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domenica 28 marzo 2010

Storia di ordinaria repressione nel “Marocco profondo”

E’ una giornata fredda e piovosa, piuttosto insolita nella regioni interne del Souss. Lasciata alle spalle la pianura brulla che circonda Guelmim, la strada prosegue in direzione est, verso le montagne. Una lunga scia di asfalto mal ridotto si fa largo tra le pareti rosse e pietrose dell’Anti Atlante. Dopo le prime gole, il percorso scende dolcemente. Il paesaggio cambia, in maniera improvvisa, e i colori assieme a lui. Le tinte vermiglie delle rocce lasciano così spazio al verde intenso dell’oasi di Taghjijt.
Le mura di fango e paglia sono attorniate da una fitta foresta di palme. Sul fianco della collina le nuove costruzioni in cemento sovrastano i resti del villaggio berbero, antico crocevia attraversato dalle carovane beduine in viaggio verso la costa atlantica del Sahara. Nonostante la bellezza del luogo, il turismo sembra aver disertato Taghjijt, appena sfiorato dai camper e dai furgoni diretti alle dune di sabbia che circondano Zagora. L’unico albergo presente in paese è chiuso ormai da tempo, almeno a giudicare dall’aspetto polveroso e dimesso della facciata. I datteri del palmeto sono la sola risorsa a disposizione degli abitanti. Ben poca cosa, dato il valore irrisorio del prodotto e l’abbondante disponibilità in tutta la fascia predesertica che separa il Marocco dalla vicina Algeria.



La piccola cittadina di Taghjijt, circa tre mesi fa, è finita nelle cronache di alcuni media indipendenti nazionali, dopo che un sit-in allestito dagli studenti del villaggio ha innescato la repressione delle forze di sicurezza. Le autorità si sono dimostrate incapaci di gestire la protesta, del tutto pacifica fino all’intervento della polizia, oltre che sorde alle rivendicazioni dei giovani universitari. Le violenze sarebbero passate inosservate agli occhi dell’opinione pubblica, se due giovani blogger del posto, Bachir Hazzam e Boubker Yadil, non avessero pubblicato in internet un resoconto dettagliato degli eventi accaduti il 1° dicembre scorso. A finire di fronte al giudice, tuttavia, non sono stati i responsabili dell’aggressione, bensì sei abitanti del villaggio, tra cui i due blogger. Bachir Hazzam, condannato a quattro mesi in prima istanza, è uscito di prigione da pochi giorni, dopo che la corte d’appello ha dimezzato la sua pena.

L’oasi violata
La strada sterrata che attraversa il palmeto è inondata dal diluvio incessante caduto nelle ultime ore. Supero le prime case, mentre le ruote dell’auto presa a noleggio arrancano con fatica, immerse nel fango della carreggiata. In giro non c’è anima viva. Vecchi e giovani se ne stanno al riparo nelle terrazze dei rari café. Rassegnati, aspettano la fine della tormenta.
L’arrivo di uno straniero, da queste parti, non passa inosservato. Raggiunta la piazza principale, una spianata melmosa su cui si affaccia un edificio elegante e rifinito (l’unico della città), mi si fa incontro uno strano personaggio, basso e barbuto, dall’aria complessivamente non troppo amichevole. Si tratta del caid, massima autorità del villaggio alle dipendenze del Ministero dell’Interno. Vuole conoscere la mia identità e le ragioni della mia presenza a Taghjijt. Un bel guaio, dato che non sono un giornalista accreditato e non ho alcuna giustificazione plausibile da offrire. A tirarmi fuori dall’impiccio ci pensa però Abdellah Hazzam, fratello del blogger Bachir, il mio contatto in loco.
Abdellah studia all’Università di Agadir (distante 200 Km), come molti altri ragazzi del posto. Appassionato di romanzi francesi e delle poesie di Baudelaire, frequenta il primo anno alla facoltà di Lettere. Anche lui il 1° dicembre scorso ha preso parte alla manifestazione tenutasi davanti al comune, “nella piazza dove ci siamo incontrati poco fa”, precisa con un sorriso di intesa. Gli studenti chiedono agevolazioni sul prezzo dei trasporti e l’allestimento di una biblioteca in paese. “In facoltà ci assegnano spesso delle ricerche, ma qui non abbiamo a disposizione alcun tipo di materiale. Niente manuali, niente libri né riviste, insomma in queste condizioni non possiamo studiare”. Nel primo pomeriggio decine di ragazzi, rientrati in paese per festeggiare l’Aid Kebir assieme alle famiglie, si radunano di fronte al municipio, mentre i quattordici gendarmi di stanza a Taghjijt osservano la scena senza intervenire. Al sit-in prendono parte giovani saharawi, attivisti amazigh, simpatizzanti islamisti e gauchistes. “La manifestazione – tuttavia - non aveva presupposti politici”, assicura Abdellah. Gli universitari di Taghjijt infatti, di ogni appartenenza e colore, rivendicano un diritto universale, garantito in teoria dalla stessa costituzione marocchina (art. 13). Il diritto allo studio. Il caid però rifiuta di prendere in considerazione le loro richieste e domanda l’intervento massiccio della polizia di Guelmim, inventandosi una ribellione che non ha mai avuto luogo. “Non abbiamo né lanciato pietre né appiccato fuochi, al contrario di quanto riferito dal procuratore durante il processo. Sono solo calunnie per giustificare la punizione che ci hanno inflitto”, conferma il giovane studente.
All’arrivo delle forze ausiliarie, una “lista nera” finisce nelle mani delle autorità. Nell’elenco compaiono i nomi di circa ottanta ricercati. A consegnarla “sono stati alcuni abitanti del villaggio che lavorano per il caid, pagati per informare e tenere la situazione sotto controllo. Gli stessi che lo hanno avvertito del tuo arrivo”, afferma Bachir Hazzam, rimasto in silenzio dall’inizio della conversazione. I poliziotti irrompono in paese e arrestano tre studenti, che vengono picchiati e insultati fino al trasferimento nel carcere di Guelmim. La caccia all’uomo prosegue durante la notte: ogni abitazione è passata in rassegna. La cittadina rimane isolata per quarantotto ore, mentre la polizia continua il rastrellamento. Anche Abdellah è tra i ricercati: “uno zio che vive dall’altra parte dell’oasi mi ha tenuto nascosto due giorni, dopodiché sono scappato verso Agadir”.

I blogger rompono il silenzio
In casa Hazzam si è radunata una piccola folla. Seduti attorno alla tavola imbandita per l’occasione (formaggio, pane, olive e ovviamente datteri), alcuni abitanti del villaggio discutono animatamente in darija (il dialetto marocchino). Poi Bachir prende la parola. “Terminato il coprifuoco, ho deciso di scrivere un articolo nel mio blog (hazzam82.maktoobblog.com), per raccontare quanto successo a Taghjijt e denunciare la violenza delle autorità”. Barba ben curata e djellaba color avorio, questo ventisettenne dall’aria timida e riflessiva è membro dell’associazione islamica Al Adl Wal Ihsane (“Giustizia e Carità”), da trent’anni nelle mire del regime. In quegli stessi giorni anche Boubker Yadil, altro blogger della zona, ha pubblicato un resoconto dettagliato degli avvenimenti verificatisi il 1° dicembre. Per entrambi viene emesso un mandato di cattura. Mentre Yadil si dà alla fuga, Hazzam non riesce ad evitare l’arresto, colpevole secondo la polizia giudiziaria di “aver diffuso informazioni che danneggiano l’immagine del Marocco nel settore dei diritti umani”. Ad attenderlo in carcere, oltre ai tre studenti fermati durante la manifestazione, c’è anche Abdallah Boukfou, il proprietario dell’internet point utilizzato dai due blogger. “Al momento dell’irruzione, gli agenti hanno sequestrato tutti i computer presenti nel locale, perfino le memorie esterne conservate negli armadi”, racconta M’barek, lo zio di Boukfou.
Il processo è speditivo, viziato da pesanti anomalie. Il 15 dicembre Hazzam è condannato a quattro mesi di prigione. Sei mesi il verdetto per i tre universitari, colpevoli di “distruzione di beni pubblici”, “raduno armato” e “insulti all’indirizzo di un funzionario”. Al gestore del cybercafé, invece, tocca la pena più severa, un anno di reclusione per “incitamento all’odio razziale”. Il motivo di un tale accanimento: nel materiale informatico sotto sequestro, la polizia ha rinvenuto i comunicati di alcune associazioni amazigh. “Boukfou è membro del movimento berbero che da anni lotta contro le discriminazioni subite dagli abitanti della zona. Per questo, oltre alle torture durante l’interrogatorio, è stato punito con una condanna esemplare”, afferma Said Ezzaoui, responsabile della LADH (Lega amazigh per i diritti dell’uomo) eletto nel consiglio comunale di Taghjijt.
Dopo la sentenza, un coro di critiche, dentro e fuori i confini nazionali, si leva all’indirizzo del governo. Secondo un responsabile locale dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo), “il regime continua a rispondere con la violenza, piuttosto che con seri programmi di sviluppo, alle richieste dei cittadini che vivono in condizioni di disagio”. Il sito Global Voices (che riunisce blogger di tutto il mondo) e Reporters sans frontieres protestano per l’arresto di Hazzam. “Invece di gettare degli innocenti in prigione, le autorità marocchine farebbero meglio ad indagare sugli abusi commessi dai loro servizi di sicurezza”, dichiara un comunicato dell’organizzazione francese, che nella graduatoria mondiale relativa alla libertà di stampa ha retrocesso il Marocco alla 127° posizione.
Alla fine la corte d’appello, spinta forse dalla pressione internazionale esercitata su Rabat, ha ridotto le condanne pronunciate dal tribunale di primo grado. Bachir Hazzam e i tre studenti, avendo già scontato la loro pena, sono così rientrati al villaggio l’8 febbraio scorso, mentre in prigione restano ancora Abdallah Boukfou e Boubker Yadil, sorpreso ad inizio gennaio dopo un mese di latitanza. “Eravamo in ottanta rinchiusi nella stessa cella, costretti a dormire per terra uno a fianco all’altro”. Il ricordo del carcere vela di amarezza il volto di Bachir. I due grandi occhi bruni fanno fatica a staccarsi dal pavimento della sala. Tuttavia, nonostante la brutta esperienza vissuta, il cyberdissidente non sembra scoraggiarsi: “continuerò a pubblicare articoli nel mio blog, a difendere le mie idee, nella speranza che il Marocco diventi finalmente uno Stato democratico e rispettoso dei diritti umani”.
In un paese in cui i media difficilmente sfuggono al bavaglio della monarchia, internet resta probabilmente l’ultima frontiera capace di garantire un accesso libero all’informazione. L’unico mezzo per dar voce al malessere di quelle regioni remote, in cui gli abitanti, poveri e in gran parte disoccupati, sono costretti a sopravvivere di espedienti. In questo senso il lavoro dei blogger come Hazzam e Yadil risulta determinante per rompere la cortina di silenzio che avvolge il “Marocco profondo”, per far emergere dall’oblio le centinaia di Taghjijt, dove la presenza dello Stato riesce a farsi notare solamente per la brutalità con cui cerca di mantenere lo status quo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ancora un po' e finiremo così anche in Italia, invece di un caid avremo in ogni paese un 1/2 busto che alla bisogna farà da giudice popolare, prete e militare.
Comunque complimenti al blogger.