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giovedì 20 giugno 2013

Tunisia. Due anni dopo, cosa resta dei rifugiati di Choucha?

Il campo di accoglienza situato nel sud del paese chiuderà i battenti il 30 giugno prossimo. Allestita ad inizio 2011 per i profughi del conflitto libico, la struttura ospita ancora diverse centinaia di sfollati che attendono di conoscere quale sarà il loro destino. Ritorno su una vicenda in cui lo slancio di generosa solidarietà degli inizi sembra aver lasciato il posto alle fredde logiche di esternalizzazione del controllo dei flussi migratori.
Il campo di Choucha


La storia, il film

Il campo di Choucha, assieme ad altri centri di accoglienza costruiti nel sud tunisino ed oggi smantellati, era stato allestito dall'Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR) nel febbraio 2011, dopo l'inizio della guerra in Libia (con relativi bombardamenti NATO sulla Tripolitania) e l'arrivo alla frontiera di Ras Jdir delle prime ondate di profughi.

Secondo le stime fornite dalle Nazioni Unite, oltre 200 mila persone provenienti dal paese vicino - di circa cento nazionalità diverse - sono transitate nelle tende e nei container di Choucha nel corso del 2011. 18 mila il numero massimo di ospiti presenti contemporaneamente nel campo, nella maggior parte dei casi lavoratori e migranti sub-sahariani e asiatici considerati dagli insorti come dei "protetti" del regime di Gheddafi e per questo oggetto di ritorsioni, oltre che vittime dei 'danni collaterali' del conflitto.

Più discreta, invece, la presenza (e soprattutto la permanenza) a Choucha dei libici in fuga da Tripoli, Misurata, Sirte, Beni Walid e Yefren, in genere accolti negli hotel di Tunisi o in grado di pagarsi una migliore sistemazione in altre città del paese, in attesa del passaggio del fronte o della fine degli scontri e del ritorno in patria.

Nelle prime fasi della crisi, data la gravità della situazione, l'Alto commissario Antonio Guterres aveva adottato per l'occasione un procedimento eccezionale, invitando gli Stati occidentali meglio equipaggiati a farsi carico dei profughi e ad accogliendoli con lo status di rifugiati. Ovviando così anche al buco legislativo tunisino in materia di diritto d'asilo.

La storia di questa emergenza e della solidarietà che in quei mesi di febbrile accoglienza ha contraddistinto in primis i cittadini tunisini, appena liberatisi del dittatore locale, è stata raccontata dal documentario Babylon, premiato nel luglio 2012 con il Grand Prix del festival internazionale del cinema di Marsiglia.

Due ore di pellicola che restituiscono la vita di Choucha, non solo dei suoi abitanti ma di tutto l'universo che vi ruota attorno: la genesi dei lavori, l'arrivo delle ong e dei media internazionali, la presenza dell'esercito e della popolazione locale, e poi la natura che fa da sfondo ad un contesto in continua trasformazione. Due ore in cui lo spettatore è abbandonato alla sola polifonia delle immagini e alla sua diretta interpretazione, senza sottotitoli o voce narrante a fare da filtro (clicca qui per vedere un breve estratto).

A parlare bastano i colori - la luminosità accecante del sole che sembra poter cancellare le rughe dai volti dei rifugiati, il verde militare che si confonde quello dei sacchi di spazzatura abbandonati ai lati del campo - e i suoni, come il vociare dei gruppetti vicino alle tende, il rumore del vento che agita i teloni o quello delle ruote che slittano sulla sabbia.

E' la primavera del 2011 quando tre giovani registi tunisini - Ismael, Youssef Chebbi e Ala Eddine Slim, autori fino a quel momento di cortometraggi e video sperimentali, riuniti nella casa di produzione indipendente Exit - decidono di scendere a sud, dove si stanno costruendo i primi accampamenti alle porte del deserto, "per vivere e filmare l'esperienza".

I tre non arrivano a Choucha per 'coprire' l'evento - secondo il gergo del reportage - ma per scoprire quello che sta accadendo. Si lasciano travolgere dalla quotidianità di una realtà in divenire, frastornati, quasi come i profughi che transitano e popolano il luogo, apparentemente inospitale ma via via impregnato d'umanità.

Al centro del film non sono i rifugiati intesi come un corpus omogeneo, né le loro storie di vita. E' il campo, punto di incontro e di scontro, di partecipazione e di conflitto, di angoscia ed euforia, ad essere protagonista. In Babylon è la 'città' a raccontare i suoi abitanti e non l'inverso: un accampamento provvisorio, cresciuto velocemente in mezzo al nulla, dove i profughi cercano di trovare una 'normalità' nonostante il carattere effimero della struttura.

Essendo pensata come zona di passaggio, a Choucha sembra difficile - almeno nei primi tempi - riuscire a tessere legami solidi tra le varie componenti. Altro leitmotiv del documentario è infatti la continua tensione, l'ambivalenza, tra un'incomunicabilità di fondo che regna tra i profughi - di nazionalità, lingua e cultura differenti - e il comune sentimento di appartenenza, anche da parte degli autori, ad una cittadinanza universale; quasi si trattasse di un mosaico in cui, seppur con difficoltà, ogni tessera riesce ad incastrarsi.

L'opera, dal punto di vista della struttura, si divide in cinque momenti. Il primo restituisce lo spazio di accoglienza prima dell'arrivo massiccio dei rifugiati, il secondo descrive il progressivo popolamento del campo, poi l'organizzazione della vita e della socialità, prima di lasciare aperto l'obiettivo sulla criticità dei rapporti al suo interno. L'ultimo spaccato si concentra sui trasferimenti e le prime partenze da Choucha: le tende cominciano a svuotarsi, il traffico della struttura si riduce e una domanda aleggia sullo sfondo. Cosa ne sarà di questo luogo quando l'emergenza sarà conclusa?

Choucha oggi (Foto by Voice of Choucha)
L'incertezza del futuro

La risposta è arrivata qualche mese fa dal governo tunisino. Choucha, la cui funzionalità è già ridotta da tempo, chiuderà definitivamente i battenti il prossimo 30 giugno. Tra dieci giorni gli ultimi abitanti del campo, circa 900 persone, saranno probabilmente abbandonati al loro destino. Chi sono?

Tra le migliaia di profughi finiti in questo centro dall'apertura nel 2011, oltre ai libici ed ai migranti che hanno deciso di proseguire il viaggio verso l'Europa o sono rientrati in patria, vi sono dei richiedenti asilo - in larga maggioranza provenienti dalle regioni sub-sahariane - che hanno provato a beneficiare delle "misure eccezionali" concesse per l'occasione dall'Alto commissario ONU (4 mila domande presentate, di cui oltre la metà accolte).

Di fronte a loro si sono materializzati tre scenari distinti: alcuni sono stati accolti come rifugiati in un paese terzo (essenzialmente Stati Uniti e paesi scandinavi); altri, che si sono visti accettare la domanda d'asilo, sono stati riconosciuti come rifugiati ma nessuno Stato si è dichiarato pronto a riceverli ed hanno come miglior prospettiva l'integrazione in Tunisia; altri ancora, i déboutés, hanno visto la loro richiesta respinta dall'UNHCR ma rifiutano il "rimpatrio volontario assistito" prospettato dall'agenzia (con pagamento del viaggio di ritorno e un piccolo bonus di uscita).

Due anni dopo l'inizio dell'emergenza e a pochi giorni dalla chiusura di Choucha, sono queste ultime due categorie ad alimentare la polemica e ad opporsi allo smantellamento del campo, vista l'incertezza che grava sul loro futuro.

Delle 900 persone circa ancora insediate negli accampamenti provvisori, ve ne sono 700 con lo status di rifugiato riconosciuto - di cui una metà destinata teoricamente a partire verso un paese terzo e l'altra metà in attesa di essere integrata in territorio tunisino - e 200 déboutés, confinati nel settore E della struttura, all'esterno del perimetro di Choucha.

Avendo rifiutato la soluzione proposta dall'Alto commissariato, questi 'non-rifugiati' hanno perduto dall'ottobre scorso il diritto all'assistenza da parte dell'UNHCR. Niente più distribuzione di viveri né medicinali, sopravvivono in tende lacerate dal vento e rattoppate a fatica, con la sola possibilità di accedere al rubinetto dell'acqua potabile - quando non è rotto - situato ai margini del campo. Hanno imparato a convivere con le frequenti tempeste di sabbia e a tenersi alla larga da una popolazione locale che con il passare del tempo sembra aver esaurito l'iniziale slancio di solidarietà, sostituito - sempre più spesso - da reazioni insofferenti quando non apertamente intolleranti.

Tornare nei loro paesi di origine, con l'eventualità di subire ritorsioni e abusi da cui erano stati costretti a fuggire, è fuori discussione per questa gente. Cosa ne sarà dopo il 30 giugno? "Una buona domanda", commenta un cooperante di stanza nel sud tunisino. "Le alternative proposte dall'UNHCR sono il rimpatrio o l'accompagnamento oltrefrontiera, in quella stessa Libia da cui sono scappati. Forse ingrosseranno le fila dei migranti in attesa della traversata verso Lampedusa".

"Di certo non scompariremo in mezzo al deserto", dichiarava uno di loro all'inviato della rivista on-line Regards, autore di un eccellente reportage da Choucha pubblicato nelle scorse settimane. Perché allora non aver tentato prima la traversata, come hanno fatto altri nella stessa situazione? "Perché per partire servono soldi. Per Lampedusa almeno 1000 dinari [circa 500 euro, nda] e adesso riesco appena a mangiare una volta al giorno".

La mancanza di assistenza dell'agenzia ONU è ovviata con piccoli espedienti - qualche lavoretto sottopagato in zona - e grazie all'intervento di alcune ong locali, come il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES) e il Centre de Tunis pour la migration et l'asile (CeTuMA). Le stesse che stanno facendo pressioni sul governo affinché attivi - anche per questa categoria di profughi - un programma di accoglienza nazionale. Ma lo status giuridico di déboutés sembra impedire una soluzione in questo senso.

Chcoucha oggi (Foto by Voice of Choucha)
Le proteste contro le agenzie internazionali che hanno gestito l'emergenza in Tunisia (UNHCR, OIM - Organizzazione mondiale per le migrazioni) arrivano anche da quei rifugiati che, seppur ufficialmente riconosciuti, si sono visti negare il trasferimento in un paese terzo. Per loro, il programma di integrazione nel territorio tunisino è "ingiusto e preoccupante", dal momento che li espone a discriminazioni già patite in questo contesto e li priva di un diritto - l'ambita ricollocazione in Europa o negli Stati Uniti - di cui altri in condizione analoga hanno potuto beneficiare.

A complicare il tutto c'è poi la grave crisi economica che sta attraversando la Tunisia. La carenza di impiego e investimenti la rende un contesto poco credibile rispetto alle promesse di accompagnamento nell'inserimento professionale fatte dalle autorità e sostenute - con ingenti programmi di finanziamento - dagli uffici di cooperazione di alcuni Stati europei. Un esempio emblematico: la regione di Medenine, in cui si trova il campo di Choucha, è quella con il più alto tasso di disoccupazione, perfino tra i giovani laureati. Tra l'altro, l'inserimento nel mercato del lavoro locale di nuova manodopera - con ogni probabilità a basso costo - mentre i disoccupati affollano le agenzie di collocamento, è mal vista dalla popolazione, che la considera una sorta di "concorrenza sleale", aumentandone così il risentimento.

Dal canto loro le autorità tunisine, secondo alcuni spinte soprattutto dagli accordi di esternalizzazione già siglati (o in procinto di) con l'Europa (Italia in primis), ribadiscono la volontà di modificare la propria legislazione per divenire a tutti gli effetti un paese di accoglienza, a cominciare dall'articolo sul diritto d'asilo che dovrebbe comparire nel nuovo testo costituzionale in attesa di finalizzazione.

E' di questo parere il professor Hassan Boubakri, presidente dell'organizzazione CeTuMA. "Il campo di Choucha è una conseguenza diretta del conflitto libico - dichiarava l'accademico al sito Regards -. E' quindi la NATO - non la Tunisia - che dovrebbe farsi carico delle vittime, o meglio dei rifugiati, provocati da questa guerra, a maggior ragione dopo la chiusura del campo. Intendiamoci, siamo favorevoli all'adozione di un articolo sul diritto d'asilo nella costituzione e vogliamo che il nostro paese adempia agli impegni dovuti nella regione. Ma allo stesso tempo non siamo stupidi. La parabola di Choucha è sintomatica. E' la dimostrazione che i paesi occidentali non vogliono assumersi le loro responsabilità, nemmeno quando innescano direttamente una crisi intervenendo in un conflitto. E' anche la conferma del processo di esternalizzazione in atto nella gestione dei flussi migratori".



Di seguito un video realizzato nel luglio 2011 da Médecins sans frontières sui primi sintomi dell'emergenza umanitaria di Choucha.

Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica in occasione della giornata internazionale del rifugiato (20 giugno).
Segnaliamo altri lavori sul tema profughi/rifugiati apparsi oggi nella stessa piattaforma.
"Saharawi: quarant'anni di esilio nel deserto", reportage fotografico dai campi saharawi in territorio algerino (a cura di Christian Tasso)

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