Il 20 febbraio 2011 migliaia di giovani attivisti marocchini scendevano in strada nelle principali città del regno per protestare contro l'assolutismo monarchico e la corruzione dilagante nelle sfere di potere. Ad un anno di distanza il movimento - denominato da allora "20 febbraio" - continua a manifestare per l'instaurazione di un sistema democratico e per denunciare la "riforma di facciata" orchestrata dal regime. Ma la "primavera marocchina" sembra aver perduto il suo slancio iniziale, a giudicare almeno dall'entusiasmo con cui la popolazione ha accolto le sue ultime iniziative. Ne parliamo con Omar Radi, giornalista al settimanale Tel Quel, tra i fondatori del movimento dissidente.
Pochi giorni fa abbiamo assistito alla celebrazione del primo anniversario del movimento 20 febbraio. I sit-in e le manifestazioni organizzati lo scorso fine settimana sono apparsi però sotto tono e poco partecipati, se paragonati ai primi mesi di mobilitazione. Qual è la sua valutazione?
Penso che un movimento, per definizione, possa conoscere dei momenti di maggiore intensità e dei momenti di debolezza, delle impasse. Avevamo grandi aspettative e fino ad ora abbiamo ottenuto ben poco di concreto, non lo nascondo, soprattutto per come era cominciata la nostra esperienza.
Il "20 febbraio" aveva acquisito subito un notevole vigore e un buon seguito popolare nei mesi marzo e aprile 2011, toccando il suo apice - guarda caso - nei giorni che hanno preceduto l'attentato a Marrakech [il 24 aprile avevano manifestato, in oltre cento città, circa 700 mila persone sotto lo slogan "dignità, libertà e giustizia sociale", ndr]. In quel periodo il rapporto di forza instaurato con il potere sembrava poter giocare a nostro favore.
Poi la repressione delle manifestazioni in maggio, gli attacchi della stampa e la mancanza di un concreto sostegno di quei partiti e quei sindacati che a parole affermano di appoggiarci hanno via via indebolito la contestazione.
Infine, l'aver limitato le nostre ambizioni politiche, almeno inizialmente, al passaggio ad una monarchia parlamentare ha prestato il fianco al recupero delle rivendicazioni [nuova costituzione, fine del governo al-Fassi, ndr] da parte dell'autorità, che è stata abile nel vestire i panni della monarchia riformatrice. Ma il cosiddetto "processo di riforme", guidato dal re e spalleggiato da una classe politica obbediente, non ha preso in considerazione concetti quali democrazia, divisione dei poteri, uguaglianza dei cittadini ed equa redistribuzione delle risorse. La nuova costituzione - che ne rappresenta l'emblema - è stata presentata e consacrata, in pochi giorni, da un plebiscito di stampo sovietico, falsato da pesanti irregolarità. Una costituzione che la maggioranza della popolazione non ha nemmeno letto, non dico capito, prima del referendum confermativo.
Una "riforma di facciata", dunque, per calmare le acque?
Nonostante il nuovo testo definisca quella marocchina come una monarchia parlamentare, il sovrano resta il titolare del potere religioso e giuridico, il vertice dell'apparato di sicurezza, la guida della politica interna ed estera, oltre ad essere, extra-costituzione, il primo attore economico del paese. Non vedo in questi requisiti la base per una transizione democratica.
Senza contare la repressione delle manifestazioni, i processi farsa contro i dissidenti e l'arresto - in alcuni casi - dei sostenitori del boicottaggio al momento del referendum. Inoltre, nonostante la sacralità del sovrano sia stata espunta dal nuovo testo, proseguono gli arresti e le condanne per chi critica pubblicamente Mohammed VI, i giornali sono vietati quando pubblicano una sua caricatura e i manifestanti di Taza sono perseguitati prima dalla polizia e poi nei tribunali, con la compiacenza del nuovo governo Benkirane.
Tutto questo mentre "le libertà di pensiero, di opinione e di espressione sono garantite in tutte le loro forme", secondo l'art. 25. Con un simile bilancio, quali garanzie può ancora offrirci la costituzione, fosse anche formalmente democratica come la propaganda di palazzo continua ad insinuare?
A proposito del governo Benkirane. La vittoria del partito islamico alle elezioni legislative può rappresentare una speranza di cambiamento del sistema dall'interno - un'opzione disconosciuta dal "20 febbraio" - e dunque un'alternativa al cammino intrapreso dal movimento?
Non le nascondo che perfino all'interno del "20 febbraio" alcuni hanno creduto nella possibilità di un apporto positivo al quadro politico legale dopo la vittoria del PJD [Partito della giustizia e dello sviluppo, ndr]. Ma sono bastati tre mesi perché anche quest'aspettativa venisse disillusa. La formazione del governo ha lasciato spazio ai soliti ministri e segretari di "sovranità" pilotati dal monarca e, come accennavo in precedenza, le contestazioni a Taza e Ben Mellal sono state represse duramente, mentre la censura dei giornali - di cui è responsabile il ministro della Comunicazione - non si ferma e i media on-line, non ancora sottomessi al bavaglio del codice della stampa, vengono apertamente minacciati dall'esecutivo, che ha in programma una legge ad hoc per limitarne il campo di azione.
Sembra che i responsabili del PJD abbiano rinunciato alla coerenza e alla credibilità che avevano acquisito in quindici anni di opposizione parlamentare. Fin dai primi passi sono divenuti dei meri esecutori delle direttive di palazzo, come già era avvenuto in occasione del "governo di alternanza" guidato dal socialista Youssoufi nel 1997. Non mi sorprende. A mio avviso il makhzen [struttura di controllo politico ed economico capillare su cui si regge il regime, ndr] resta un sistema non riformabile.
L'eterogeneità del movimento - che ha accolto al suo interno i militanti della sinistra radicale, gli attivisti berberi e quelli islamici (fino al dicembre 2011), oltre a molti giovani indipendenti o provenienti dal settore associativo - è stata un punto di forza o un fattore di divisione che ha minato la coesione e la stabilità del "20 febbraio"?
Per prima cosa è stata una novità, un'unione inedita che gli oppositori delle vecchie generazioni non sono mai riusciti a realizzare, grazie anche all'intervento del regime che ha fatto di tutto - fin dai primi anni post-indipendenza - per mantenere diviso il fronte dissidente. Questa capacità di trovare un terreno di intesa, rinunciando ai particolarismi per aspirare ad un comune ideale democratico, ha sorpreso tutti, dalla monarchia ai partiti di sinistra, abituati ad una gestione centralizzata e a volte ottusa della linea politica da seguire.
L'eterogeneità del movimento ha stimolato un confronto costruttivo ed ha assicurato un sostegno reciproco, non certo un handicap. Per tutti noi ha rappresentato una palestra della democrazia e un mezzo di educazione alla riflessione critica, di cui il nostro paese ha assolutamente bisogno per emergere dalla palude in cui si trova.
Le assemblee generali del movimento erano e restano aperte, tutti i partecipanti hanno lo stesso peso e diritto di parola, senza leader o portavoce. In più, ogni città ha la propria coordinazione [oltre cento il numero stimato, ndr] che decide in autonomia le iniziative da intraprendere. Non esiste un comitato centrale del "20 febbraio".
La mancanza di leader, di figure di riferimento, può aver influito negativamente?
L'assenza di leader riconosciuti o investiti della loro funzione di guida non significa l'assenza di figure carismatiche, essenziali durante lo svolgimento delle manifestazioni o nella scelta delle iniziative da intraprendere. La nostra storia nazionale, anche recente, ci insegna che le personalità dissidenti più esposte all'opinione pubblica sono da un lato le più minacciate e dall'altro i bersagli privilegiati del recupero e della cooptazione del regime. Abderrahmane Youssoufi, Driss Benzekri e Mohamed Sebbar sono solo alcuni degli ultimi esempi.
Abbiamo rinunciato in modo consapevole a scegliere dei responsabili, evitando così il rischio di una manipolazione del movimento da parte delle autorità, che non ha "teste" da corrompere. In ogni caso il "20 febbraio" non ha bisogno di interlocutori per scendere a patti con questo regime.
Quale ruolo nella recente flessione ha avuto l'abbandono del movimento da parte dell'organizzazione islamica Giustizia e Spiritualità?
La partenza dell'organizzazione di Yassine ha determinato senz'altro un calo del numero dei partecipanti alle manifestazioni. Ma Giustizia e Spiritualità, pur essendo uscita dai ranghi del "20 febbraio", sta proseguendo la sua azione di sensibilizzazione all'interno delle lotte sociali attive nel paese. E' il caso, per esempio, dei diplomés-chomeurs [laureati-disoccupati, ndr], che nelle ultime settimane hanno radicalizzato slogan e iniziative, a Rabat come a Taza e Safi, esercitando una forte pressione sulle autorità.
Perché, fino ad oggi, la contestazione politica del "20 febbraio" e la protesta sociale portata avanti dalle associazioni e dai gruppi organizzati dei disoccupati non sono riuscite a convergere e a fare fronte comune?
Il movimento non ha escluso le rivendicazioni sociali - accesso ad un'istruzione e una sanità pubblica di qualità, diritto al lavoro e fine della depredazione delle risorse perpetrata dall'elite al potere - dalla piattaforma presentata ad inizio febbraio 2011, anche se la caratterizzazione assunta dalla nostra protesta, soprattutto dopo il discorso reale del 9 marzo, è stata essenzialmente politica.
Detto questo, non bisogna dimenticare che quella dei diplomés-chomeurs è rimasta fino ad ora una rivendicazione corporativistica, funzionale al conseguimento di nuovi posti di lavoro nella pubblica amministrazione e diretta ai differenti ministeri di competenza.
La loro iniziativa non ha mai messo in discussione un regime che alimenta disoccupazione qualificata e poggia su clientelismo e corruzione. Per loro il regime resta un interlocutore essenziale per arrivare alla concertazione e a nuove assunzioni, come se le problematiche sociali fossero indipendenti dal sistema di potere in cui emergono. In più bisogna fare i conti con la frammentazione dei gruppi organizzati, alcuni dei quali sono controllati dagli attivisti del PJD, che mina il terreno di intesa e impedisce una vera azione comune anche all'interno dello stesso fronte dei disoccupati.
Ma ripeto, le azioni delle ultime settimane, la rivolta di Taza come le immolazioni a Rabat, dimostrano che anche gli chomeurs si stanno avviando al punto di non ritorno. Se ti cospargi di benzina e ti dai fuoco significa che non vedi più alcuna prospettiva, che non hai più fiducia nel tuo interlocutore e che non hai più niente da perdere.
E nel caso dei sindacati? Perché l'appoggio delle due maggiori confederazioni (UMT, Unione marocchina dei lavoratori - CDT, Confederazione democratica del lavoratori) resta soltanto "formale"?
La prima considerazione da fare è che il numero attuale dei sindacalizzati in Marocco è appena il dieci per cento dei sindacalizzati di venti anni fa, conseguenza della dura lotta condotta da Hassan II dal suo braccio destro Driss Basri durante gli "anni di piombo". Nel settore privato i sindacati sono pressoché assenti, mentre quelli presenti nel settore pubblico si sono burocratizzati.
L'esempio tunisino, in questo senso, non è troppo distante. L'UGTT [Unione generale dei lavoratori tunisini, ndr] era un piedistallo e non un antagonista del sistema Ben Ali e il segretario Jrad ha atteso fino all'ultimo momento prima di "scaricare" il palazzo di Cartagine e chiamare allo sciopero generale. Anche in Marocco i direttivi delle centrali sindacali restano nel mezzo, nei casi più audaci, ed evitano di prendere posizione, in attesa di veder evolvere i rapporti di forza tra la contestazione e il regime. Ciò non toglie che alcune sezioni locali o di categoria, proprio come nel nostro vicino maghrebino, hanno dimostrato un atteggiamento ben più radicale ed hanno sostenuto incondizionatamente, partecipando a scioperi e sit-in, le iniziative del movimento.
La seconda considerazione è che l'insieme della galassia sindacale, pur restando ambigua, ha comunque approfittato delle mobilitazioni in atto dal 20 febbraio scorso, riuscendo a strappare un aumento di 600 dirham (circa 60 euro) per i salari mensili dei dipendenti pubblici. Un provvedimento che ha contribuito a stemperare le posizioni e le dichiarazioni di alcuni leader, mentre per le autorità è stata l'occasione di acquistare, almeno fino ad ora, una certa "pace sociale".
Abbiamo citato in precedenza la reazione "politica" della monarchia all'emergere del movimento. Qual è stata, invece, la reazione dell'apparato di sicurezza alle iniziative del "20 febbraio"?
La repressione di piazza è stata di minore intensità se paragonata ad altri esempi nella regione. Del resto il movimento non ha mai raggiunto l'eco o il vigore di piazza Tahrir in Egitto, o dei sollevamenti in Siria e in Yemen. In queste condizioni la violenza gratuita su manifestanti pacifici avrebbe solo inasprito il confronto e incentivato la critica al regime, che non è così ingenuo.
Ciò non toglie che la repressione, pur non sistematica, ha comunque toccato dei picchi di brutalità, come il 20 febbraio ad Al Hoceima e nel maggio scorso a Casablanca, Rabat e Safi. Senza contare poi la violenza morale, le intimidazioni, i licenziamenti, gli attacchi di una stampa più che mai agli ordini e le minacce di morte che gli attivisti subiscono continuamente. Le convocazioni in commissariato, gli arresti e le condanne si ripetono ormai con cadenza costante.
Qual è il bilancio di questa "repressione morbida"?
Secondo le cifre diffuse dall'AMDH [Associazione marocchina per i diritti umani, ndr], gli attivisti del movimento uccisi a causa dell'intervento diretto della polizia o dei baltajia [milizie pro-regime, ndr] sono nove, mentre le persone finite in arresto sono circa un centinaio, di cui più della metà resta ancora in carcere.
Nonostante le difficoltà del momento, quali conquiste ha ottenuto il movimento ad un anno dall'inizio della contestazione?
Siamo riusciti ad incrinare il muro della paura eretto dal regime, sfatando tabù e linee rosse, osando criticare la figura del sovrano e mettendo apertamente in discussione il suo ruolo. Con le nostre azioni e la nostra assidua presenza nelle piazze abbiamo sollevato il coperchio al vaso di Pandora, abbiamo dato diritto di parola a chi fino ad ora non l’ha mai avuto. La gente ha sempre meno timore a reclamare quello che gli spetta, anche se non necessariamente lo fa al nostro fianco. Mi riferisco, per esempio, ai pensionati dell’esercito e delle forze ausiliarie che stanno marciando oggi di fronte al Parlamento per denunciare le precarie condizioni di vita e per chiedere l’aumento delle pensioni (il 25% dello stipendio). Fino ad un anno fa sarebbe stato impensabile.
Quanto alla nuova costituzione, per noi non è certo una conquista, ma resta la constatazione che dopo quasi quindici anni di promesse e vaghi riferimenti alla necessità di una riforma costituzionale, solo le migliaia di manifestanti scese in strada per reclamare il cambiamento hanno costretto la monarchia a reagire, un risultato irraggiungibile perfino per i partiti dell'opposizione storica, che da vent'anni hanno smesso di chiedere conti al monarca.
Certo, nel rapporto di forza con il regime, per ora siamo stati sconfitti. Lo scarso entusiasmo con cui la popolazione ha risposto alle nostre ultime iniziative lo conferma. Ma il movimento, pur ridotto nei numeri, resta uno spazio inedito di espressione del dissenso, una voce fuori dal coro e dalla propaganda ufficiale che ha dipinto per anni la gioventù marocchina come apatica e apolitica.
Sul piano personale quale insegnamento ha tratto da questa esperienza?
La cosa che più mi ha colpito è stata la solidarietà prodottasi all'interno del movimento. Il passaparola e i sit-in di fronte ai commissariati di polizia ad ogni arresto. I picchetti ai tribunali durante le udienze e le campagne di sensibilizzazione in sostegno ai detenuti. Sempre pronti a reagire, giorno e notte.
Sono stati mesi di grande maturazione personale. Le faccio un esempio. Quando ero all'università facevo parte di uno dei tanti collettivi di sinistra presenti all'interno del campus. Collettivi che immancabilmente finivano per scontrarsi, anche in maniera violenta, con i gruppi di studenti islamisti e in particolare con i membri di Giustizia e Spiritualità. Dopo l'appello del 20 febbraio mi sono ritrovato al fianco di quegli attivisti che prima credevo di dover combattere. Condividevano in fondo la mia stessa speranza, nonostante la diversa matrice ideologica, e così ho imparato a conoscerli e rispettarli. Abbiamo manifestato assieme, siamo stati picchiati e minacciati assieme.
Il "20 febbraio" è stata anche l'occasione per molti dissidenti che portavano avanti la loro lotta in maniera solitaria, attivi su internet ma non affiliati ad organizzazioni già esistenti, di uscire dall'isolamento e di mettere in comune la loro esperienza.
In definitiva, pensa che il movimento si stia avviando verso una lenta agonia o abbia ancora un futuro e la possibilità di raggiungere gli obiettivi prefissi?
La nostra capacità di mobilitazione sembra essersi ridotta, ma non significa che il "20 febbraio" sia morto o che abbia esaurito la sua funzione. Non dobbiamo fare l'errore di paragonare quanto successo in Marocco con quello che hanno vissuto nell'ultimo anno altri paesi della regione. Se la rivoluzione tunisina e il sollevamento egiziano hanno dato l'impulso alla nascita del movimento, sappiamo che il percorso per arrivare al cambiamento ed all'instaurazione di un nuovo sistema democratico è ancora lungo, e il "20 febbraio" potrà essere uno - e non il solo - degli strumenti per ottenerlo.
Se proprio vogliamo azzardare un parallelo, preferisco citare gli esempi del movimento kifaya e del movimento 6 aprile in Egitto, le cui potenzialità rivoluzionarie erano minime e tenute in scarsa considerazione al momento delle prime azioni di resistenza contro il regime di Mubarak. Dopo anni di lavoro "in ombra" però, hanno svolto un ruolo di primo piano nell'occupazione di piazza Tahrir e nella caduta del dittatore.
In Marocco la maggioranza della popolazione nasconde un'indignazione profonda, un malessere sociale e un sentimento di frustrazione che né la riforma della costituzione né le iniziative filantropiche promosse dalle fondazioni reali sono riuscite ad intaccare. Tuttavia, solo quando a questi fattori riusciremo ad aggiungere il coraggio e la consapevolezza collettiva, avremo la maturità e la forza necessaria per raggiungere gli obiettivi prefissi.
(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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