Il
campo di accoglienza situato nel sud del paese chiuderà i battenti il 30 giugno
prossimo. Allestita ad inizio 2011 per i profughi del conflitto libico, la
struttura ospita ancora diverse centinaia di sfollati che attendono di
conoscere quale sarà il loro destino. Ritorno su una vicenda in cui lo slancio
di generosa solidarietà degli inizi sembra aver lasciato il posto alle fredde
logiche di esternalizzazione del controllo dei flussi migratori.
Il campo di Choucha |
La storia, il film
Il
campo di Choucha, assieme ad altri centri di accoglienza costruiti nel sud
tunisino ed oggi smantellati, era stato allestito dall'Alto commissariato ONU
per i rifugiati (UNHCR) nel febbraio 2011, dopo l'inizio della guerra in Libia
(con relativi bombardamenti NATO sulla Tripolitania) e l'arrivo alla frontiera
di Ras Jdir delle prime ondate di profughi.
Secondo
le stime fornite dalle Nazioni Unite, oltre 200 mila persone provenienti dal
paese vicino - di circa cento nazionalità diverse - sono transitate nelle tende
e nei container di Choucha nel corso del 2011. 18 mila il numero massimo di
ospiti presenti contemporaneamente nel campo, nella maggior parte dei casi
lavoratori e migranti sub-sahariani e asiatici considerati dagli insorti come
dei "protetti" del regime di Gheddafi e per questo oggetto di
ritorsioni, oltre che vittime dei 'danni collaterali' del conflitto.
Più
discreta, invece, la presenza (e soprattutto la permanenza) a Choucha dei
libici in fuga da Tripoli, Misurata, Sirte, Beni Walid e Yefren, in genere
accolti negli hotel di Tunisi o in grado di pagarsi una migliore sistemazione in
altre città del paese, in attesa del passaggio del fronte o della fine degli
scontri e del ritorno in patria.
Nelle
prime fasi della crisi, data la gravità della situazione, l'Alto commissario
Antonio Guterres aveva adottato per l'occasione un procedimento eccezionale,
invitando gli Stati occidentali meglio equipaggiati a farsi carico dei profughi
e ad accogliendoli con lo status di rifugiati. Ovviando così anche al buco
legislativo tunisino in materia di diritto d'asilo.
La
storia di questa emergenza e della solidarietà che in quei mesi di febbrile
accoglienza ha contraddistinto in primis i cittadini tunisini, appena liberatisi
del dittatore locale, è stata raccontata dal documentario Babylon, premiato nel luglio 2012 con il Grand Prix del festival
internazionale del cinema di Marsiglia.
Due
ore di pellicola che restituiscono la vita di Choucha, non solo dei suoi
abitanti ma di tutto l'universo che vi ruota attorno: la genesi dei lavori,
l'arrivo delle ong e dei media internazionali, la presenza dell'esercito e
della popolazione locale, e poi la natura che fa da sfondo ad un contesto in
continua trasformazione. Due ore in cui lo spettatore è abbandonato alla sola
polifonia delle immagini e alla sua diretta interpretazione, senza sottotitoli
o voce narrante a fare da filtro (clicca qui
per vedere un breve estratto).
A
parlare bastano i colori - la luminosità accecante del sole che sembra poter
cancellare le rughe dai volti dei rifugiati, il verde militare che si confonde
quello dei sacchi di spazzatura abbandonati ai lati del campo - e i suoni, come
il vociare dei gruppetti vicino alle tende, il rumore del vento che agita i
teloni o quello delle ruote che slittano sulla sabbia.
E'
la primavera del 2011 quando tre giovani registi tunisini - Ismael, Youssef
Chebbi e Ala Eddine Slim, autori fino a quel momento di cortometraggi e video
sperimentali, riuniti nella casa di produzione indipendente Exit - decidono di
scendere a sud, dove si stanno costruendo i primi accampamenti alle porte del
deserto, "per vivere e filmare l'esperienza".
I
tre non arrivano a Choucha per 'coprire' l'evento - secondo il gergo del
reportage - ma per scoprire quello che sta accadendo. Si lasciano travolgere dalla
quotidianità di una realtà in divenire, frastornati, quasi come i profughi che transitano
e popolano il luogo, apparentemente inospitale ma via via impregnato d'umanità.
Al
centro del film non sono i rifugiati intesi come un corpus omogeneo, né le loro
storie di vita. E' il campo, punto di incontro e di scontro, di partecipazione
e di conflitto, di angoscia ed euforia, ad essere protagonista. In Babylon è la 'città' a raccontare i suoi
abitanti e non l'inverso: un accampamento provvisorio, cresciuto velocemente in
mezzo al nulla, dove i profughi cercano di trovare una 'normalità' nonostante
il carattere effimero della struttura.
Essendo
pensata come zona di passaggio, a Choucha sembra difficile - almeno nei primi
tempi - riuscire a tessere legami solidi tra le varie componenti. Altro
leitmotiv del documentario è infatti la continua tensione, l'ambivalenza, tra
un'incomunicabilità di fondo che regna tra i profughi - di nazionalità, lingua
e cultura differenti - e il comune sentimento di appartenenza, anche da parte
degli autori, ad una cittadinanza universale; quasi si trattasse di un mosaico in
cui, seppur con difficoltà, ogni tessera riesce ad incastrarsi.
L'opera,
dal punto di vista della struttura, si divide in cinque momenti. Il primo
restituisce lo spazio di accoglienza prima dell'arrivo massiccio dei rifugiati,
il secondo descrive il progressivo popolamento del campo, poi l'organizzazione
della vita e della socialità, prima di lasciare aperto l'obiettivo sulla
criticità dei rapporti al suo interno. L'ultimo spaccato si concentra sui
trasferimenti e le prime partenze da Choucha: le tende cominciano a svuotarsi,
il traffico della struttura si riduce e una domanda aleggia sullo sfondo. Cosa
ne sarà di questo luogo quando l'emergenza sarà conclusa?
Choucha oggi (Foto by Voice of Choucha) |
L'incertezza del futuro
La
risposta è arrivata qualche mese fa dal governo tunisino. Choucha, la cui
funzionalità è già ridotta da tempo, chiuderà definitivamente i battenti il
prossimo 30 giugno. Tra dieci giorni gli ultimi abitanti del campo, circa 900
persone, saranno probabilmente abbandonati al loro destino. Chi sono?
Tra
le migliaia di profughi finiti in questo centro dall'apertura nel 2011, oltre
ai libici ed ai migranti che hanno deciso di proseguire il viaggio verso
l'Europa o sono rientrati in patria, vi sono dei richiedenti asilo - in larga
maggioranza provenienti dalle regioni sub-sahariane - che hanno provato a beneficiare
delle "misure eccezionali" concesse per l'occasione dall'Alto
commissario ONU (4 mila domande presentate, di cui oltre la metà accolte).
Di
fronte a loro si sono materializzati tre scenari distinti: alcuni sono stati
accolti come rifugiati in un paese terzo (essenzialmente Stati Uniti e paesi
scandinavi); altri, che si sono visti accettare la domanda d'asilo, sono stati
riconosciuti come rifugiati ma nessuno Stato si è dichiarato pronto a riceverli
ed hanno come miglior prospettiva l'integrazione in Tunisia; altri ancora, i déboutés, hanno visto la loro richiesta
respinta dall'UNHCR ma rifiutano il "rimpatrio volontario assistito"
prospettato dall'agenzia (con pagamento del viaggio di ritorno e un piccolo
bonus di uscita).
Due
anni dopo l'inizio dell'emergenza e a pochi giorni dalla chiusura di Choucha,
sono queste ultime due categorie ad alimentare la polemica e ad opporsi allo
smantellamento del campo, vista l'incertezza che grava sul loro futuro.
Delle
900 persone circa ancora insediate negli accampamenti provvisori, ve ne sono
700 con lo status di rifugiato riconosciuto - di cui una metà destinata teoricamente
a partire verso un paese terzo e l'altra metà in attesa di essere integrata in
territorio tunisino - e 200 déboutés,
confinati nel settore E della struttura, all'esterno del perimetro di Choucha.
Avendo
rifiutato la soluzione proposta dall'Alto commissariato, questi 'non-rifugiati'
hanno perduto dall'ottobre scorso il diritto all'assistenza da parte
dell'UNHCR. Niente più distribuzione di viveri né medicinali, sopravvivono in
tende lacerate dal vento e rattoppate a fatica, con la sola possibilità di
accedere al rubinetto dell'acqua potabile - quando non è rotto - situato ai
margini del campo. Hanno imparato a convivere con le frequenti tempeste di
sabbia e a tenersi alla larga da una popolazione locale che con il passare del
tempo sembra aver esaurito l'iniziale slancio di solidarietà, sostituito -
sempre più spesso - da reazioni insofferenti quando non apertamente intolleranti.
Tornare
nei loro paesi di origine, con l'eventualità di subire ritorsioni e abusi da
cui erano stati costretti a fuggire, è fuori discussione per questa gente. Cosa
ne sarà dopo il 30 giugno? "Una buona domanda", commenta un
cooperante di stanza nel sud tunisino. "Le alternative proposte dall'UNHCR
sono il rimpatrio o l'accompagnamento oltrefrontiera, in quella stessa Libia da
cui sono scappati. Forse ingrosseranno le fila dei migranti in attesa della
traversata verso Lampedusa".
"Di
certo non scompariremo in mezzo al deserto", dichiarava uno di loro
all'inviato della rivista on-line Regards,
autore di un eccellente reportage
da Choucha pubblicato nelle scorse settimane. Perché allora non aver tentato
prima la traversata, come hanno fatto altri nella stessa situazione?
"Perché per partire servono soldi. Per Lampedusa almeno 1000 dinari [circa
500 euro, nda] e adesso riesco appena
a mangiare una volta al giorno".
La
mancanza di assistenza dell'agenzia ONU è ovviata con piccoli espedienti -
qualche lavoretto sottopagato in zona - e grazie all'intervento di alcune ong
locali, come il Forum tunisien des droits économiques et sociaux (FTDES) e il
Centre de Tunis pour la migration et l'asile (CeTuMA). Le stesse che stanno
facendo pressioni sul governo affinché attivi - anche per questa categoria di
profughi - un programma di accoglienza nazionale. Ma lo status giuridico di déboutés sembra impedire una soluzione
in questo senso.
Chcoucha oggi (Foto by Voice of Choucha) |
Le
proteste contro le agenzie internazionali che hanno gestito l'emergenza in
Tunisia (UNHCR, OIM - Organizzazione mondiale per le migrazioni) arrivano anche
da quei rifugiati che, seppur ufficialmente riconosciuti, si sono visti negare
il trasferimento in un paese terzo. Per loro, il programma di integrazione nel
territorio tunisino è "ingiusto e preoccupante", dal momento che li
espone a discriminazioni già patite in questo contesto e li priva di un diritto
- l'ambita ricollocazione in Europa o negli Stati Uniti - di cui altri in
condizione analoga hanno potuto beneficiare.
A
complicare il tutto c'è poi la grave crisi economica che sta attraversando la
Tunisia. La carenza di impiego e investimenti la rende un contesto poco
credibile rispetto alle promesse di accompagnamento nell'inserimento
professionale fatte dalle autorità e sostenute - con ingenti programmi di
finanziamento - dagli uffici di cooperazione di alcuni Stati europei. Un
esempio emblematico: la regione di Medenine, in cui si trova il campo di
Choucha, è quella con il più alto tasso di disoccupazione, perfino tra i
giovani laureati. Tra l'altro, l'inserimento nel mercato del lavoro locale di
nuova manodopera - con ogni probabilità a basso costo - mentre i disoccupati
affollano le agenzie di collocamento, è mal vista dalla popolazione, che la
considera una sorta di "concorrenza sleale", aumentandone così il
risentimento.
Dal
canto loro le autorità tunisine, secondo alcuni spinte soprattutto dagli
accordi di esternalizzazione già siglati (o in procinto di) con l'Europa (Italia
in primis), ribadiscono la volontà di modificare la propria legislazione per
divenire a tutti gli effetti un paese di accoglienza, a cominciare
dall'articolo sul diritto d'asilo che dovrebbe comparire nel nuovo testo
costituzionale in attesa di finalizzazione.
E'
di questo parere il professor Hassan Boubakri, presidente dell'organizzazione
CeTuMA. "Il campo di Choucha è una conseguenza diretta del conflitto
libico - dichiarava l'accademico al sito Regards
-. E' quindi la NATO - non la Tunisia - che dovrebbe farsi carico delle
vittime, o meglio dei rifugiati, provocati da questa guerra, a maggior ragione
dopo la chiusura del campo. Intendiamoci, siamo favorevoli all'adozione di un
articolo sul diritto d'asilo nella costituzione e vogliamo che il nostro paese
adempia agli impegni dovuti nella regione. Ma allo stesso tempo non siamo
stupidi. La parabola di Choucha è sintomatica. E' la dimostrazione che i paesi
occidentali non vogliono assumersi le loro responsabilità, nemmeno quando
innescano direttamente una crisi intervenendo in un conflitto. E' anche la
conferma del processo di esternalizzazione in atto nella gestione dei flussi
migratori".
Di seguito un
video realizzato nel luglio 2011 da Médecins sans frontières sui primi sintomi dell'emergenza
umanitaria di Choucha.
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