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martedì 25 giugno 2013

Marocco. "Confessioni dubbie, processi ingiusti": la denuncia di HRW

Nei dossier politicamente sensibili, il ricorso alla tortura per ottenere dichiarazioni a carico dell'imputato resta una pratica diffusa nei commissariati del regno alawita. "Una corsia preferenziale verso il verdetto di colpevolezza", secondo l'ong Human Rights Watch, che ha pubblicato nei giorni scorsi un'inchiesta dettagliata sull'argomento intitolata Just Sign Here.

Khalid Gueddar. "La tortura continua"



"Mi hanno messo dei fogli davanti, nascondendo ciò che era scritto nella parte superiore. Ho detto che volevo leggere quello che stavo per firmare, ma hanno risposto: tu firmi qui e basta! Poi potrai andartene e recuperare le tue cose..".

La testimonianza è dell'ex detenuto Zakaria Moumni, arrestato il 27 settembre 2010 a Casablanca e liberato dopo 17 mesi di carcere con un provvedimento di amnistia, grazie anche alla risonanza internazionale assunta dal suo caso. Dieci anni prima Zakaria si era laureato campione del mondo di boxe light-contact e da allora non aveva mai smesso di reclamare l'assunzione pubblica, come previsto dalla legislazione nazionale per tutti gli sportivi marocchini distintisi nelle rispettive discipline.

Le sue proteste, il ricorso alla stampa, hanno infastidito il regime di Rabat, tanto che nel 2010 ha disposto il suo fermo al rientro da Parigi, accusandolo di "attacco ai valori sacri del regno". Secondo la testimonianza rilasciata a Human Rights Watch, l'ex campione sarebbe stato subito ammanettato, bendato e poi sottoposto a duri maltrattamenti: "l'hanno spogliato, picchiato, appeso per le braccia e torturato con scariche elettriche. Poi l'hanno lasciato per tre giorni senza cibo, impedendogli di dormire", si legge nel rapporto della ong.

Quando gli agenti l'hanno condotto dal luogo degli abusi direttamente in tribunale, Moumni ha provato a spiegare al giudice istruttore il calvario subito, senza successo. Il processo per direttissima si è svolto senza gli avvocati della difesa e senza testimoni: una condanna a tre anni per "frode", il verdetto, basato su una confessione estorta sotto tortura che Zakaria ha dovuto firmare senza poter leggerne il contenuto.

Quello del pugile Moumni è uno dei sei casi proposti dal filmato di HRW, diffuso venerdì scorso dalla ong assieme agli altri elementi dell'inchiesta consacrata al malfunzionamento della giustizia marocchina, soprattutto di fronte a dossier ritenuti politicamente sensibili. La sua vicenda "è un esempio convincente del ricorso ad accuse prefabbricate per vendicarsi di una persona che ha osato sfidare le autorità", si può leggere nel rapporto.

Nel lavoro di documentazione e raccolta delle testimonianze, Human Rights Watch ha preso in esame cinque processi-chiave svolti in Marocco tra il 2008 e il 2013. Oltre al caso Moumni, quello degli attivisti saharawi condannati per gli scontri seguiti allo smantellamento di Gdeim Izik nel 2010, i sindacalisti di Bouarfa accusati di "turbamento dell'ordine pubblico" nel 2011, i militanti del Movimento 20 febbraio incarcerati nel settembre scorso dopo una manifestazione pacifica repressa duramente dalla polizia, e infine il processo "Belliraj" che nel 2008 aveva inflitto pesanti condanne per "terrorismo" anche ad alcuni oppositori alla guida di piccoli partiti (a ispirazione islamica e di sinistra).

In tutto 84 persone coinvolte, di cui 38 restano ancora in prigione.

Cosa le accomuna? Oltre alla natura politica dei dossier, il fatto che il tribunale le abbia condannate, quasi esclusivamente, sulla base di confessioni estorte sotto tortura o altri mezzi di costrizione. Dichiarazioni poi ritrattate dagli stessi imputati durante il dibattimento, senza che i magistrati - però - si siano adoperati per verificarne la credibilità o per attestare la fondatezza delle denunce sui maltrattamenti subiti.

Secondo la ong, inoltre, i tribunali si sarebbero serviti di testimonianze scritte per avallare le sentenze di colpevolezza, senza che i testimoni siano mai stati convocati in aula per un contro-interrogatorio da parte della difesa.

"Le violazioni più gravi - ha ricordato Eric Goldstein (direttore aggiunto per la sezione MENA di HRW) durante la conferenza stampa tenuta a Rabat in cui ha illustrato i risultati dell'inchiesta - avvengono prima dell'ingresso in aula dell'imputato, durante la detenzione provvisoria nei commissariati e al momento del passaggio di fronte al giudice istruttore. Il nostro lavoro si è concentrato su questo aspetto, più che sull'analisi del dibattimento in sé".

Altro esempio, documentato nel rapporto: l'attivista Taki Machdoufi, arrestato nel 2010 a Laayoune dopo gli scontri che hanno opposto la popolazione saharawi alle forze di sicurezza. Machdoufi è stato interrogato per cinque giorni consecutivi senza aver mai beneficiato dell'assistenza di un avvocato. Ogni volta che ha provato a negare la sua implicazione nei crimini avvenuti durante la rivolta, gli agenti lo colpivano al collo e alla testa, e affermavano: "puoi dire quello che vuoi, tanto scriveremo il tuo verbale come più ci piace". Quando Machdoufi si è rifiutato di firmare, è stato costretto con la forza ad imprimere la sua impronta digitale in fondo al testo.

"La constatazione generale è lampante - prosegue Goldstein -. Una volta che i poliziotti hanno ottenuto una confessione, qualunque sia il metodo utilizzato, le formulazioni improbabili in essa contenute e l'inconsistenza del dossier a carico, l'accusato si ritrova in una corsia preferenziale verso il verdetto di colpevolezza".

"E' come se il processo si fosse già tenuto nei locali della polizia - rincara la dose uno degli avvocati interpellati da HRW -. Non c'è niente che si possa fare in tribunale per rimettere in discussione le dichiarazioni estorte". Nonostante, almeno sul piano formale, il codice di procedura penale marocchino definisca "non valide" le confessioni ottenute con la violenza o sotto costrizione (e la costituzione proibisca esplicitamente la tortura).

Lo stesso codice, tuttavia, autorizza i magistrati "a considerare credibili" i verbali raccolti nei commissariati (art. 290). Una ambiguità, per lo meno contraddittoria, sfruttata in aula per mettere a tacere i ricorsi della difesa e le richieste di accertamento medico sui traumi subiti dagli imputati. "Anche nei casi in cui gli abusi sono così evidenti ad occhio nudo, da rendere ogni accertamento superfluo", puntualizza Goldstein.

La ong, richiamandosi alle conclusioni già esposte in precedenza dall'incaricato ONU sulla tortura Juan Mendez, ha formulato una serie di raccomandazioni alle autorità del regno "per mettere fine ai processi ingiusti […] e alle violazioni nei confronti degli imputati, descritte dagli ex detenuti in modo credibile". Tra le priorità indicate, la revisione della legislazione in materia penale e delle disposizioni sulla custodia cautelare, l'applicazione effettiva delle misure contenute nella nuova costituzione a tutela dei diritti umani e la liberazione immediata dei prigionieri di Gdeim Izik e dell'affaire Belliraj ancora in carcere (in attesa che maturino le condizioni per un processo equo).

Il trend di riforme intrapreso da Rabat - ha ricordato Eric Goldstein - è incoraggiante ma resta limitato, soprattutto quando si tratta di mettere in atto i buoni propositi enunciati a livello formale. Il settore della giustizia, da questo punto di vista, sembra essere uno dei più recalcitranti. Secondo il responsabile, infatti, "pur diminuendo il grado di brutalità nell'utilizzo della forza come mezzo di controllo, aumenta il ricorso ad un potere giudiziario sottomesso per punire quegli oppositori troppo zelanti". La connivenza tra polizia e magistratura, conclude HRW, "rafforza la sensazione che i tribunali siano una mera estensione dell'apparato repressivo".

Manifestazione a Rabat per la liberazione dei detenuti politici, 23 giugno 2013. (Foto by Nadir Bouhmouch)
Intanto, lo scorso fine settimana, sono tornati a farsi sentire i promotori della campagna FreeKoulchi. Ex detenuti e familiari dei prigionieri politici, sostenuti dal Movimento 20 febbraio e dall'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), hanno manifestato nella capitale per chiedere la liberazione degli attivisti ("un numero imprecisato" secondo HRW, quasi duecento stando alle stime dell'AMDH), prima di venire dispersi dall'intervento delle forze dell'ordine.

Manifestazione a Rabat, 23 giugno 2013. (Foto by Mamfakinch)
Manifestazione a Rabat, 23 giugno 2013. (Foto by Nadir Bouhmouch)

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