Intervista ad Aziz El Yaakoubi, una delle penne più giovani e coraggiose del panorama giornalistico marocchino. L’incontro è avvenuto ad inizio novembre in un bar poco lontano dalla redazione del Journal Hebdomadaire, il settimanale dove Aziz ha lavorato fino a due mesi fa, quando il regime ha messo fine alla pubblicazione.
J. G. : Come sempre in questi casi, mi piacerebbe partire dall’inizio. Chi era Aziz El Yaakoubi prima di trasformarsi nel promettente giornalista che ho di fronte?
A. E. Y. : Sono nato nelle montagne dell’Alto Atlante Occidentale, un piccolo villaggio berbero nascosto tra le cime che separano Essaouira da Agadir. E’ lì che ho trascorso la prima parte della mia esistenza. Non c’era televisione, elettricità, vivevo in una condizione diciamo da medio evo. A dieci anni mi sono trasferito ad Imin Tanoute, una cittadina poco distante dalla strada nazionale che collega Marrakech all’Atlantico, per frequentare la scuola media. Dopodiché è stata la volta della città rossa, dove ho proseguito gli studi al liceo scientifico locale. A Marrakech vivevo in un collegio per studenti. Lì ho subito scoperto il significato della parola militanza: per avere un pasto decente bisognava battersi tutti i giorni. Nel convitto erano presenti due grandi correnti politiche: quella islamista, legata all’associazione Al Adl Wal Ihsane (che il regime rifiuta di riconoscere come partito politico da quasi trent’anni, nda), e quella marxista-leninista, chiamata in gergo basiste (la maggior parte degli aderenti è iscritta al partito Annaj Democrati, ultimo retaggio politico dei movimenti comunisti che dominavano gli atenei negli anni settanta, nda). Nel mio primo anno di collegio ho raggiunto gli islamisti, quasi per inerzia. Le loro idee erano più vicine all’educazione tradizionale che avevo ricevuto fino a quel momento. Sono cresciuto in una famiglia musulmana praticante, di stampo piuttosto conservatore.
La prima esperienza da militante, tuttavia, è durata appena un anno. Durante l’adolescenza, lontano da casa, ho capito quali erano i miei veri interessi, che andavano ben al di là moschea. Oltre alla battaglia per la difesa dei diritti degli studenti, per la verità condivisa dalle entrambe le correnti, avevo maturato un’apertura più ampia, che superava il dogma religioso nel quale non mi riconoscevo più. Le letture, il contatto con alcuni professori e le ore trascorse in biblioteca mi hanno aiutato a capire quale direzione prendere.
Entrato all’università, mi sono avvicinato ai basistes. Anche se, pur avendo un gran rispetto per le lotte portate avanti dagli amici comunisti, non ero particolarmente attratto dall’ideologia marxista-leninista. Così ho optato per il movimento trozkista, noto in Marocco come l’Unione degli studenti rivoluzionari. A Cadi Ayyad c’erano davvero tutte le correnti politiche, gauchistes, islamisti, saharawi, amazigh (movimento berbero, nda). Ma nel 2002, una volta ottenuta la laurea in Scienze economiche, sono tornato al paese, interrompendo il mio cammino da militante.
J. G. : Perché hai deciso di tornare al “medio evo”?
A. E. Y. : Appena uscito dall’università non riuscivo a trovare lavoro. Il decennio che va dal 1995 al 2005 è stato assolutamente disastroso per l’equilibrio economico e sociale del Marocco. La disoccupazione è aumentata a ritmo costante e, laurea o no, trovare un impiego era un’impresa impossibile. Non avevo abbastanza soldi per aspettare un’occasione decente senza fare niente. Per questo ho deciso di tornare al paese, sulle montagne. Per due anni ho trascorso intere giornate in famiglia, in preda alla frustrazione. Mi sentivo bloccato. Poi ho capito che il tempo stava passando in fretta. Dovevo muovermi, mettermi in gioco, se non volevo ridurmi a sopravvivere di espedienti, come la gran parte dei miei connazionali. Da qui la scelta di trasferirmi a Casablanca. Per tirare su qualche soldo, ho lavorato per due anni e mezzo in un call center. Senza la benché minima idea di cosa potesse diventare il mio futuro. In quel periodo ho conosciuto un amico giornalista. E’ stato lui, dopo notti e notti passate a discutere, che mi ha proposto di scrivere. Per imparare il mestiere, ho iniziato nel sito di informazione gestito da Maroc Telecom. Non era gran ché, ma mi permetteva di familiarizzare con la scrittura. Ci sono rimasto quasi due anni, prima di venir ingaggiato dall’Economiste, giornale di riferimento per i capitalisti marocchini. Ho accettato quel posto anche se, diciamo a livello ideologico, ero consapevole di lavorare per il nemico. L’anno trascorso al quotidiano, tuttavia, mi è servito ad affinare la tecnica e lo stile, insomma mi ha permesso di diventare davvero un giornalista.
J. G. : Un anno utilissimo, a giudicare dai risultati. E’ stato dopo l’esperienza all’Economiste che sei passato al Journal?
A. E. Y. : Sì, lavoro al Journal Hebdomadaire da poco più di un anno. Sono stato contattato da Fadel Iraqi, il direttore del giornale, nell’ottobre 2008. Appena ricevuta la chiamata, ho raggiunto subito l’equipe. In effetti era l’unico media nazionale a riservarmi un avvenire professionale. Non so quanto avrei ancora resistito all’Economiste. Avevo bisogno di libertà e indipendenza, caratteristiche pressoché assenti nel panorama della stampa marocchina attuale.
Aziz El Yaakoubi, oltre ad essere un giornalista apprezzato (alcuni dei suoi reportage, come quello sulla produzione di hashish nelle montagne del Rif, sono stati ripresi dal Courrier International), è salito alla ribalta nelle cronache nazionali per aver preso parte alla polemica iniziativa lanciata dal MALI in pieno ramadan. Era il settembre 2009, quando Aziz e cinque altri membri del gruppo hanno cercato rompere il digiuno in pieno giorno, sfidando la severa legislazione marocchina in materia.
Nel seguito dell’intervista ho voluto di ripercorrere assieme a lui quei momenti, cercando di chiarire le ragioni di un gesto che ha scioccato l’opinione pubblica, scatenando l’ira del regime e delle forze islamiste. Prima però, per entrare meglio nel tema, vi propongo la traduzione di un articolo uscito al tempo sul settimanale indipendente Tel Quel.
(Estratto dell’articolo “Ramadan, tra libertà e repressione”, pubblicato da Tel Quel, n. 390, 19-25 settembre 2009).
Per la prima volta un gruppo di cittadini marocchini rivendica in pubblico il proprio diritto a non rispettare il digiuno durante il ramadan. Le autorità minacciano ritorsioni legali, mentre l’iniziativa accende il dibattito su scala nazionale.
Domenica 13 settembre 2009 uno strano spettacolo va in scena all’interno della stazione di Mohammedia. Decine di poliziotti si mescolano ai viaggiatori stravolti, che cercano di capire cosa stia succedendo, mentre una folla di giornalisti e fotografi si fa strada attorno a…. sei persone dall’aspetto ordinario. “Facciamo parte del MALI, il Movimento Alternativo per le Libertà Individuali”, scandisce Zineb El Rezaoui, ex-giornalista e ideatrice del movimento. Cos’è il MALI (l’acronimo, in dialetto marocchino, significa: che cos’hai da rimproverarmi?)? Un gruppo nato su facebook, all’inizio del mese di digiuno, che “sostiene la libertà di culto, la libertà di coscienza e in generale tutte le libertà personali”. “Si tratta di un movimento che animerà azioni concrete per protestare contro le violazioni quotidiane (piccole e grandi) commesse ai danni delle libertà individuali di cui ogni cittadino marocchino dovrebbe godere”, scrive Zineb El Rezaoui in un comunicato diffuso in rete il 24 agosto. La prima azione prevista è un pic-nic simbolico in pieno giorno, durante il ramadan, per protestare contro l’articolo 222 del Codice penale, secondo cui “ogni persona che, conosciuta per la sua appartenenza alla religione musulmana, rompa il digiuno in un luogo pubblico durante il periodo di ramadan, senza alcun motivo ammesso dalla stessa religione, è punito con un’ammenda dai 12 ai 120 dirhams e con il carcere da uno a sei mesi”. Per questo motivo Zineb e gli altri si sono dati appuntamento alla stazione di Mohammedia, punto di ritrovo prima di incamminarsi verso la vicina foresta. Tra i sei non tutti hanno l’intenzione di rompere il digiuno. Alcuni sono arrivati fin lì soltanto per discutere di libertà e di rispetto dei diritti. Ma la polizia non ammette eccezioni. Schierata lungo i binari, circonda i sei giovani e li costringe a salire sul primo treno diretto a Casablanca, senza che nessun panino sia uscito dagli zaini. (….)
Ayla Mrabet
J. G. : Aziz El Yaakoubi e il MALI. Parlami un po’ di questa esperienza.
A. E. Y. : Sono diventato un membro del Movimento Alternativo per le Libertà Individuali (MALI) solo qualche giorno prima degli eventi di Mohammedia. Più o meno alla fine di agosto (2009). Zineb El Rezaoui, una delle due fondatrici del gruppo, lavorava con me al Journal. Aveva dato le sue dimissioni da poco, ma eravamo rimasti molto legati. E’ stata lei a farmi conoscere il MALI, un progetto che ho subito condiviso. Sono stato il primo ad aderire al gruppo facebook.
J. G. : Già, il gruppo facebook. Perché il movimento ha scelto di utilizzare la rete?
A. E. Y. : Il movimento è nato da un’idea di Zineb El Rezaoui e Ibtissam Lachgar, compagne di studi in Francia. Rientrate entrambe in Marocco, hanno continuato a frequentarsi e alla fina hanno deciso di creare il MALI. Il primo passo è stato un gruppo su facebook, una piattaforma molto in voga nel paese, come un po’ dappertutto nel mondo. La scelta di facebook non è avvenuta per caso. Questo strumento, oltre alla grande capacità di diffusione, ci assicurava un target potenzialmente recettivo: giovani connazionali, forse animati dalle nostre stesse aspirazioni. L’alternativa che ci trovavamo di fronte era dar vita ad un’associazione, con tutti gli ostacoli del caso come i tempi burocratici e gli impedimenti legali. Attraverso internet invece, abbiamo ricevuto quasi duemila adesioni soltanto nella prima settimana. Un fenomeno sorprendente.
J. G. : Un fenomeno sicuramente sorprendente, e soprattutto originale.
A. E. Y. : Fare il militante in internet non è poi così difficile, la prova è che In Marocco ci sono molti gruppi facebook che si proclamano attivisti per una causa o per l’altra. Ma fino a quel fatidico 13 settembre, mai nessuno, partendo dalla rete, aveva avuto il coraggio di scendere in strada per far sentire la propria voce. Questa è un’altra delle novità del MALI, il solo per il momento ad aver proposto un’azione simile. Un esempio che spero possa essere ripreso quanto prima.
J. G. : Come è nata l’idea di rompere il digiuno in pubblico?
A. E. Y. : E’ stata Zineb a lanciare la proposta. Il gruppo si era formato proprio durante il ramadan e lei voleva sfruttare la coincidenza. Io in principio non ero d’accordo. Il mio passato da militante mi portava a pensare che fossero ben altre le priorità per cui battersi in modo concreto, come per esempio il diritto al lavoro e la riforma dell’insegnamento. Immaginavo che il nostro gesto potesse fornire una ghiotta occasione ai conservatori e ai fondamentalisti per gridare alla difesa dei valori e della tradizione. Alla fine Zineb è riuscita a convincermi. Dopo ore e ore di discussioni, anche piuttosto animate, ho capito che se vogliamo seriamente parlare di libertà, dobbiamo considerare queste libertà come un unico insieme, un blocco compatto e inscindibile. Ecco allora che militare per i diritti individuali assume la stessa importanza che militare per i diritti collettivi. E’ dopo aver maturato questa considerazione che ho deciso di prendere parte alla manifestazione di Mohammedia.
J. G. : Qual era l’obiettivo dell’iniziativa?
A. E. Y. : Chiedere l’abrogazione dell’articolo 222 del Codice penale, una legge che contraddice i trattati internazionali in merito al rispetto delle libertà individuali sottoscritti dal Marocco. La manifestazione non sosteneva soltanto i diritti di coloro che non fanno il ramadan, ma anche di tutti quei cittadini praticanti che ne hanno abbastanza di una politica di regime basata esclusivamente su divieti di questo genere. Non sarà certo qualche panino mangiato all’aria aperta a dissolvere le convinzioni dei credenti. E se così fosse, vorrebbe dire che la maggior parte della popolazione segue il dogma religioso soltanto per paura e imposizione.
Altro punto fondamentale. L’articolo 222 vieta la rottura del digiuno a tutti i marocchini, considerati automaticamente musulmani per nascita. Ma che cosa significa rompere il digiuno in pubblico? Se mangio affacciato alla finestra di casa mia sono in pubblico o in privato? E poi, perché tutti i marocchini devono essere considerati musulmani? Io, per esempio, non sono credente e rivendico il diritto di non osservare i precetti religiosi in cui non mi riconosco. Senza contare la grande anomalia che si pone per i connazionali di religione ebraica e cristiana.
Purtroppo, mentre sul contesto internazionale la monarchia cerca di fornire l’immagine di un Marocco tollerante e aperto, nella legislazione interna rimangono in vigore codici assolutamente proibitivi e discriminatori, come quelli che regolamentano la vendita delle bevande alcoliche, o quelli che vietano il proselitismo, ostacolando la libera professione delle fedi diverse da quella musulmana, in pieno contrasto con quanto stabilito dalla stessa costituzione.
J. G. : Come ha reagito l’opinione pubblica al vostro gesto?
A. E. Y. : I primi ad aver diffuso la notizia sono stati i giornali populisti di regime, quelli più letti nel paese. Parlando dell’iniziativa di Mohammedia, non hanno neanche fatto riferimento ai contrasti legislativi presenti nell’ordinamento marocchino. Gli è bastato dipingerci come dei pericolosi blasfemi. Di conseguenza l’opinione pubblica ha reagito, a primo impatto, con grande ostilità. Ad eccezione dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani), nessuna altra organizzazione ha cercato di difendere e spiegare le ragioni della manifestazione. E’ solo in questi ultimi giorni, dopo gli articoli pubblicati dalla stampa indipendente (Le Journal Hebdomadaire, Tel Quel, Al Jarida Al Oula) che le polemiche si stanno allentando e si inizia a riflettere in modo diverso sul nostro gesto.
J. G. : Qual è stato invece l’atteggiamento delle autorità?
A. E. Y. : Repressione vecchio stile. Il giorno della manifestazione, alla stazione di Mohammedia c’erano centinaia di poliziotti ad attenderci. Forse si aspettavano decine di aderenti all’iniziativa (in effetti, quando è stata proposta l’azione, circa sessanta persone all’interno del gruppo facebook avevano confermato la loro partecipazione). Quando hanno visto che eravamo solo in sei, ci hanno circondato, costringendoci a salire sul primo treno diretto a Casablanca. A questo punto arriva la parte più assurda. Dopo il rientro a Casablanca sono iniziati gli arresti, gli interrogatori e gli insulti. I poliziotti sono venuti a cercarmi a casa, mi hanno prelevato ed ho trascorso un’intera settimana all’interno del commissariato. Un accanimento sproporzionato, sintomo che il regime, dietro all’autoritarismo ostentato continuamente, nasconde in realtà una debolezza profonda. Un’instabilità celata che lo porta a considerare ogni azione fuori dal coro come una minaccia. In quei giorni il sovrano ha perfino riunito tutti i rappresentanti dei partiti politici per invitarli a condannare pubblicamente il nostro gesto. L’accusa principale che ci è stata rivolta è di “attacco all’integrità dello Stato e all’identità nazionale”.
J. G. : Dopo il gran polverone sollevato e il fango che è stato gettato sul MALI, pensi ancora di aver fatto la scelta giusta quel 13 settembre?
A. E. Y. : Assolutamente. Non rimpiango di aver preso parte all’iniziativa. Al contrario, se prima ero ancora un po’ scettico, dopo gli eventi di Mohammedia mi sono convinto che la nostra azione era quanto mai giusta e necessaria. Una provocazione salutare, forse eccessiva nei modi, lo ammetto, attraverso la quale abbiamo cercato di sollevare un dibattito.
Viviamo in una società attraversata da forti contrasti, che inevitabilmente rimettono in discussione i valori e il tradizionalismo di cui è ancora permeata. Da una parte l’apertura dei mercati e l’occidentalizzazione delle élites, dall’altra il ritorno dirompente del fondamentalismo. Invece di subire queste dinamiche, seguendo ciecamente le direttive imposte, l’opinione pubblica dovrebbe fermarsi a riflettere. Ma stando alle attuali condizioni, difficilmente un simile dibattito potrà aver luogo. L’ipocrisia che riveste la società e la dittatura che la opprime, ostacolando la libera espressione della gente, fa sì che risulti impossibile sapere quello che realmente pensano i marocchini. A volte viene da chiedersi se, dopo anni e anni di lavaggio del cervello e di omologazione all’interno delle scuole, conservino ancora un pensiero autentico.
J. G. : Dalle tue parole sembrerebbe che la transizione di cui tanto si parla nel paese sia in realtà ancora lontana.
A. E. Y. : Non nego che il Marocco abbia vissuto un’apertura politica ed economica durante gli anni novanta. Ma a mio avviso è sbagliato affermare che in Marocco sia ancora in atto una vera transizione, tanto a livello politico quanto sociale. Ci sono delle spinte, tenute tuttavia ben a freno. La prima vittima di questo cambiamento sarebbe proprio la monarchia e, finché il sovrano continuerà a mantenere il controllo su tutti i poteri, nessuna reale trasformazione farà seguito agli annunci e alle promesse esibite ad hoc per tranquillizzare i partner europei.
Un esempio, il tanto celebrato Codice della famiglia, la moudawwana. Quei giuristi occidentali che hanno salutato la promulgazione del codice con elogi infiniti, o non hanno letto l’intero testo o sono vittime della stessa ipocrisia che affligge il paese. Nella moudawwana ci sono alcuni articoli che affidano la sorte della donna nelle mani di un giudice: è lui a decidere se una moglie abbia o meno il diritto di separarsi dal marito. Una persona con totali poteri discrezionali, senza alcuna limitazione legale, il più delle volte immerso in quella mentalità arcaica e conservatrice che il codice stesso afferma di voler superare. Tutto questo per ribadire che c’è una grande differenza tra il discorso ufficiale propugnato all’estero dal regime e la realtà presente all’interno del paese.
J. G. : In un tuo articolo recente hai parlato di una “società schiacciata, educata alla paura e alla sottomissione”. Puoi spiegarmi meglio questa definizione?
A. E. Y. : Il crimine più grande che lo Stato continua a commettere contro i suoi stessi cittadini è la devastazione in cui versa l’insegnamento pubblico, l’unico accessibile ai marocchini. Quando parlo di una “società schiacciata, educata alla paura e alla sottomissione”, mi riferisco soprattutto a questo. Le scuole, di qualunque livello, non hanno i mezzi necessari per assicurare un servizio degno di questo nome. Senza contare che i programmi imposti dal Ministero sono gli stessi da decenni. A partire dagli anni ottanta, per esempio, è stato sospeso l’insegnamento della filosofia. Solo negli ultimi tempi si torna a parlare di pensiero politico nelle facoltà. Dei piccoli accenni, che sinceramente sfiorano il ridicolo. Nella migliore delle ipotesi le scuole, dalle elementari all’università, possono essere considerate una fabbrica di automi privi di autocoscienza. Neanche gli studenti universitari, come tu stesso hai constatato (sono attualmente stagista all’università Hassan II di Casablanca, nda), riescono ad esprimersi su tematiche quali la necessità di una riforma della giustizia o della modifica costituzionale. La soluzione di tutti i problemi resta il re, verso il quale continua ad essere impartita una sorta di venerazione. Questo significa che il livello dell’istruzione sta sprofondando in modo vergognoso. Anche i recenti rapporti delle agenzie internazionali hanno segnalato la gravità della situazione. Il popolo marocchino ha perduto il suo spirito critico. Dagli anni settanta ad oggi si è assistito ad un declino sia intellettuale che culturale. Non ci sono più grandi pensatori, grandi scrittori. La generazione di Chraibi, Choukri, Khair-Eddine e Zafzaf resta solo un lontano ricordo. La società sembra essersi arresa ad un potere che ha fatto di tutto per impoverirla, non solo sul piano culturale.
J. G. : Per concludere vorrei tornare ancora sul MALI. Se ben ricordo, il procuratore di Casablanca parlava di un possibile processo a vostro carico?
A. E. Y. : Si, è esatto. Ma dopo le minacce e le provocazioni piovute durante gli interrogatori, non è stato avviato nessun provvedimento giudiziario. Del resto non abbiamo commesso alcun reato. A Mohammedia i poliziotti non ci hanno permesso nemmeno di uscire dalla stazione.
J. G. : Esiste ancora un Movimento Alternativo per le Libertà Individuali?
A. E. Y. : Il MALI continua ad esistere, almeno virtualmente. Per capire se dietro la lista degli aderenti al gruppo facebook ci sia ancora una coscienza e la volontà di reclamare i propri diritti, bisognerebbe lanciare una nuova iniziativa. Ma per il momento né io né Zineb abbiamo la forza di ricominciare il calvario lasciato poche settimane fa. Dobbiamo far passare un po’ di tempo prima di ritornare alla carica. Del resto il movimento non rivendica solo la libertà di coscienza, ma tutte le libertà personali che continuano ad essere violate nel paese. Per esempio, la libertà di vivere e manifestare la propria omosessualità.
Casablanca, 7 novembre 2009
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