Dopo
aver ritirato in primavera la propria fiducia sul mediatore delle Nazioni
unite, Rabat fa un passo indietro e acconsente alla visita di Christopher Ross a
Laayoune, dove le manifestazioni indipendentiste continuano ad essere represse.
Per i ventiquattro attivisti da due anni in stato di "custodia
cautelare", invece, il processo di fronte al tribunale militare non si
farà. Almeno per il momento.
Il "campo della dignità" di Gdeim Izik nei dintorni di Laayoune. La foto è di Gilberto Mastromatteo. |
Era
previsto per lo scorso 24 ottobre, ma è stato subito sospeso sine die, il processo di fronte al
tribunale militare di Rabat dei detenuti saharawi ritenuti responsabili - da
parte delle autorità marocchine - della protesta di Gdeim Izik (Laayoune)
organizzata nel 2010 e degli scontri seguiti allo smantellamento del
"campo della dignità".
L'accampamento,
situato a pochi chilometri di distanza dal capoluogo del Sahara Occidentale, voleva
costituire un estremo tentativo di denuncia delle difficili condizioni
socio-economiche vissute dai saharawi sotto il controllo del regno alawita e
della repressione quotidiana subita dagli attivisti locali, indipendentisti e difensori
dei diritti umani.
Le
tende del campo, durante il mese di ottobre, arrivarono ad accogliere diverse
migliaia di persone, stanche della marginalizzazione e delle vessazioni
imposte. Un episodio, la più grande protesta pacifica saharawi degli ultimi
decenni, che per alcuni osservatori - tra cui Noam Chomsky - ha segnato l'inizio
delle "primavere arabe", prima ancora dell'immolazione di Mohamed
Bouazizi a Sidi Bouzid (Tunisia).
L'atteggiamento
delle autorità marocchine nei confronti della protesta è ambiguo, quando non
palesemente contraddittorio. In un primo momento, dopo aver circondato
l'accampamento, vennero avviate delle trattative con gli occupanti, mostrando un'apertura
al dialogo e sottolineando il carattere "non politico" della
contestazione. Poche settimane dopo però la situazione cambia improvvisamente.
La denuncia della "presenza indipendentista" a Gdeim Izik fu così il
preludio all'intervento delle forze di sicurezza, che demolirono i tendaggi e caricarono
i presenti (8 novembre 2010). Gli scontri, violenti, proseguirono nei giorni
successivi per le strade di Laayoune e portarono alla morte, secondo il
bilancio di Rabat, di tredici persone tra cui undici agenti.
Da
allora i ventiquattro prigionieri che sarebbero dovuti comparire in tribunale nei
giorni scorsi sono rinchiusi nel carcere di Salé, in attesa di giudizio,
nonostante i ripetuti scioperi della fame e la mobilitazione delle famiglie sul
piano mediatico (soprattutto all'estero). Accusati di omicidio plurimo,
manifestazione non autorizzata, distruzione di beni pubblici e associazione a
delinquere rischiano, secondo il codice marocchino, la pena di morte.
Sono
molte le perplessità suscitate dalla vicenda agli occhi degli osservatori
internazionali giunti nella capitale del regno per assistere al processo. Innanzi
tutto la decisione di deferire gli imputati, tutti civili, di fronte alla
giustizia militare. "Un fatto insolito, dal momento che ci troviamo in
tempo di pace", afferma l'avvocatessa spagnola Inés Miranda. In effetti il
cessate il fuoco firmato nel 1991 tra il Fronte Polisario - che rivendica
l'autodeterminazione del territorio conteso - e il Marocco aveva posto fine al
conflitto armato avviato negli anni settanta, dopo la partenza dei coloni
iberici dalla regione.
Per
il magistrato italiano Nicola Quatrano - responsabile dell'Osservatorio
internazionale per i diritti (Ossin) e
presente a Rabat assieme alla giurista Roberta Bussolari - "consentire ai
tribunali militari di processare civili solleva seri dubbi in relazione ad
un'equa, indipendente e imparziale amministrazione della giustizia, soprattutto
ove vi siano presunti crimini commessi contro le forze armate".
Il
processo ai detenuti di Gdeim Izik, di conseguenza, violerebbe le garanzie
procedurali di base stabilite dal Comitato ONU per i diritti umani e dalla
Corte europea di Strasburgo. "E' proprio questa la questione da sollevare
dinnanzi agli organismi internazionali - prosegue Quatrano - primo tra tutti il
Parlamento europeo, trattandosi di una grave violazione dei diritti dell'uomo
al cui rispetto il Marocco è tenuto dai diversi trattati e convenzioni
stipulati con l'UE".
Sempre
secondo il comunicato
diffuso da Ossin, che segue la vicenda dal momento dello smantellamento del
campo, il processo sarebbe viziato da altre pesanti irregolarità. Due esempi:
"Gli
imputati sono accusati di plurimi omicidi - si legge nel testo - nei confronti
di appartenenti alle forze dell'ordine, dei quali tuttavia nell'ordinanza di
rinvio a giudizio non vengono nemmeno menzionati i nomi".
"Il
compendio accusatorio si fonda esclusivamente sulle confessioni degli imputati,
rese in assenza del difensore e in stato di detenzione, all'interno dei locali
della polizia giudiziaria in cui erano trattenuti in stato di arresto. Va
peraltro sottolineato che diversi familiari degli accusati hanno denunciato
torture e maltrattamenti nei confronti degli imputati".
Le
denunce
dei familiari dei detenuti sembrano trovare conferma nelle parole dell'inviato
ONU sulla tortura Juan Mendez, che proprio martedì scorso ha presentato
all'Assemblea generale le conclusioni della visita in Marocco effettuata in
settembre.
Per
il regno alawita, membro non permanente del Consiglio di sicurezza, si è
trattato dell'ennesima doccia fredda in campo internazionale, dopo le accuse in
tema di violazioni dei diritti avanzate da Human Rights Watch, dalla Corte europea e dallo stesso Mendez
al termine del soggiorno nel territorio maghrebino.
L'inviato
delle Nazioni unite ha ribadito infatti di fronte all'assise che il Marocco
continua a servirsi di metodi violenti e pratiche degradanti contro i cittadini
in generale e gli attivisti/oppositori in particolare, saharawi in primis.
"Ci sono numerose prove di un eccessivo utilizzo della forza", ha
dichiarato Mendez prima di aggiungere: "ogni volta che viene tirata in
ballo la questione della sicurezza nazionale vi è la tendenza ad utilizzare la
tortura durante gli interrogatori".
Su
queste basi è tornata di attualità, in seno al Consiglio di sicurezza, la
proposta di estendere le competenze della MINURSO
al monitoraggio delle violazioni dei diritti umani in Sahara Occidentale. Una
proposta sollecitata dagli attivisti saharawi e dal Polisario ma respinta dal
Marocco e dal solido alleato francese, nonostante l'inviato speciale del
Segretario Ban Ki-Moon - Christopher Ross - abbia messo in dubbio l'intera
credibilità della missione ONU a causa dei limiti imposti al suo mandato.
Proprio
l'arrivo di Christopher Ross nel regno alawita sarebbe all'origine del
congelamento dell'udienza contro i detenuti di Gdeim Izik. Il motivo ufficiale
addotto dalla Procura fa riferimento alla necessità, da parte della corte, di
studiare il dossier di un nuovo detenuto - arrestato in settembre - la cui
posizione è stata riunita a quella degli altri imputati.
In
realtà secondo gli osservatori, la concomitanza con la visita - programmata
proprio nei giorni successivi al 24 ottobre - dell'inviato speciale ONU per il
Sahara Occidentale, dimostratosi già ampiamente sensibile al rispetto dei
diritti e delle libertà nella regione, avrebbe spinto Rabat a non celebrare un
processo destinato ad avere ampia risonanza mediatica.
Una visita
"storica" dopo le polemiche
Il
Marocco è tornato sui suoi passi dopo che, nella scorsa primavera, aveva
decretato la propria sfiducia
all'inviato di Ban Ki-Moon. Il rapporto annuale rimesso dal Segretario generale
nelle mani del Consiglio di sicurezza - di cui Christopher Ross è stato
ispiratore - era stato definito dalla diplomazia alawita "parziale e
squilibrato". Principalmente due le ragioni dell'affondo: nel rapporto
venivano evidenziate le interferenze di Rabat e gli ostacoli posti al lavoro
della MINURSO; nel calendario ONU era previsto un imminente viaggio
dell'inviato a Laayoune, evento per nulla gradito alla monarchia.
La
visita in Sahara, in effetti, era in programma da maggio, ma le polemiche alimentate
dalle autorità marocchine, che hanno minacciato il ritiro dai negoziati, avevano
indotto l'inviato a rimandare il soggiorno.
Cosa
è cambiato da allora? Il rifiuto ostinato di Ban Ki-Moon a sfiduciare Ross e il
mancato sostegno degli Stati Uniti all'iniziativa di Rabat, due rovesci per la
diplomazia alawita, oltre alle rivelazioni traumatiche di Juan Mendez. Un
insieme di fattori che hanno spinto il Marocco ad adottare, almeno per il
momento, una strategia di basso profilo sul piano internazionale.
Ecco
allora che Christopher Ross viene ricevuto con tutti gli onori dal sovrano
Mohammed VI (29 ottobre) e dai principali rappresentanti politici, gli stessi
che fino a poche settimane prima continuavano a chiedere pubblicamente le sue
dimissioni e a gridare al complotto.
Dopo
la sosta nella capitale, l'inviato delle Nazioni unite è volato a Laayoune per una
tappa da molti definita "storica". Per la prima volta, infatti, ha
potuto incontrare le organizzazioni saharawi che sostengono apertamente il
diritto all'autodeterminazione (e rifiutano la concessione di un'autonomia
regionale sotto la sovranità marocchina proposta da Rabat), con cui nemmeno i
membri della MINURSO erano mai riusciti ad intrattenersi fino a questo momento.
Alla
riunione tenuta ieri (giovedì 1° novembre, ndr)
nei locali della missione internazionale hanno così preso parte, tra gli altri,
gli attivisti della Associazione saharawi vittime delle violazioni dei diritti
umani (ASVDH) e della Coordinazione per la difesa del Sahara Occidentale
(CODESA), da anni nel mirino delle autorità alawite.
Per
la militante dell'ASVDH Galia El Djimi "qualcosa potrebbe cambiare"
in merito al conflitto che da quasi quarant'anni oppone Marocco e
indipendentisti: "lo dimostra il fatto che Ross sia finalmente riuscito ad
incontrarci". L'inviato ONU aveva specificato, proprio nel rapporto
incriminato, che i colloqui ufficiali tra i rappresentanti del regno e del
Polisario (ripresi dal 2007 a Manhasset, New York) erano destinati a fallire se
si fosse continuato ad escludere dai negoziati la popolazione saharawi.
Popolazione
che, a margine dell'incontro, è scesa in piazza a Laayoune per protestare
contro l'occupazione. Stando alle notizie riportate da alcune fonti locali, il
corteo sarebbe stato represso con violenza dalla polizia marocchina la quale,
nonostante la presenza della delegazione internazionale, non avrebbe esitato ad
attaccare i manifestanti e gli attivisti accorsi in loro sostegno, come nel
caso di Aminatou Haidar (la presidente del CODESA), impegnata fino a poco tempo prima nella
riunione con Ross.
Intanto
nel regno alawita stanno iniziando i preparativi per il 37° anniversario della
"marcia verde" (6 novembre 1975), festa nazionale che celebra il
"recupero delle province del sud" voluto da Hassan II. Nelle strade
del capoluogo saharawi, invece, la popolazione locale resta ancora in balia
delle forze di sicurezza marocchine.
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