Transparency
International ha pubblicato nei giorni scorsi il suo rapporto annuale 2012
consacrato alla lotta contro la corruzione nel mondo. Pessime le valutazioni
dei paesi maghrebini. Il regno alawita retrocede all'88° posizione nella
speciale classifica contenuta nel documento e la sezione marocchina della ong accusa
il governo di "incapacità e fallimento".
(Photo by Jacopo Granci) |
Malversazione,
clientelismo, racket e estorsioni continuano a trovare terreno fertile in
Marocco. Si tratta di un fenomeno "endemico", secondo quanto
stipulato dall'indice di percezione della corruzione proposto da Transparency
International (TI). Un fenomeno che interessa tutti i settori e le classi
sociali - seppur con gradi e implicazioni diverse - in costante aumento nell'ultimo
decennio.
Fino
alla fine degli anni novanta, infatti, nella classifica stilata dalla ong
tedesca il regno alawita si attestava su livelli più decorosi, prima di
scivolare all'88° posto attuale, dietro alla Tunisia (75°) ma davanti alla
vicina Algeria (105°; per inciso l'Italia non è messa poi tanto meglio con il
suo 72° posto).
Questo
perché, secondo TI, gli esecutivi che si sono succeduti non hanno adottato
alcuna misura concreta per combattere una "piaga che minaccia la coesione
sociale e la salute dell'economia", a dispetto di un sensibile accrescimento
di investimenti e capitali (nazionali e stranieri) in circolazione sul
territorio.
A
migliorare la situazione non sono servite le lunghe proteste di piazza del
2011, l'anno delle "primavere", durante il quale il movimento 20
febbraio aveva puntato il dito proprio contro la corruzione (largamente)
diffusa nelle amministrazioni, nei centri di potere a tutti i livelli e nei
circoli di Palazzo che controllano l'economia del paese, chiedendo la fine
dell'impunità per i responsabili dei grandi scandali finanziari (ad esempio il primo
ministro di allora Abbas El Fassi coinvolto nell'affaire Annajat).
Non
sono servite nemmeno le "riforme", seguite alle contestazioni, e
l'elezione di un nuovo governo di marca islamista. La costituzione voluta dal
sovrano approvata un anno e mezzo fa doveva assicurare una svolta nella
direzione della bonne gouvernance e
del riequilibrio dei poteri, ma così non è stato.
L'articolo
36 del nuovo testo vieta espressamente il "traffico di influenze e l'abuso
di potere", un reato punito dai 2 ai 5 anni di carcere dal codice penale. L'articolo
166 istituisce un consiglio della concorrenza e il 167 prevede la creazione di
una istanza nazionale di moralità per la lotta alla corruzione, l'ICPC
(Instance centrale de la prévention de la corruption). Ma la teoria e la
pratica fanno fatica a conciliarsi - spiega il giornalista Ahmed Benchemsi dalle colonne di Le Monde
- in un paese "minato dai conflitti di interesse (…) dove i poteri forti
godono della complicità delle autorità elette e viceversa".
La
creazione dell'ICPC, inoltre, non è una novità. La sua esistenza risale al
2008, quando il Marocco fu costretto ad adeguarsi agli standard internazionali
in materia, dopo la ratifica - avvenuta un anno prima - della Convenzione sulla
lotta contro la corruzione. Una ratifica fortemente voluta dagli organismi
della società civile e soprattutto da alcune istituzioni interstatali (PNUD,
BM) i cui interessi e le cui attività sono legate a doppio filo con il regno
maghrebino.
Tuttavia,
il suo ruolo consultivo e gli scarsi mezzi a disposizione hanno subito messo in
discussione la credibilità e l'efficacia della ICPC, le cui raccomandazioni
difficilmente vengono prese in seria considerazione dai ministeri di competenza.
Ad essere in dubbio, poi, è l'autonomia dell'organismo, dal momento che il suo
presidente viene nominato per dahir
(decreto reale) direttamente dal sovrano, coinvolto - tramite la sua entourage
- in quegli stessi traffici di influenza sanzionati dalla legge per il
controllo di settori chiave dell'economia nazionale (immobiliare, bancario..),
stando almeno ai documenti pubblicati dalla piattaforma WikiLeaks.
"L'impressione
è quella di far parte dell'ennesima vetrina e le vittime di corruzione fanno
fatica a capire che l'ICPC sta dalla loro parte". Questa la posizione espressa
da Transparency Maroc (TM), sezione locale della ong tedesca, che ha minacciato
più volte di interrompere la sua collaborazione con l'istanza governativa. E
proprio la storia (travagliata) di Transparency in terra marocchina è assai
emblematica per capire le difficoltà di attivisti e cittadini nel far fronte al
fenomeno.
La
sua nascita risale alla metà degli anni novanta e si iscrive nel fermento di
associazioni e collettivi della società civile - in gran parte votati alla
difesa dei diritti umani - a cui si assiste in quel periodo di relativa
apertura del regime. Ma la genesi dell'organizzazione viene subito ostacolata
dall'allora ministro dell'Interno Driss Basri, braccio destro del sovrano
Hassan II.
I
fondatori sono costretti a riunirsi in un appartamento privato per l'assemblea
costitutiva, vedendosi negata dall'autorità la possibilità di incontrarsi in un
luogo pubblico. La legalizzazione di TM, e con essa l'autorizzazione a svolgere
le proprie attività, arriverà solo otto anni dopo, nel 2004 (per veder
riconosciuto lo status di "organizzazione di utilità pubblica"
bisognerà aspettare invece il 2009).
Da
quel momento la ong inizia un accurato lavoro di denuncia e documentazione
tanto dei sistemi di malversazione diffusi a livello istituzionale quanto delle
forme di racket a cui si trova comunemente di fronte il cittadino medio. Grazie
al supporto finanziario dell'ambasciata olandese viene messo in piedi un osservatorio della corruzione (autore del bollettino mensile Transparency News) e
successivamente, con il sostegno della delegazione UE, vengono aperti tre
centri di assistenza giuridica anti-corruzione (CAJAC) per accogliere
le segnalazioni dei cittadini e fornire un appoggio legale.
Durante
i mesi delle contestazioni TM ha espresso la sua prossimità alle iniziative del
"20 febbraio", dando risalto nei suoi rapporti ad alcuni dei casi più
eclatanti denunciati dagli attivisti. Per esempio le "condizioni
opache" con cui vengono conclusi gli accordi tra le amministrazioni locali
e le grandi aziende di servizi pubblici (Amendis e Lydec) "che continuano
a beneficiare degli appalti senza una reale verifica del ritorno sulle utenze".
Oppure l'attribuzione della commessa del TGV
in assenza di concorrenza.
Per
questo, nonostante la "distensione istituzionale" nei confronti
dell'organizzazione, le autorità continuano a non vedere di buon occhio
l'impegno promosso da TM e non esitano ad intralciarne le azioni, soprattutto
quelle più simboliche. Una testimonianza, le complicazioni a cui la
ong deve ovviare - ogni volta - per veder autorizzata la cerimonia di
riconoscimento del "premio all'integrità" (quest'anno attribuito al
rapper-dissidente Mouad L'haqed, in carcere per la seconda volta dallo scorso aprile).
"Gli annunci del
governo sono il miglior alleato della corruzione"
Alla
pubblicazione del rapporto annuale di Transparency International ha fatto
seguito la redazione, da parte di TM, di una lettera aperta indirizzata ai
componenti dell'attuale governo marocchino. Un esecutivo, ricordiamo, a
maggioranza islamista dopo la vittoria del PJD alle elezioni di un anno fa.
"La
politica degli annunci ad effetto e le misure insufficienti che ne sono seguite
sono il miglior alleato della corruzione, che è divenuta una pratica
sistematica nel paese", si legge nel testo della missiva che incalza:
"il vostro governo non ha fatto alcun progresso significativo nella buona
direzione e non ha nemmeno presentato i suoi obiettivi in materia sul breve e
sul lungo periodo".
In
effetti la formazione islamica aveva fondato gran parte della sua ascesa
politica (nel decennio 2000) e del suo successo elettorale presentandosi come
un esempio di trasparenza e di integrità, in contrapposizione al resto della
rappresentanza (di qualsiasi dottrina o ideologia) ormai screditato agli occhi
della popolazione.
I
lunghi "sermoni" tenuti in parlamento o durante la campagna
elettorale sulla necessità di una moralizzazione della vita pubblica (e di
quella privata) risuonano ancora nelle orecchie degli ascoltatori (e
probabilmente dei votanti), ma i compromessi stretti al momento
dell'investitura sembrano aver determinato un accantonamento dei buoni
propositi.
E'
quanto fa notare la ong, stilando un primo bilancio dell'operato
dell'esecutivo. Le dichiarazioni altisonanti sulla "guerra" all'economia
di rendita e la pubblicazione delle famose liste per la concessione delle
licenze (trasporti, pesca marittima..), rimaste chiuse per decenni nei cassetti
di palazzo, non hanno minimamente intaccato questo sistema di assegnazione
delle prebende. Nuovi scandali, invece, hanno contribuito a minare
l'attendibilità del "governo islamista". Per esempio l'accusa
di compravendita di voti levata contro un partito della maggioranza e l'incapacità
(o negligenza?) ad agire dimostrata in occasione dell'affaire Mezouar-Bensouda.
Una questione di
democrazia..
"Quando
parliamo di corruzione ci riferiamo generalmente alla consuetudine di trarre
vantaggio dall'esercizio di un potere o di un incarico per fini
personali", spiega l'ex segretario generale di TM Rachid Filali Meknassi.
Per il giurista (professore di diritto privato all'università di Rabat) la
pratica trova il suo radicamento in Marocco alla fine del Protettorato.
"La sua esistenza presuppone una distinzione tra i beni e gli interessi pubblici
da una parte e quelli privati dall'altra. Questa distinzione comincia con
l'arrivo dei francesi, che separano il dominio prettamente statale - il cui
controllo è assegnato ai funzionari - da quello del sultano".
Molti
autori, in effetti, hanno messo in evidenza il ruolo rivestito delle elite
locali - urbane e rurali - nel mantenimento del potere da parte della monarchia
negli anni della dura opposizione al trono seguiti all'indipendenza (1956).
"Il sovrano incaricava queste persone della sorveglianza del territorio in
cambio di concessioni materiali dirette o della facoltà di disporre delle
risorse presenti. Mi sembra che lo stesso Hassan II abbia dichiarato un giorno
che chiunque lavorava per lui, e dopo quindici giorni non era riuscito a fare
fortuna, doveva considerasi un idiota".
La
concussione e la concessione di privilegi si affermano così nel tempo come un
"sistema di allineamento" e allo stesso tempo uno strumento per
ottenere fedeltà, tanto che oggi per il professor Filali Meknassi "la
corruzione è completamente integrata al metodo di gouvernance".
"Prendiamo
un esempio conosciuto - continua l'accademico - il caso di un intellettuale di
sinistra, ex oppositore, che diventa ministro e poi presidente di una banca, e
che una volta accusato di malversazione risponde: 'sono stato nominato per dahir e non devo rendere conto a
nessuno'. Siamo ormai ben oltre la classica situazione di un uomo politico che
si serve della corruzione per mantenere la propria posizione. Del resto, molti
dei nostri rappresentanti sono entrati in politica per avvicinarsi a questi
circoli protetti e inattaccabili piuttosto che per sincera convinzione".
Di
fondo, continua il nostro interlocutore, il problema della corruzione non può
essere scisso da quello da quello più globale del passaggio ad un sistema
democratico, al trionfo dello Stato di diritto che trovi riscontro una reale
separazione dei poteri.
"Per
questo l'indipendenza della giustizia e la trasparenza dei suoi funzionari sono
un requisito imprescindibile, ma la nuova costituzione e la riforma del settore
in gestazione non offrono risultati concreti".
In
effetti le procure e le carriere dei magistrati, nonostante l'articolo 107
definisca quello giudiziario come un potere indipendente, continuano ad essere
gestite dal re e dal ministro di competenza.
"Pensi
che l'anno scorso cinque avvocati hanno denunciato la collusione tra il
tribunale di Tetouan e alcuni trafficanti di droga e in risposta sono stati
sospesi o radiati! La legge punisce allo stesso modo corrotti e corruttori ed è
sempre più difficile trovare qualcuno disposto a denunciare il fenomeno. Anche
lo scandalo che ha coinvolto l'ex ministro Mezouar [vedi link precedenti, ndr] e il tesoriere del regno Bensouda
ha portato davanti ai giudici non i responsabili dell'appropriazione indebita
in questione ma gli impiegati che avevano fatto avere le prove alla stampa!
Bisogna finirla con l'impunità e proteggere i testimoni, non condannarli".
Tra
i settori "nazionali" in cui la corruzione è più visibile, quantomeno
per i risvolti assunti, c'è proprio quello della stampa, conclude il
responsabile di Transparency. Non a caso uno degli ultimi rapporti
pubblicati dalla ong si concentra quasi esclusivamente sullo stato di salute
dei media e sul diritto di accesso all'informazione.
"E'
risaputo che i grandi detentori di capitali - commenta in proposito Filali
Meknassi - si servono dell'incidenza degli introiti pubblicitari come mezzo di
pressione sulla linea editoriale, decretando la fortuna o la disgrazia di un
giornale [vedi intervista
a Aboubakr Jamai]. Come conseguenza a questa deriva, che data al massimo dieci
anni, i cittadini hanno perso decisamente fiducia in quanto vedono scritto ed è
venuto meno un altro strumento di controllo del potere, di solito efficace nei
contesti democratici, quale appunto l'informazione".
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