Assieme
ad Eric Goldstein, direttore aggiunto di Human Rights Watch per l'area MENA,
abbiamo cercato di tracciare un quadro generale sullo stato dei diritti e delle
libertà in Maghreb due anni dopo l'inizio delle sollevazioni tunisine e
egiziane.
(Foto by Jacopo Granci) |
Signor Goldstein, lei
ha vissuto in prima linea questi ultimi due anni, con lunghi soggiorni nei
paesi interessati dalle "primavere". Qual è, oggi, la sua valutazione
sul rispetto dei diritti e delle libertà nella regione?
Intanto
preferisco parlare di rivolte popolari, piuttosto che di primavere o di
rivoluzioni. Da due anni a questa parte i paesi dell'area hanno vissuto e
stanno vivendo processi differenti, difficile dunque generalizzare. Il caso
siriano, con una guerra civile in corso, rappresenta la pagina più nera in
termini di violazione dei diritti umani. Altri contesti permettono invece un
certo ottimismo, sebbene le violazioni non siano cessate. Mi riferisco in
particolare alla Tunisia, sul cui futuro resto fiducioso. Senza per questo nascondere
la realtà degli attacchi alla libertà di espressione o del diritto a
manifestare che sono continuati - sebbene in misura minore - dopo la fuga dell'ex
presidente Ben Alì.
Da
una parte il sistema giudiziario stenta a trovare un'indipendenza mai vissuta
dal momento della fondazione dello Stato moderno. Dall'altra assistiamo ad un
innegabile affioramento delle ideologie conservatrici, non solo nel governo a
guida Ennahda, ma in generale nella società. Del resto, a Tunisi come in altri
orizzonti, non possiamo dire che le rivolte siano scoppiate soltanto in nome
dei diritti umani. Tra chi si è scagliato contro la dittatura e la miseria
sociale vi erano frange ansiose di imporre la loro visione, poco tolleranti nei
confronti della diversità.
Anche
questo è un dato di fatto con cui i paesi dell'area stanno facendo i conti. Si
tratta di nuove minacce per il rispetto dei diritti umani, certo, ma anche di
sfide irrinunciabili all'interno di società in cambiamento (non solo politico).
Ad esempio, in Tunisia, assistiamo ad un dibattito inclusivo sulla redazione
della nuova costituzione. Sebbene il processo sia lento, le prospettive sono
migliori di quelle che hanno interessato l'Egitto post-Mubarak, dove la stesura
della carta fondamentale è stata fulminea e estremamente lacunosa in termini di
garanzie dei diritti e delle libertà.
Come è cambiato il
lavoro di Hrw nella regione dopo il 14 gennaio 2011?
L'accesso
ai paesi del Nord Africa era difficoltoso, in alcuni casi impossibile per i
nostri ricercatori prima dell'ondata delle rivolte. Ora siamo riusciti ad
aprire un ufficio a Tunisi ed uno a Tripoli (oltre alle antenne già presenti a
Rabat e al Cairo). E' più facile per noi lavorare come, in generale, è più
facile per la gente esprimersi e battersi per le proprie esigenze quotidiane. Anche
l'accesso ai media statali si è democratizzato, sebbene fenomeni come la
censura e l'autocensura persistano.
Concentriamoci sul
Marocco. L'ultimo rapporto
paese della sua organizzazione, riferito al 2012, si intitolava "Le
promesse di riforma sono smentite dalla realtà della repressione". Sei
mesi dopo, conferma questa valutazione? Su quali basi?
Sì
e a tal proposito le faccio subito un esempio. Tra qualche giorno verrà
festeggiato il secondo anniversario dell'adozione della nuova costituzione, un
testo ricco di nobili principi quanto al rispetto dei diritti umani. Ma finora,
nessuna legge è stata approvata per la messa in atto di questi principi. Certo
sono provvedimenti che richiedono tempo e confronto, ma l'impressione è che si
sia tentata una fuga in avanti per contrastare la pressione popolare e lo
spauracchio delle rivolte regionali nel 2011. Senza che ciò abbia comportato un
reale avanzamento sul terreno.
Il
diritto di manifestare non è garantito, a volte i cortei procedono senza
interferenze e in altri casi i poliziotti si accaniscono ferocemente senza
nemmeno lasciare il tempo alle persone di radunarsi; gli attivisti vengono
sanzionati con processi ingiusti
e la libertà di stampa soffre di gravi restrizioni.
La situazione è ambigua. La repressione non è brutale e sistematica come poteva
essere la Tunisia di Ben Ali o la Libia di Gheddafi, e c'è una società civile
solida e consapevole. Ma le promesse o i progetti di riforma vengono dimenticati
con la stessa rapidità con cui erano stati presentati e solo la pressione
popolare sulle autorità sembra riuscire a smuovere lo statu quo.
Tra le riforme
presentate nel 2011 dalle autorità marocchine, oltre alla costituzione,
la creazione di un organismo governativo per la tutela dei diritti umani (il
Conseil national des droits de l'homme, CNDH). Il Consiglio è oggetto di
critiche da parte delle associazioni di base che operano nel settore, ritenuto
l'ennesimo "decoro di facciata" del regime. Qual è la sua opinione e
che tipo di relazioni intrattiene Hrw con questo organismo?
Ogni
volta che trattiamo un dossier, ascoltiamo il loro punto di vista e cerchiamo,
se possibile, un loro sostegno. Presentiamo le nostre rimostranze, se
necessario. A volte le porte si aprono, a volte no. Si tratta comunque di una
struttura governativa, riservata all'analisi e non alla denuncia delle
violazioni. Questo non possiamo aspettarcelo. Il loro lavoro però, sebbene
parziale (difficilmente vengono evocate tematiche politicamente sensibili), è
serio e rispettabile. Mi riferisco, ad esempio, agli ultimi rapporti sulle dure
condizioni del sistema carcerario marocchino e sui centri di psichiatria infantile, temi importanti su cui la società deve
riflettere.
Quanto alle tematiche
politicamente sensibili, invece, Hrw non ha avuto esitazioni a sostenere l'estensione del mandato della Minurso per il monitoraggio delle violazioni in
Sahara Occidentale..
Eravamo
entusiasti del primo progetto di risoluzione presentato dagli Stati Uniti al
Consiglio di sicurezza, poi abbandonato in seguito alle proteste marocchine e
francesi.
Da sempre sosteniamo che una missione di pace ONU non possa essere scissa dal
monitoraggio delle violazioni dei diritti umani sul territorio in cui è
dispiegata. Il fatto che la Minurso mantenga questo handicap è un'aberrazione.
L'aspetto positivo è stata la pressione comunque esercitata su Rabat dalla
"minaccia" dell'estensione del mandato: se non farà uno sforzo reale
per migliorare la situazione in Sahara Occidentale, dimostrando così di non
aver niente da nascondere, questo tipo di provvedimento non potrà più essere
posticipato.
La
speranza è che il Marocco reagisca, aprendosi alla visita di delegazioni
internazionali a Laayoune e Smara, e lasciando ai giornalisti stranieri la
possibilità di lavorare in loco. (Su questo punto le speranze sembrano rimanere
tali, dal momento che nelle ultime settimane la polizia marocchina ha espulso
diversi giornalisti spagnoli ed un collega italiano - Gilberto Mastromatteo -
arrivati in Sahara Occidentale per documentare la repressione in atto contro le
manifestazioni pacifiche, nda)
A che tipo di
violazioni sono sottoposti i saharawi che vivono nelle città del Sahara
Occidentale sotto controllo marocchino?
Ci
sono violazioni che ritroviamo anche in Marocco, come gli interventi violenti
all'indirizzo dei manifestanti, una giustizia agli ordini pronta a condannare
gli attivisti anche in assenza di prove credibili. In più vi è il grande tabù
della richiesta di indipendenza o di autodeterminazione: nessun cittadino
saharawi può esprimersi liberamente a questo proposito, il rischio è di
incorrere in un processo per "attacco ai valori del regno", con
l'accusa di alto tradimento e connivenza con il nemico (il Fronte Polisario, nda), e con gravissime conseguenze
penali.
Forti
limitazioni sono poi registrate in ambito della libertà di associazione e della
libertà di movimento. La sorveglianza da parte delle forze di polizia,
l'imposizione del coprifuoco nei quartieri saharawi, sono strumenti abituali di
un controllo opprimente.
Quando
viaggio in Sahara ho spesso l'impressione di trovarmi nella Tunisia di Ben Alì,
con poliziotti in borghese ovunque che registrano ogni incontro ed ogni
spostamento.
Le autorità marocchine
vi danno la possibilità di accedere e lavorare in quest'area?
Sì,
ci lasciano lavorare - pur sotto stretta sorveglianza e non agevolando di certo
le nostre inchieste - per poter poi giocare la carta della trasparenza sul
piano internazionale.
Qual è il parere di Hrw
sull'ultima versione della bozza costituzionale tunisina?
Impossibile
in questa sede entrare nel dettaglio. Tendenzialmente abbiamo riscontrato
un'evoluzione positiva rispetto ai primi testi parziali circolati nel 2012, quantomeno
un'apertura al confronto interno all'assemblea costituente, se pensiamo ad
esempio all'articolo - superato - che affermava la "complementarietà"
dell'uomo e della donna al posto dell'uguaglianza.
Tuttavia
restano le perplessità, determinate soprattutto dal fatto che i diritti umani
universalmente riconosciuti non vengono affermati e difesi come valori
irrinunciabili al di sopra di ogni altra considerazione. Come già nel caso
marocchino, questi diritti restano sottoposti alle "costanti
immutabili" o alle "specificità culturali" del paese, elemento
che spiana la via a possibili interpretazioni in senso restrittivo e deformazioni.
Inoltre, il testo sembra troppo vago quanto ai limiti che potranno poi essere
posti dalla legislazione ordinaria alla libertà di espressione.
In
generale però, ripeto, considero il processo che sta accompagnando la redazione
della costituzione come un'evoluzione, pur con i suoi innegabili difetti, e un
avanzamento netto rispetto alla carta precedentemente in vigore.
Cambiamo scenario.
Quali sono, nella Libia post-Gheddafi, gli aspetti in cui si concentra
maggiormente il suo lavoro?
Le
stesse difficoltà di base a cui si trova confrontato il paese. Su tutte, l'assenza
di strutture istituzionali solide su cui possa appoggiarsi il nuovo governo,
eletto in maniera sostanzialmente trasparente. Il sistema Gheddafi era totalmente
dipendente dalla sua figura e dal suo ruolo di guida indiscussa, senza partiti,
società civile e dinamiche pubbliche.
L'attuale
esecutivo ha enormi difficoltà ad imporsi, in primis sulle decine di milizie
armate che imperversano nel paese dalla caduta del dittatore e che dettano
legge nei territori considerati di loro competenza. In termini di violazioni,
oltre alle violenze in sé che generano un clima di insicurezza, ci sono le
centinaia di prigionieri "appartenenti al vecchio regime" mantenute da
oltre un anno in condizioni di detenzione proibitive da queste milizie, che si
rifiutano di rimetterle alle autorità. Il governo sembra incapace di assicurare
la propria legittimità, se non al prezzo di una generalizzazione delle violenze
e degli scontri intestini. Nel luglio scorso aveva dato un ultimatum alle
milizie per la consegna dei detenuti e delle armi, ma nessuno l'ha ascoltato e
non c'è stata reazione.
La
debolezza delle autorità per noi è un punto fondamentale, su cui insistiamo: in
generale, si ha la tendenza a vedere un
governo come una struttura repressiva, in realtà la sua presenza e la sua
salute dovrebbe servire ad impedire che si compiano violazioni, come in questo
caso.
Allo
stesso tempo, la capacità di autorganizzazione delle comunità locali ha avuto
anche ricadute positive. Pensiamo ad esempio ai diritti linguistici e culturali
delle popolazioni berberofone, sistematicamente violati sotto il passato regime
ed oggi rivendicati con orgoglio nelle regioni amazigh, dove sono nate
associazioni e radio comunitarie che provvedono all'istruzione in questo senso.
Per concludere,
soffermiamoci un attimo sul contesto algerino, toccato solo in minima parte
dalle rivolte del 2011 e pertanto non meno problematico dei paesi vicini quanto
a rispetto dei diritti umani. Consultando il sito di Hrw, la documentazione
al riguardo sembra piuttosto carente. Perché?
La
situazione in Algeria ci preoccupa e non meno degli altri paesi della regione,
come ha giustamente sottolineato. Bisogna fare di più. Soprattutto per quel che
riguarda le forti restrizioni applicate alla libertà di manifestazione e di
associazione, all'operato dei sindacati indipendenti e dei partiti di
opposizione. La stampa nazionale sembra godere di una certa libertà, ma vi sono
soggetti tabù invalicabili, come il ruolo dell'esercito nella gestione politica
ed economica del paese. Nonostante l'abrogazione nel 2011 di alcune misure
eccezionali ereditate dagli anni del terrorismo, l'ordinamento legislativo permette
alle autorità e alla polizia di limitare in ogni momento le libertà e i diritti
civili della popolazione.
La
carenza di documentazione, che accomuna Hrw ad altre organizzazioni affini, è
data principalmente dalla difficoltà di accesso al territorio. Non è possibile
entrare come semplici turisti e i visti di soggiorno ci vengono concessi solo
raramente. Con questo non voglio dire che l'Algeria sia una sorta di Corea del
Nord in terra maghrebina, le notizie e le testimonianze filtrano, i giornalisti
sono audaci, la gente è disposta a parlare e a denunciare, rischiando le
ritorsioni del regime. C'è una vitalità interna al paese, nonostante il trauma
collettivo vissuto negli anni novanta, e ci sono associazioni combattive in
tutti i settori.
E'
proprio da questa base che bisognerà ripartire per offrire una copertura più
dettagliata del contesto, cercando così di accendere i riflettori.
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