilità, ma spaventare
tutti gli altri, costringendoli all'autocensura per non incappare nello stesso
genere di sanzioni.
E'
una strategia che purtroppo funziona molto bene. La avevamo già sperimentata
nel 2010, con la chiusura forzata de Le
Journal Hebdomadaire, prima che molti giornalisti scegliessero di passare
al web. In quell'occasione il resto dei quotidiani e dei settimanali
indipendenti avevano immediatamente rivisto le loro linee editoriali. Ora, con questo
nuovo attacco frontale, siamo passati ad un livello superiore.
Ulteriore
indizio, se ce ne fosse bisogno, è la censura che ha colpito i siti Lakome,
versione arabofona e francofona, e tutti quelli che hanno provato a fare da
specchio per diffondere i suoi contenuti. E' la prima volta che nel paese viene
oscurato il web. Ci stiamo "Benalizzando". Le autorità sembrano
disposte a metter fine a tutte le avventure giornalistiche coraggiose e
credibili che cercano di riportare la realtà per quello che è.
E la realtà del paese,
in effetti, non è proprio incoraggiante. Partiamo dall'attualità. La "crisi politica" marocchina sembra finalmente risolta con la nomina del
governo Benkirane II e l'ingresso del RNI (Rassemblement National des
indépendents) nella compagine di maggioranza…
Fin
dall'uscita dell'Istiqlal (partito nazionalista) dal governo sono rimasto
scettico nei confronti dell'espressione "crisi politica". Questi
termini possono essere utilizzati quando sono i veri detentori del potere a
finire in un'impasse. Parlare di crisi politica è una strategia mediatica,
offerta all'opinione pubblica per dare l'impressione che vi sia una vera dinamica
politica nel paese, con divergenze sul programma governativo o sui valori
sostenuti dalle varie formazioni.
Non
è questo il caso marocchino. I partiti che continuano ad occupare i banchi del
Parlamento - siano essi di origine nazionalista, socialista, islamica o creati
ad hoc dalla monarchia - mostrano evidenti segni di convergenza e un'obbedienza
assoluta alle direttive del Palazzo reale. Vederli litigare per spartirsi
briciole e poltrone non è una crisi, è patetico.
Ad
ogni modo, dietro a questi ultimi eventi c'è tutta la difficoltà del PJD
(Partito della giustizia e dello sviluppo, di ispirazione islamica, nda), combattuto al suo interno e
fondamentalmente incompetente, nel provare a gestire la situazione attuale (rapporti
con la corte monarchica e grave recessione economica). Il Palazzo ha accettato
di malavoglia l'accesso islamista alla guida dell'esecutivo, ultima carta
politica di fronte alla contestazione di piazza del 2011. Ma non per questo ha
rinunciato a mettergli i bastoni tra le ruote, facendo abortire tutti gli
accenni di riforma promossi dai ministri pjdisti. Preso nella morsa tra
elettorato ed entourage monarchica, in questi due anni il partito ha preferito
piegarsi alla volontà reale piuttosto che difendere le proprie posizioni e
applicare il programma con cui era stato eletto. Ha assaggiato la sua fetta di
torta ed ha rinunciato alla sua anima e alle sue promesse.
Può farmi qualche
esempio?
Il
PJD è un partito a carattere islamista, dunque c'era da aspettarsi una politica
di governo conservatrice e tradizionalista. Ma il primo ed unico provvedimento
presentato in tal senso è stata la riforma dei palinsesti televisivi pubblici.
Tanto è bastato al premier Benkirane per rinunciare ad ogni velleità di
coerenza. Contro la programmazione decisa dal governo, infatti, si sono
sollevati i dirigenti delle televisioni, in passato giustamente accusati dagli
stessi pjdisti e da molti altri oppositori di essere delle controfigure
manipolate dal makhzen (regime, nda).
La
monarchia ha così avuto gioco facile nel rimettere in riga il governo e far
abortire la riforma. Peggio, ha umiliato Benkirane. Il sovrano ha tolto i
palinsesti televisivi dalle competenze del ministro della Comunicazione e li ha
affidati a quello dello Sviluppo urbano, che non ha niente a che vedere con il
tema, ma è un personaggio ben più infeudato al potere (ministro da oltre 10
anni, nda) rispetto ai parvenu
islamisti. Questo è il genere di eventi che spingerebbe qualunque uomo onesto e
sinceramente democratico a dare le dimissioni e denunciare la perpetuazione
dell'autoritarismo. Al contrario, i pjdisti al governo hanno imparato la
lezione e fanno di tutto per mostrare la loro obbedienza, accettando - se
necessario - un rimpasto di governo pilotato come quello attuale.
Anche sulla battaglia
contro la corruzione e l'economia di rendita il dietrofront del governo è
sembrato piuttosto netto e immediato..
La
trasparenza era uno dei cavalli di battaglia del PJD, ma non solo quello. Hanno
ripreso quasi tutti gli slogan del Movimento 20 febbraio, mettendo ben in
evidenza nel programma la lotta contro il dispotismo, la corruzione e
l'economia di rendita. Bisogna sapere che la gran parte dell'economia
marocchina non è soggetta alla libera concorrenza, nonostante le
privatizzazioni e le riforme neo-liberiste intraprese negli ultimi 20 anni.
Ad
esempio, per aprire una società di trasporti pubblici bisogna prima avere
un'autorizzazione da parte delle autorità (in genere quelle locali non elette,
che la rilasciano su ordine del Palazzo via il Ministero dell'Interno e quello
di competenza). Lo stesso vale per lo sfruttamento delle sabbie, del sottosuolo
e della pesca d'altura. E' un sistema di corruzione di Stato. Sono strumenti
che il regime mantiene per arricchirsi o per ricompensare i suoi più fedeli
servitori: militari, uomini della cerchia reale, figure politiche o adulatori
del Marocco su scala internazionale.
In
questo modo i normali imprenditori si ritrovano bloccati e a beneficiare degli agrements (concessioni) sono i tenenti
dell'economia di rendita che guadagnano soldi senza sporcarsi le mani né
correre il rischio di fare investimenti infruttuosi, dato che sono poi altri - a
cui vengono subaffittate questo tipo di licenze - a fare il lavoro e a correre
i rischi.
Le
faccio un esempio: un tassista che guadagna in media 5 mila dirham (circa 500
euro, nda) deve darne la metà al
proprietario dell'autorizzazione, che se ne resta seduto a casa ad aspettare i
soldi.
Ebbene,
il PJD aveva promesso di combattere tutto ciò. Il ché significa, per come si è
costituito dopo l'indipendenza e per come ancora oggi noi lo conosciamo, stroncare
dall'interno la spina dorsale del regime. Sotto lo slogan della trasparenza
hanno pubblicato alcune liste, quelle dei detentori degli agrements per il trasporto extraurbano e per lo sfruttamento delle
cave di sabbia. Poi si sono fermati di colpo.
La
gente si aspettava qualcosa in più. Da una parte, infatti, le liste erano
incomplete e difficilmente comprensibili, dato che venivano citati nomi di
società fantasma o quasi. Dall'altra più che un elenco, la promessa era quella
di una riforma del sistema di concessioni opache, un'apertura del mercato. E
invece lo stesso PJD, sotto il suo mandato, ha controfirmato nuovi permessi di
sfruttamento e si è tenuto nel cassetto i nomi dei beneficiari più importanti
in termini di volume della rendita (sfruttamento del sottosuolo e della pesca
d'altura).
Di
conseguenza, per tornare al concetto di prima, o gli islamisti al governo sono
bugiardi e ipocriti o non hanno alcun vero potere per cambiare le cose. Io
credo che sia un mix di entrambe le cose, un mix letale per il PJD che si sta
trasformando da partito di massa ad elite di burocrati.
In effetti si ha come
un'impressione di déjà vu. Questa situazione ricorda molto la prima esperienza
al governo - definito per l'occasione "di alternanza" -
dell'opposizione socialista, alla fine degli anni novanta…
Alla
metà degli novanta il Marocco non era attraversato da grandi proteste, come la
fase che stiamo vivendo, ma si trovava comunque di fronte ad un periodo di
ristagno economico ed il sovrano Hassan II si avvicinava all'epilogo del suo
regno. Dopo i terribili "anni di piombo" aleggiava un clima di
incertezza, il successore designato - l'attuale Mohammed VI - era giovane, con
poca esperienza e bisognava assicurare la maggior stabilità possibile alla fase
di transizione. Anche in quell'occasione venne presentata una nuova
costituzione (1996), definita arbitrariamente "democratica" da chi
l'aveva redatta, e subito vennero indette nuove elezioni (1997) che permisero
all'USFP (Union socialiste des forces populaires) di accedere al governo come
primo partito.
Come
successo poi nel novembre 2011 con il PJD, anche in quel caso cooptare la
massima formazione di opposizione politica (di matrice socialista) fu una
strategia obbligata per rinsaldare il trono e la sua assise. L'USFP era un
partito di insegnanti e intellettuali, che tutti rispettavano. Ma una volta
salito al governo si è trasformato in semplice braccio operativo del Palazzo,
ricevendo in cambio posti e incarichi in qualsiasi livello della sfera
amministrativa. L'azione del "suo" governo viene ricordata come una
delle più deludenti e repressive, con la svendita dei servizi pubblici,
l'incremento delle politiche neo-liberiste, la chiusura dei giornali meno
graditi al regime. I suoi quadri hanno approfittato della situazione, delle
porte aperte dalla monarchia, in cambio dell'allineamento totale sulle sue
posizioni, divenendo così dei notabili a tutti gli effetti. Non a caso, dal
1997 ad oggi, i principali scandali di corruzione emersi - non senza difficoltà
- riguardano membri di quel governo (l'USFP ha poi fatto parte dell'esecutivo
dal 1997 al 2011, nda).
Quindici
anni dopo, con la stessa retorica transitologica a fare da sfondo, stiamo
vivendo un brusco ritorno al passato. I socialisti erano arrivati in Parlamento
con chiare intenzioni di cambiamento, ma hanno definitivamente preso la
colorazione del makhzen e del Palazzo.
Il PJD sta vivendo lo stesso processo, se possibile in maniera ancor più accelerata.
E' disposto ad accettare schiaffi pur di rimanere al suo posto. Il
rimaneggiamento ministeriale che ha portato al governo Benkirane II e che ha
dato i portafogli chiave al partito del RNI è solo l'ultimo boccone amaro che è
stato costretto ad ingerire..
Vedere il premier
Benkirane, dopo tre mesi di tira e molla, convolare a nozze con uno dei suoi
più acerrimi avversari politici (Salaheddine Mezouar, segretario del RNI) è
un'immagine sufficientemente eloquente ed emblematica..
E'
un'umiliazione flagrante! Ma non solo per il partito in sé, soprattutto per la
gente che lo aveva votato. Perfino gli attivisti del "20 febbraio",
che hanno boicottato la mascherata elettorale, speravano che la vittoria del
PJD potesse servire, se non a far crollare, almeno ad indebolire le barriere
interne del regime. Niente affatto. Il governo Benkirane, fallimentare, è stato
"salvato" da quegli stessi nemici che in teoria doveva combattere,
vale a dire i partiti di amministrazione creati da Hassan II per ripartire
prebende e dare un'assise elettorale alla monarchia. Il RNI, che ora siede al
fianco del PJD, è un esempio di questa speciale categoria di partiti, noti per
la corruzione che li alimenta.
Tuttavia,
dietro alle diatribe governative di quest'ultimo periodo, che sinceramente poco
mi interessano, è possibile leggere un messaggio ancor più preoccupante. La
monarchia si sente ormai al sicuro dopo le proteste del "20
febbraio". Non c'è nessun processo di transizione in atto e il Palazzo è
pronto per tornare con forza sul davanti della scena. Nomine e manovre
politiche alla luce del sole, arresti e repressione in strada lo testimoniano.
Soffermiamoci un attimo
su questo punto. A quasi tre anni dalle mobilitazioni di piazza e dalle riforme
promosse dal regime per arginare la contestazione, che tipo di cambiamenti
nella gestione del paese - evoluzioni o involuzioni - possiamo enumerare?
Alla
comparsa del Movimento 20 febbraio, ad inizio 2011, il regime ha risposto con
una strategia su più livelli. In strada la repressione è stata
"controllata", almeno fino alle derive del maggio-giugno 2011. Sul
piano politico invece il sovrano ha reagito con la redazione di una nuova
costituzione: un maquillage di quella precedente senza alcuna modifica
sostanziale, secondo il movimento, una riforma epocale stando alla retorica
delle autorità. Quando, al momento del referendum confermativo, il Palazzo ha
dispiegato tutti i suoi strumenti di pressione per sostenere il "sì"
mentre gli attivisti che facevano campagna per il boicottaggio venivano
picchiati o arrestati, la manovra di diversione e la disonestà della monarchia
erano già apparsi in tutto il loro splendore.
Il
seguito non ha fatto che confermare questa constatazione. La nomina del primo
governo Benkirane, per esempio, ha coinciso con il rinfoltimento del gabinetto
reale - il vero esecutivo del paese - e la promozione a consiglieri del sovrano
delle figure più potenti e fidate nel panorama dei servizi e dell'economia nazionale.
Figure, come Fouad Ali El Himma e Mounir Majidi, tra i principali bersagli
della popolazione scesa in strada.
E'
evidente, la monarchia non ha intenzione di lasciare la presa né di permettere
l'instaurazione della democrazia o il rispetto dei diritti e delle libertà. Il
ritorno della repressione sui militanti, le torture
sugli attivisti e sui loro familiari sono lì a ricordarcelo ogni giorno. Oggi
ci sono più detenuti politici che nel pre-2011. Le autorità non si fanno
scrupoli ad arrestare i giornalisti accollandogli processi farsa per metterli a
tacere. Questo sul piano politico.
Quanto
al lato economico, la depredazione del patrimonio nazionale ad opera del
monarca e della sua entourage continua indisturbata. Mohammed VI non si è
ritirato dagli affari e con le sue imprese continua a controllare i centri
nevralgici dell'economia. Astutamente, ha venduto le sue quote in quei settori
interessati dal recente aumento dei prezzi - zucchero, latticini e alimentari
in genere - che gli sarebbero costati molto anche in termini di immagine, ma
conserva quei settori "regolamentati" (banche, assicurazioni,
telecomunicazioni, minerali..) in cui il margine di profitto è sicuro, poiché
frutto di una contrattazione con lo Stato. Cioè con se stesso. Tra l'altro si è
già accaparrato il quasi-monopolio delle energie rinnovabili, la nuova
frontiera dell'investimento in Marocco.
Il quadro, per quanto
riguarda la gestione del potere e l'atteggiamento delle autorità, mi sembra chiaro.
Dall'altro lato invece, quello del movimento e della rivendicazione per un
Marocco democratico, in quale situazione ci troviamo?
E'
un momento di tristezza, inutile nasconderlo. Il "20 febbraio" si è
lentamente spento, complice la stanchezza degli attivisti, il disincanto, la
repressione sempre più mirata (l'ultimo evento, ricorda Omar, è l'arresto nei
giorni scorsi di tre giovani membri del movimento a Casablanca,
nda) e le divisioni prodottesi al suo
interno dopo i primi mesi di occupazione delle piazze. C'è un sentimento di
impotenza sempre più preponderante tra la nuova generazione. A differenza di
due anni fa molti laureati, studenti e professionisti, stanchi della mediocrità
istituzionale con cui si confrontano, preferiscono lasciare il paese e cercare
fortuna altrove.
Allo
stesso tempo, il "20 febbraio" ha lasciato dietro di sé un'eredità. La
necessità e il coraggio di spezzare tabù e ipocrisie, di alzare la voce. Nuovi
spazi di libertà e contestazione stanno nascendo, nelle facoltà e nei licei per
esempio, dove si assiste alla rinascita del movimento studentesco. Anche nel
mondo dell'arte e della cultura, o meglio della contro-cultura, c'è maggiore
consapevolezza e insubordinazione alle politiche ufficiali in materia.
Nonostante il ritorno della repressione e la dimensione piuttosto modesta di
queste nuove entità, la gente si sta organizzando e non ha intenzione di
rimanere in silenzio. In effetti, l'attitudine sempre più intransigente che sta
mostrando il regime non può che facilitare un ritorno massiccio in strada.
A proposito di rivolte,
abbiamo parlato della presunta crisi politica vissuta negli ultimi mesi dal
governo marocchino, ma non abbiamo ancora accennato alla profonda crisi
economica che sta paralizzando il paese e che sta costringendo l'esecutivo
all'adozione di misure impopolari (aumento dei prezzi dei beni di prima
necessità, del carburante..). La bilancia dei pagamenti è in rosso e il debito
è cresciuto notevolmente negli ultimi due anni, tanto che nel novembre 2012 si
è dovuto ricorrere ad un finanziamento
"di garanzia" da parte dell'FMI. E' forse il preludio ad un'ondata di
sollevazioni sociali, di cui si registrano già i primi sintomi, che potrebbero
rivelarsi ben più difficili da gestire per il regime rispetto alle
contestazioni inquadrate e pacifiche del "20 febbraio"?
Non
posso dire quello che succederà. Tuttavia, come accennavo prima, l'attitudine
delle autorità non fa altro che aumentare la collera popolare. La gente è già
arrabbiata, stanca, delusa, sebbene mal organizzata per esprimere il suo
scontento. In questo quadro - dove il regime ha eliminato ogni intermediario
credibile tra se stesso e il popolo (sindacati, partiti politici o movimenti
d'avanguardia) - la rivolta spontanea, violenta, frutto dell'esasperazione è
uno scenario altamente probabile. Le esperienze passate, a Bouarfa, a Sidi
Ifni, a Taza, ad Ait Bouayach, sono lì a ricordarcelo. Ma quelli che nell'ultimo
decennio erano rimasti focolai isolati potrebbero in futuro assumere ben altre
proporzioni, vista l'ampiezza con cui il malessere si sta diffondendo.
(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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