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giovedì 20 giugno 2013

Qatar. Calciatori contro l'emirato "schiavista"

La mancanza di diritti e garanzie per i lavoratori stranieri nel paese del Golfo non è una novità, come illustrano i rapporti e le denunce di alcune ong internazionali. Abusi e violazioni, tuttavia, non risparmiano neanche il settore sportivo, fiore all'occhiello dello sceicco al-Thani che si è visto assegnare i mondiali del 2022. Lo dimostrano i casi di Abdeslam Oaddou e Zahir Belounis.



Difensore della nazionale marocchina con una lunga carriera nei club europei (Fulham, Rennes, Olympiakos..), ormai trentaquattrenne, Abdeslam Ouaddou pensava forse ad una pensione dorata nel ricco emirato quando ha accettato, come tanti famosi colleghi prima (e dopo) di lui, il contratto offertogli nel 2010 da una squadra locale, il Lekhwiya dello sceicco al-Thani (proprietario, tra l'altro, del Paris Saint Germain).

Ma l'esperienza, dopo pochi mesi, si trasforma in un incubo, nonostante la vittoria del campionato - alla prima stagione in Qatar - per il club del capitano Ouaddou. Al rientro nel 2011 il giocatore si vede 'trasferito' senza spiegazioni ad un'altra squadra di calibro minore per poi essere privato dello stipendio dal luglio 2012, con un anno di anticipo rispetto all'accordo originario.

Nel paese funziona così - riferisce il calciatore al sito Jeune Afrique - i lavoratori, di qualsiasi tipo, sono delle semplici pedine di cui ci si può disfare a piacimento, a dispetto di contratti e diritti.

Ma Ouaddou non ci sta e denuncia l'accaduto alla federazione internazionale di categoria (FIFA) per chiedere il rispetto delle clausole rescissorie. Così inizia il suo calvario.

Per arrivare in Qatar, infatti, i lavoratori stranieri devono essere in possesso di una 'sponsorizzazione' anticipata (kafalah). Di solito si tratta dello stesso datore di lavoro, che recluta nei rispettivi contesti di appartenenza con false promesse e facili prospettive di guadagno, e diventa responsabile del loro status legale: senza il permesso dello sponsor non si può cambiare impiego, affittare una casa, aprire un contro corrente o ottenere i visti, né di entrata né di uscita.

Dopo l'appello all'arbitrato della FIFA, il difensore marocchino rimane bloccato con la famiglia nell'emirato, senza la possibilità di lasciare il paese. Niente visto fino a quando non rinuncerà al ricorso alla federazione internazionale, che pregiudica l'immagine promossa dallo sceicco al-Thani a suon di miliardi.

"Hanno chiamato per dire che mi stavo confrontando con gente molto potente e che dovevo fare attenzione", racconta Ouaddou. Nonostante le minacce il vice-campione d'Africa del 2004 non cede, anzi, rilancia. Il passo successivo - fa sapere - è interpellare le ong per i diritti umani e mediatizzate al massimo la vicenda.

"Solo a questo punto mi hanno lasciato partire, ma non senza un ultimo avvertimento. Il loro peso all'interno della FIFA sarebbe stato sufficiente a bloccare la mia richiesta di indennizzo. In totale mi devono un anno di stipendio. E' assurdo, sono pronti a sborsare somme ingenti per fare marketing e oliare le loro influenze e poi si rifiutano di onorare contratti dove le cifre in ballo, se paragonate, sono minime".

A sostenere il calciatore marocchino di fronte alla federazione si è schierato anche l'International Trade Union Confederation (ITUC) - la più importante organizzazione sindacale su scala mondiale, da tempo impegnata nel supporto alla lotta dei lavoratori nell'emirato - che nei giorni scorsi ha inviato una lettera al presidente della FIFA Joseph Blatter chiedendo una reazione immediata sul caso Ouaddou e sulla vicenda speculare in cui è coinvolto un altro giocatore, Zahir Belounis.

Di esempi ce ne sono molti, ricorda il difensore, ma le persone "difficilmente osano parlare per paura di rimanere intrappolate. Alcuni preferiscono lasciar perdere o accontentarsi di una piccola riparazione amichevole pur di prendere il volo senza ostacoli".

Non è questa la situazione del franco-algerino Belounis, sotto contratto fino al 2015 ma senza stipendio da quasi due anni. Per questo ha portato in tribunale i responsabili della sua squadra - al-Jaish - nella speranza di ottenere giustizia. Ma il processo sembra ad un punto morto e a Belounis viene tuttora negato il permesso di uscita, senza il ritiro della querela, nonostante l'intervento del Consolato francese. "Pensavo che le buone relazioni tra i due paesi potessero favorire una soluzione; più passa il tempo, però, e più è evidente che il mio dossier resta ad un punto fermo, proprio perché il mio caso non arrivi a compromettere tali relazioni".

Intanto Abdeslam Ouaddou, raggirato, privato dei propri diritti ma non rassegnato, si è fatto portavoce di una campagna di denuncia internazionale del "metodo Qatar" per mettere in guardia, tra gli altri, i calciatori dei campionati europei che pensano di trovare l'eldorado sbarcando nel Golfo. "Se questo metodo non cambierà, quelli del 2022 a Doha saranno i Mondiali della vergogna, dello schiavismo e della violazione dei diritti umani", ha affermato il giocatore in una recente intervista diffusa dall'ITUC.


Le premesse, ancora una volta, non sembrano incoraggianti. La correttezza del voto con cui è stata decisa l'assegnazione della competizione in terra qatariota ha sollevato più di un dubbio, soprattutto dopo che alcune inchieste condotte dalla stampa inglese e francese - ribattezzate 'Qatargate' - avevano svelato la presenza di manovre occulte e corruzione in seno alla commissione FIFA per far finire nelle mani degli emiri, dietro lauto compenso, la Coppa del mondo.

Ma non è abbastanza, almeno fino ad ora, per rimetterne in discussione l'attribuzione dell'evento e gli investimenti in programma. Lo svolgimento della competizione dovrebbe garantire infatti un giro d'affari di circa 30 miliardi di dollari, mentre per costruire i nuovi stadi le autorità di Doha hanno già annunciato un ulteriore ricorso massiccio alla manodopera straniera.

Proprio gli stranieri costituiscono già il 94% di tutta la forza lavoro dell'emirato, oltre che l'80% dell'intera popolazione. Peccato che la maggior parte di essi viva e lavori in condizioni deplorevoli, di "moderna schiavitù", come denunciato dal calciatore Ouaddou e come ribadito da alcune note istanze internazionali.

Basta leggere l'ultimo rapporto di Human Rights Watch (HRW) sull'argomento, uscito a metà 2012, in cui si parla di abusi e soprusi di ogni tipo: dalla confisca del passaporto, allo strettissimo controllo a cui sono sottoposti gli impiegati, senza contare le enormi difficoltà per i lavoratori nel comunicare lamentele o querele ai servizi governativi o alle autorità. E ancora: stipendi non pagati, ritenute d'acconto illegali, luoghi di lavoro sovraffollati e insalubri, mancanza di qualsiasi copertura sanitaria.

Anche l'ITUC, da inizio anno in trattativa con il governo di Doha per consentire la creazione di un sindacato dei salariati stranieri e per ottenere una revisione del sistema di sponsorizzazione kafalah, si dice delusa dalla mancanza di progressi in merito e ha chiesto ai vertici del calcio mondiale, anche alla luce della vicenda Ouaddou e di altri casi simili emersi ultimamente, di revocare al Qatar l'assegnazione del Mondiale.

Almeno fino a quando i lavoratori, dai calciatori ai manovali, non avranno garanzie. Ai primi, che godono in ogni caso di uno status privilegiato e non sono costretti a vivere in piccoli tuguri fatiscenti, possiamo se non altro dare un volto e risonanza mediatica; i secondi invece, circa 1.200.000 tra pachistani, filippini, nepalesi, siriani e iracheni, restano (per il momento) soltanto dei numeri.


Articolo pubblicato nello Speciale giugno 2013/2 di Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica. Nello stesso speciale è stato pubblicato un altro contributo di (r)umori dal Mediterraneo, dal titolo "Don Chisciotte ad Algeri".
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