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giovedì 1 novembre 2012

Tunisia: il popolo dimenticato dalla rivoluzione?

Il giornalista francese Nicolas Beau, co-autore dei testi di denuncia del deposto regime quali Notre ami Ben Ali e La régente de Carthage, si sofferma sulle tensioni che animano la repubblica maghrebina nel primo anniversario della Costituente.
Caricatura del vignettista tunisino Z. Nel disegno due schieramenti opposti si affrontano, gli islamisti di Ghannouchi (sostenuti dagli alleati di governo) e gli ex-rcdisti di Beji Cais Essebsi. Nel duello sta cercando di inserirsi l'oppositore di sinistra Hamma Hamami, alla guida del Fronte popolare....

Elezioni posticipate, una costituzione che si fa attendere troppo, un paese diretto da elite disconnesse dalla realtà e un popolo frustrato: sembra quasi che il governo tunisino abbia la memoria corta…

Ciò che colpisce oggi a Tunisi è fino a che punto le elite politiche ed intellettuali della Tunisia legale abbiano dimenticato il paese reale. Ci si è dimenticati troppo in fretta che sono state le rivendicazioni contro la povertà e la corruzione, venute dal profondo del paese, a far cadere il regime di Ben Ali.

Ma da quel 14 gennaio 2011, data della partenza dell'ex dittatore in Arabia Saudita, la situazione non ha fatto che peggiorare. A pochi passi dai ristoranti chic e dagli hotel di lusso di Gammarth, Hammamet e La Marsa, le regioni interne del paese si trovano sull'orlo dell'esplosione sociale.

Per questi milioni di dimenticati che - al momento delle elezioni della Costituente, giusto un anno fa - hanno scelto in maggioranza il voto islamista, non c'è più tempo per il cicaleggio in assemblea. Il governo tunisino, dominato dal partito islamista Ennahda, aveva promesso la presentazione della nuova carta il 23 ottobre, data del primo anniversario della Costituente. Ma da settembre ad oggi il potere tunisino non fa che prendere tempo e la costituzione non è ancora pronta. Le elezioni, che dovevano aver luogo in marzo (2013, ndt), sono rimandate di tre mesi - giugno/luglio nella migliore delle ipotesi - in attesa di un accordo all'interno della Costituente. La legittimità del governo, di conseguenza, è indebolita, mentre contestata è la sua capacità di mantenimento dell'ordine di fronte alle azioni dei gruppi salafiti. L'assalto di un commando estremista all'ambasciata americana e l'omicidio a Tataouine (Tunisia meridionale), il 18 ottobre, di Lofti Naguedh, responsabile locale del movimento anti-islamista "Nidaa Tounes", sembrano aver traumatizzato l'opinione pubblica tunisina.

Il 23 ottobre potrebbe così fungere da detonatore per l'insieme delle frustrazioni e delle delusioni accumulate dalla popolazione. Tanto più che, all'interno della classe politica, si è sempre pronti a soffiare sul fuoco. Da una parte ci sono i partiti che si oppongono alla troika al potere (Ennahda, CPR, Ettakatol, ndr), che vogliono spingere gli islamisti a costituire un governo di unità nazionale; dall'altra le forze di sicurezza, esercito e polizia, che non hanno imparato molto dalla fine dell'era Ben Ali; infine i salafiti, che sembrano sognare l'insurrezione, e il vicino algerino, che non vede di buon occhio il processo democratico in atto in Tunisia.

L'illustre sconosciuto che è stato l'ex ambasciatore francese a Tunisi, il sarkoziste Boris Boillon, aveva emesso un giudizio crudele, prima di lasciare il suo posto: "L'Assemblea costituente è un imbroglio inutile, sarebbero bastate appena tre settimane per redigere un nuovo testo costituzionale". Esagerato? Forse…

Dopo l'euforia della campagna elettorale che ha preceduto l'elezione dell'assemblea, il sistema tunisino sembra trovarsi già con il fiato corto. Se c'è un uomo politico che riassume bene la disillusione del momento nei confronti dei partiti e dei rappresentanti istituzionali è Mustapha Ben Jaafar, Presidente della Costituente. Ben saldo sui suoi principi, quando si opponeva all'allineamento dell'opposizione progressista al regime di Ben Ali durante gli anni novanta, questo socialdemocratico si è sempre dimostrato un elemento pragmatico, come l'amico François Hollande.

Durante un'intervista rilasciata a fine 2011, il presidente del movimento Ettakatol dichiarava: "bisogna scrivere in fretta la costituzione poiché più la transizione si prolungherà e più la situazione rischierà di sgretolarsi". In un incontro avvenuto l'estate scorsa a margine dei lavori dell'assemblea, nel suo splendido ufficio - "il più bello della repubblica tunisina", ha tenuto a specificare - giustificava ancora la sua alleanza con gli islamisti con la necessità di mantenere gli impegni assunti di fronte al paese. Vale a dire, presentare la bozza di costituzione il 23 ottobre, come promesso.

Tuttavia il calendario non è stato rispettato e la metà dei venti eletti del partito all'assemblea ha già abbandonato la nave. L'esercito lo esorta, attraverso il ministro della Difesa, a prendere le distanze da Ennahda e diversi altri membri del suo movimento e del governo pensano di lasciare la formazione. Alla fine, proprio colui che incarnava la figura del saggio all'interno della famosa troika che dirige il paese, sembra destinato ad un triste isolamento.

Il discredito, dovuto ad un'attesa esagerata e ai dibattiti sterili sorti all'interno della Costituente - per esempio sulla "complementarietà tra uomini e donne" o sul riferimento o meno alla shari'a - senza tirare in ballo gli aumenti indecenti dei salari degli eletti, colpisce indistintamente, e in maniera inesorabile, tutti i partiti politici. Non c'è di che rallegrarsi, a soli sei mesi dalla scadenza elettorale!


Imprenditori sull'orlo di una crisi di nervi

L'impazienza aumenta, la disoccupazione esplode, la crescita stagna. Le cifre annunciate dal governo che attestano un tasso di crescita al 3% sono ingannevoli, poiché calcolate sul periodo di recessione attraversato l'anno passato. Ancor più significativo, l'economia parallela prospera.

In settori importanti come la produzione di legno e di cemento, circa l'80% delle transazioni avvengono in nero. Il commercio informale con l'Algeria è ai massimi storici e al confine c'è chi gestisce un cambio di valute alternativo tra i due dinari. In effetti gli algerini speculano sulla moneta tunisina che gli permette di investire nel ramo immobiliare e di concedersi vacanze confortevoli, aggirando il severo controllo dei cambi che vige nel loro paese.

Le incertezze politiche non migliorano l'immagine della Tunisia agli occhi degli investitori stranieri. Sulle oltre mille aziende francesi sedotte dal paradiso sociale e fiscale di Ben Ali, circa la metà sta lasciando il paese o pensa di farlo. Perfino i grandi gruppi alberghieri hanno ridotto di un terzo i loro progetti sul territorio, secondo quanto indicato da una fonte diplomatica.

Anche il turismo è in calo. A Tabarka, affascinante stazione balneare situata alla frontiera algerina - divenuta celebre a fine 2010 per le vacanze di Michèle Alliot-Maire (ministro degli Affari Esteri fino al febbraio del 2011, ndt) mentre la popolazione era in piena sollevazione popolare - si ipotizza la chiusura dell'aeroporto internazionale inaugurato con successo solo pochi anni prima.


La scatola nera dell'Interno

Se esiste un solo settore che oggi continua ad assumere è il Ministero dell'Interno. Gli oppositori di Ben Ali stimavano gli effettivi della polizia a 130 mila uomini nel passato regime. Una cifra esagerata, il paese ne contava infatti circa 50 mila. Ma, dal gennaio 2011, i nuovi assunti sono tra i 25 e i 30 mila, di cui 10 mila reclutati direttamente dal partito Ennahda.

Pertanto, il malcontento non si placa nemmeno dentro al ministero, che risente inevitabilmente delle difficoltà budgetarie del momento. Le tariffe degli straordinari, pagati ai funzionari di polizia che lavorano di notte, vengono saldate dopo sei mesi e prevedono un ritocco di appena 300 millimes all'ora (15 centesimi di euro). E' difficile, in queste condizioni, evitare che la corruzione sia ancora una pratica così diffusa tra le forze dell'ordine…

La disorganizzazione del ministero si è intensificata con le promozioni brutali decise dall'attuale ministro Ali Larayedh. Su settanta quadri dirigenti, almeno una sessantina sono stati sollecitati al pensionamento anticipato per lasciare spazio a nuovi uomini di fiducia. A discolpa del ministro, che ha passato lunghi anni di isolamento in prigione, bisogna dire che la ristrutturazione dell'apparato repressivo di Ben Ali era un'operazione necessaria. Un'operazione che poteva essere fatta però in maniera più delicata, evitando magari lo scontro diretto con i sindacati che si sono formati dopo la rivoluzione in questo settore dell'amministrazione a dir poco sensibile. In altre parole, perfino la marmitta policière ribolle, mentre si moltiplicano gli episodi di violenza nel paese.

In questo clima di instabilità, in molti cominciano a fare ipotesi sulle reali intenzioni e sulle prossime mosse dell'esercito. E' risaputa la vicinanza di un certo numero di ufficiali, tra cui l'ormai celebre generale Ammar, con il regime algerino o la diplomazia americana. Il primo non è certo un sostenitore della transizione democratica tunisina. L'amministrazione Obama, invece, è ancora sotto choc per l'attacco di cui è rimasta vittima l'ambasciata statunitense a Tunisi.

Per questo, si comincia già ad immaginare che i militari tunisini, stuzzicati da algerini e americani, potrebbero - in caso di grave minaccia per la sicurezza - suonare la fine della ricreazione. Comunque è difficile saperlo. Se la Tunisia infatti è diventata un grande forum a cielo aperto dove ciascuno può esprimersi liberamente, i soli a rimanere in silenzio sono proprio i militari.

Unica certezza, l'insieme delle forze politiche, islamisti compresi, sta cercando di ingraziarsi le caserme. La giustizia militare sta emettendo dei verdetti contraddittori, contestabili e sbrigativi sui sanguinosi eventi di gennaio 2011? L'identità degli snipers che hanno sparato sulla folla resta ancora un segreto di Stato? Nessuno - all'interno della classe politica - sembra veramente interessato a denunciare queste "sviste", fatta eccezione per qualche testa calda (e coraggiosa) sui rispettivi blog.

Sembra quasi che l'esercito debba a tutti i costi rimanere il simbolo di una unità nazionale che potrebbe essere minacciata.


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