Nei
dossier politicamente sensibili, il ricorso alla tortura per ottenere
dichiarazioni a carico dell'imputato resta una pratica diffusa nei
commissariati del regno alawita. "Una corsia preferenziale verso il
verdetto di colpevolezza", secondo l'ong Human Rights Watch, che ha
pubblicato nei giorni scorsi un'inchiesta dettagliata sull'argomento intitolata
Just Sign Here.
Khalid Gueddar. "La tortura continua" |
"Mi
hanno messo dei fogli davanti, nascondendo ciò che era scritto nella parte
superiore. Ho detto che volevo leggere quello che stavo per firmare, ma hanno
risposto: tu firmi qui e basta! Poi potrai andartene e recuperare le tue
cose..".
La
testimonianza è dell'ex detenuto Zakaria Moumni, arrestato il 27 settembre 2010
a Casablanca e liberato dopo 17 mesi di carcere con un provvedimento di
amnistia, grazie anche alla risonanza internazionale assunta dal suo caso.
Dieci anni prima Zakaria si era laureato campione del mondo di boxe
light-contact e da allora non aveva mai smesso di reclamare l'assunzione
pubblica, come previsto dalla legislazione nazionale per tutti gli sportivi marocchini
distintisi nelle rispettive discipline.
Le
sue proteste, il ricorso alla stampa, hanno infastidito il regime di Rabat, tanto
che nel 2010 ha disposto il suo fermo al rientro da Parigi, accusandolo di
"attacco ai valori sacri del regno". Secondo la testimonianza
rilasciata a Human Rights Watch, l'ex campione sarebbe stato subito ammanettato,
bendato e poi sottoposto a duri maltrattamenti: "l'hanno spogliato,
picchiato, appeso per le braccia e torturato con scariche elettriche. Poi
l'hanno lasciato per tre giorni senza cibo, impedendogli di dormire", si
legge nel rapporto della ong.
Quando
gli agenti l'hanno condotto dal luogo degli abusi direttamente in tribunale,
Moumni ha provato a spiegare al giudice istruttore il calvario subito, senza
successo. Il processo per direttissima si è svolto senza gli avvocati della
difesa e senza testimoni: una condanna a tre anni per "frode", il
verdetto, basato su una confessione estorta sotto tortura che Zakaria ha dovuto
firmare senza poter leggerne il contenuto.
Quello
del pugile Moumni è uno dei sei casi proposti dal filmato di HRW, diffuso venerdì
scorso dalla ong assieme agli altri elementi dell'inchiesta consacrata al
malfunzionamento della giustizia marocchina, soprattutto di fronte a dossier
ritenuti politicamente sensibili. La sua vicenda "è un esempio convincente
del ricorso ad accuse prefabbricate per vendicarsi di una persona che ha osato
sfidare le autorità", si può leggere nel rapporto.
Nel
lavoro di documentazione e raccolta delle testimonianze, Human Rights Watch ha
preso in esame cinque processi-chiave svolti in Marocco tra il 2008 e il 2013. Oltre
al caso Moumni, quello degli attivisti saharawi condannati
per gli scontri seguiti allo smantellamento di Gdeim Izik nel 2010, i sindacalisti
di Bouarfa accusati di "turbamento dell'ordine pubblico" nel 2011, i militanti
del Movimento 20 febbraio incarcerati nel settembre scorso dopo una
manifestazione pacifica repressa duramente dalla polizia, e infine il processo
"Belliraj" che nel 2008 aveva inflitto pesanti condanne per
"terrorismo" anche ad alcuni oppositori alla guida di piccoli partiti
(a ispirazione islamica e di sinistra).
In
tutto 84 persone coinvolte, di cui 38 restano ancora in prigione.
Cosa
le accomuna? Oltre alla natura politica dei dossier, il fatto che il tribunale
le abbia condannate, quasi esclusivamente, sulla base di confessioni estorte
sotto tortura o altri mezzi di costrizione. Dichiarazioni poi ritrattate dagli
stessi imputati durante il dibattimento, senza che i magistrati - però - si
siano adoperati per verificarne la credibilità o per attestare la fondatezza
delle denunce sui maltrattamenti subiti.
Secondo
la ong, inoltre, i tribunali si sarebbero serviti di testimonianze scritte per
avallare le sentenze di colpevolezza, senza che i testimoni siano mai stati
convocati in aula per un contro-interrogatorio da parte della difesa.
"Le
violazioni più gravi - ha ricordato Eric Goldstein (direttore aggiunto per la
sezione MENA di HRW) durante la conferenza stampa tenuta a Rabat in cui ha
illustrato i risultati dell'inchiesta - avvengono prima dell'ingresso in aula
dell'imputato, durante la detenzione provvisoria nei commissariati e al momento
del passaggio di fronte al giudice istruttore. Il nostro lavoro si è
concentrato su questo aspetto, più che sull'analisi del dibattimento in
sé".
Altro
esempio, documentato nel rapporto: l'attivista Taki Machdoufi, arrestato nel 2010
a Laayoune dopo gli scontri che hanno opposto la popolazione saharawi alle
forze di sicurezza. Machdoufi è stato interrogato per cinque giorni consecutivi
senza aver mai beneficiato dell'assistenza di un avvocato. Ogni volta che ha
provato a negare la sua implicazione nei crimini avvenuti durante la rivolta,
gli agenti lo colpivano al collo e alla testa, e affermavano: "puoi dire
quello che vuoi, tanto scriveremo il tuo verbale come più ci piace".
Quando Machdoufi si è rifiutato di firmare, è stato costretto con la forza ad imprimere
la sua impronta digitale in fondo al testo.
"La
constatazione generale è lampante - prosegue Goldstein -. Una volta che i
poliziotti hanno ottenuto una confessione, qualunque sia il metodo utilizzato,
le formulazioni improbabili in essa contenute e l'inconsistenza del dossier a
carico, l'accusato si ritrova in una corsia preferenziale verso il verdetto di
colpevolezza".
"E'
come se il processo si fosse già tenuto nei locali della polizia - rincara la
dose uno degli avvocati interpellati da HRW -. Non c'è niente che si possa fare
in tribunale per rimettere in discussione le dichiarazioni estorte". Nonostante,
almeno sul piano formale, il codice di procedura penale marocchino definisca
"non valide" le confessioni ottenute con la violenza o sotto
costrizione (e la costituzione proibisca esplicitamente la tortura).
Lo
stesso codice, tuttavia, autorizza i magistrati "a considerare
credibili" i verbali raccolti nei commissariati (art. 290). Una ambiguità,
per lo meno contraddittoria, sfruttata in aula per mettere a tacere i ricorsi
della difesa e le richieste di accertamento medico sui traumi subiti dagli
imputati. "Anche nei casi in cui gli abusi sono così evidenti ad occhio
nudo, da rendere ogni accertamento superfluo", puntualizza Goldstein.
La
ong, richiamandosi alle conclusioni già esposte in precedenza dall'incaricato
ONU sulla tortura Juan Mendez, ha formulato una serie di
raccomandazioni alle autorità del regno "per mettere fine ai processi
ingiusti […] e alle violazioni nei confronti degli imputati, descritte dagli ex
detenuti in modo credibile". Tra le priorità indicate, la revisione della legislazione
in materia penale e delle disposizioni sulla custodia cautelare, l'applicazione
effettiva delle misure contenute nella nuova costituzione a tutela dei diritti
umani e la liberazione immediata dei prigionieri di Gdeim Izik e dell'affaire Belliraj ancora in carcere (in
attesa che maturino le condizioni per un processo equo).
Il
trend di riforme intrapreso da Rabat - ha ricordato Eric Goldstein - è
incoraggiante ma resta limitato, soprattutto quando si tratta di mettere in
atto i buoni propositi enunciati a livello formale. Il settore della giustizia,
da questo punto di vista, sembra essere uno dei più recalcitranti. Secondo il
responsabile, infatti, "pur diminuendo il grado di brutalità nell'utilizzo
della forza come mezzo di controllo, aumenta il ricorso ad un potere
giudiziario sottomesso per punire quegli oppositori troppo zelanti". La
connivenza tra polizia e magistratura, conclude HRW, "rafforza la
sensazione che i tribunali siano una mera estensione dell'apparato
repressivo".
Manifestazione a Rabat per la liberazione dei detenuti politici, 23 giugno 2013. (Foto by Nadir Bouhmouch) |
Intanto,
lo scorso fine settimana, sono tornati a farsi sentire i promotori della
campagna FreeKoulchi.
Ex detenuti e familiari dei prigionieri politici, sostenuti dal Movimento 20
febbraio e dall'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), hanno
manifestato nella capitale per chiedere la liberazione degli attivisti
("un numero imprecisato" secondo HRW, quasi duecento stando alle
stime dell'AMDH), prima di venire dispersi dall'intervento delle forze
dell'ordine.
Manifestazione a Rabat, 23 giugno 2013. (Foto by Mamfakinch) |
Manifestazione a Rabat, 23 giugno 2013. (Foto by Nadir Bouhmouch) |
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