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lunedì 10 dicembre 2012

La corruzione in Marocco? "Un metodo di gouvernance"

Transparency International ha pubblicato nei giorni scorsi il suo rapporto annuale 2012 consacrato alla lotta contro la corruzione nel mondo. Pessime le valutazioni dei paesi maghrebini. Il regno alawita retrocede all'88° posizione nella speciale classifica contenuta nel documento e la sezione marocchina della ong accusa il governo di "incapacità e fallimento".
(Photo by Jacopo Granci)


Malversazione, clientelismo, racket e estorsioni continuano a trovare terreno fertile in Marocco. Si tratta di un fenomeno "endemico", secondo quanto stipulato dall'indice di percezione della corruzione proposto da Transparency International (TI). Un fenomeno che interessa tutti i settori e le classi sociali - seppur con gradi e implicazioni diverse - in costante aumento nell'ultimo decennio.

Fino alla fine degli anni novanta, infatti, nella classifica stilata dalla ong tedesca il regno alawita si attestava su livelli più decorosi, prima di scivolare all'88° posto attuale, dietro alla Tunisia (75°) ma davanti alla vicina Algeria (105°; per inciso l'Italia non è messa poi tanto meglio con il suo 72° posto).

Questo perché, secondo TI, gli esecutivi che si sono succeduti non hanno adottato alcuna misura concreta per combattere una "piaga che minaccia la coesione sociale e la salute dell'economia", a dispetto di un sensibile accrescimento di investimenti e capitali (nazionali e stranieri) in circolazione sul territorio.

A migliorare la situazione non sono servite le lunghe proteste di piazza del 2011, l'anno delle "primavere", durante il quale il movimento 20 febbraio aveva puntato il dito proprio contro la corruzione (largamente) diffusa nelle amministrazioni, nei centri di potere a tutti i livelli e nei circoli di Palazzo che controllano l'economia del paese, chiedendo la fine dell'impunità per i responsabili dei grandi scandali finanziari (ad esempio il primo ministro di allora Abbas El Fassi coinvolto nell'affaire Annajat).

Non sono servite nemmeno le "riforme", seguite alle contestazioni, e l'elezione di un nuovo governo di marca islamista. La costituzione voluta dal sovrano approvata un anno e mezzo fa doveva assicurare una svolta nella direzione della bonne gouvernance e del riequilibrio dei poteri, ma così non è stato.

L'articolo 36 del nuovo testo vieta espressamente il "traffico di influenze e l'abuso di potere", un reato punito dai 2 ai 5 anni di carcere dal codice penale. L'articolo 166 istituisce un consiglio della concorrenza e il 167 prevede la creazione di una istanza nazionale di moralità per la lotta alla corruzione, l'ICPC (Instance centrale de la prévention de la corruption). Ma la teoria e la pratica fanno fatica a conciliarsi - spiega il giornalista Ahmed Benchemsi dalle colonne di Le Monde - in un paese "minato dai conflitti di interesse (…) dove i poteri forti godono della complicità delle autorità elette e viceversa".

La creazione dell'ICPC, inoltre, non è una novità. La sua esistenza risale al 2008, quando il Marocco fu costretto ad adeguarsi agli standard internazionali in materia, dopo la ratifica - avvenuta un anno prima - della Convenzione sulla lotta contro la corruzione. Una ratifica fortemente voluta dagli organismi della società civile e soprattutto da alcune istituzioni interstatali (PNUD, BM) i cui interessi e le cui attività sono legate a doppio filo con il regno maghrebino.

Tuttavia, il suo ruolo consultivo e gli scarsi mezzi a disposizione hanno subito messo in discussione la credibilità e l'efficacia della ICPC, le cui raccomandazioni difficilmente vengono prese in seria considerazione dai ministeri di competenza. Ad essere in dubbio, poi, è l'autonomia dell'organismo, dal momento che il suo presidente viene nominato per dahir (decreto reale) direttamente dal sovrano, coinvolto - tramite la sua entourage - in quegli stessi traffici di influenza sanzionati dalla legge per il controllo di settori chiave dell'economia nazionale (immobiliare, bancario..), stando almeno ai documenti pubblicati dalla piattaforma WikiLeaks.

"L'impressione è quella di far parte dell'ennesima vetrina e le vittime di corruzione fanno fatica a capire che l'ICPC sta dalla loro parte". Questa la posizione espressa da Transparency Maroc (TM), sezione locale della ong tedesca, che ha minacciato più volte di interrompere la sua collaborazione con l'istanza governativa. E proprio la storia (travagliata) di Transparency in terra marocchina è assai emblematica per capire le difficoltà di attivisti e cittadini nel far fronte al fenomeno.

La sua nascita risale alla metà degli anni novanta e si iscrive nel fermento di associazioni e collettivi della società civile - in gran parte votati alla difesa dei diritti umani - a cui si assiste in quel periodo di relativa apertura del regime. Ma la genesi dell'organizzazione viene subito ostacolata dall'allora ministro dell'Interno Driss Basri, braccio destro del sovrano Hassan II.

I fondatori sono costretti a riunirsi in un appartamento privato per l'assemblea costitutiva, vedendosi negata dall'autorità la possibilità di incontrarsi in un luogo pubblico. La legalizzazione di TM, e con essa l'autorizzazione a svolgere le proprie attività, arriverà solo otto anni dopo, nel 2004 (per veder riconosciuto lo status di "organizzazione di utilità pubblica" bisognerà aspettare invece il 2009).

Da quel momento la ong inizia un accurato lavoro di denuncia e documentazione tanto dei sistemi di malversazione diffusi a livello istituzionale quanto delle forme di racket a cui si trova comunemente di fronte il cittadino medio. Grazie al supporto finanziario dell'ambasciata olandese viene messo in piedi un osservatorio della corruzione (autore del bollettino mensile Transparency News) e successivamente, con il sostegno della delegazione UE, vengono aperti tre centri di assistenza giuridica anti-corruzione (CAJAC) per accogliere le segnalazioni dei cittadini e fornire un appoggio legale.

Durante i mesi delle contestazioni TM ha espresso la sua prossimità alle iniziative del "20 febbraio", dando risalto nei suoi rapporti ad alcuni dei casi più eclatanti denunciati dagli attivisti. Per esempio le "condizioni opache" con cui vengono conclusi gli accordi tra le amministrazioni locali e le grandi aziende di servizi pubblici (Amendis e Lydec) "che continuano a beneficiare degli appalti senza una reale verifica del ritorno sulle utenze". Oppure l'attribuzione della commessa del TGV in assenza di concorrenza.

Per questo, nonostante la "distensione istituzionale" nei confronti dell'organizzazione, le autorità continuano a non vedere di buon occhio l'impegno promosso da TM e non esitano ad intralciarne le azioni, soprattutto quelle più simboliche. Una testimonianza, le complicazioni a cui la ong deve ovviare - ogni volta - per veder autorizzata la cerimonia di riconoscimento del "premio all'integrità" (quest'anno attribuito al rapper-dissidente Mouad L'haqed, in carcere per la seconda volta dallo scorso aprile).


"Gli annunci del governo sono il miglior alleato della corruzione"

Alla pubblicazione del rapporto annuale di Transparency International ha fatto seguito la redazione, da parte di TM, di una lettera aperta indirizzata ai componenti dell'attuale governo marocchino. Un esecutivo, ricordiamo, a maggioranza islamista dopo la vittoria del PJD alle elezioni di un anno fa.

"La politica degli annunci ad effetto e le misure insufficienti che ne sono seguite sono il miglior alleato della corruzione, che è divenuta una pratica sistematica nel paese", si legge nel testo della missiva che incalza: "il vostro governo non ha fatto alcun progresso significativo nella buona direzione e non ha nemmeno presentato i suoi obiettivi in materia sul breve e sul lungo periodo".

In effetti la formazione islamica aveva fondato gran parte della sua ascesa politica (nel decennio 2000) e del suo successo elettorale presentandosi come un esempio di trasparenza e di integrità, in contrapposizione al resto della rappresentanza (di qualsiasi dottrina o ideologia) ormai screditato agli occhi della popolazione.

I lunghi "sermoni" tenuti in parlamento o durante la campagna elettorale sulla necessità di una moralizzazione della vita pubblica (e di quella privata) risuonano ancora nelle orecchie degli ascoltatori (e probabilmente dei votanti), ma i compromessi stretti al momento dell'investitura sembrano aver determinato un accantonamento dei buoni propositi.

E' quanto fa notare la ong, stilando un primo bilancio dell'operato dell'esecutivo. Le dichiarazioni altisonanti sulla "guerra" all'economia di rendita e la pubblicazione delle famose liste per la concessione delle licenze (trasporti, pesca marittima..), rimaste chiuse per decenni nei cassetti di palazzo, non hanno minimamente intaccato questo sistema di assegnazione delle prebende. Nuovi scandali, invece, hanno contribuito a minare l'attendibilità del "governo islamista". Per esempio l'accusa di compravendita di voti levata contro un partito della maggioranza e l'incapacità (o negligenza?) ad agire dimostrata in occasione dell'affaire Mezouar-Bensouda. 


Una questione di democrazia..

"Quando parliamo di corruzione ci riferiamo generalmente alla consuetudine di trarre vantaggio dall'esercizio di un potere o di un incarico per fini personali", spiega l'ex segretario generale di TM Rachid Filali Meknassi. Per il giurista (professore di diritto privato all'università di Rabat) la pratica trova il suo radicamento in Marocco alla fine del Protettorato. "La sua esistenza presuppone una distinzione tra i beni e gli interessi pubblici da una parte e quelli privati dall'altra. Questa distinzione comincia con l'arrivo dei francesi, che separano il dominio prettamente statale - il cui controllo è assegnato ai funzionari - da quello del sultano".

Molti autori, in effetti, hanno messo in evidenza il ruolo rivestito delle elite locali - urbane e rurali - nel mantenimento del potere da parte della monarchia negli anni della dura opposizione al trono seguiti all'indipendenza (1956). "Il sovrano incaricava queste persone della sorveglianza del territorio in cambio di concessioni materiali dirette o della facoltà di disporre delle risorse presenti. Mi sembra che lo stesso Hassan II abbia dichiarato un giorno che chiunque lavorava per lui, e dopo quindici giorni non era riuscito a fare fortuna, doveva considerasi un idiota".

La concussione e la concessione di privilegi si affermano così nel tempo come un "sistema di allineamento" e allo stesso tempo uno strumento per ottenere fedeltà, tanto che oggi per il professor Filali Meknassi "la corruzione è completamente integrata al metodo di gouvernance".

"Prendiamo un esempio conosciuto - continua l'accademico - il caso di un intellettuale di sinistra, ex oppositore, che diventa ministro e poi presidente di una banca, e che una volta accusato di malversazione risponde: 'sono stato nominato per dahir e non devo rendere conto a nessuno'. Siamo ormai ben oltre la classica situazione di un uomo politico che si serve della corruzione per mantenere la propria posizione. Del resto, molti dei nostri rappresentanti sono entrati in politica per avvicinarsi a questi circoli protetti e inattaccabili piuttosto che per sincera convinzione".

Di fondo, continua il nostro interlocutore, il problema della corruzione non può essere scisso da quello da quello più globale del passaggio ad un sistema democratico, al trionfo dello Stato di diritto che trovi riscontro una reale separazione dei poteri.

"Per questo l'indipendenza della giustizia e la trasparenza dei suoi funzionari sono un requisito imprescindibile, ma la nuova costituzione e la riforma del settore in gestazione non offrono risultati concreti".

In effetti le procure e le carriere dei magistrati, nonostante l'articolo 107 definisca quello giudiziario come un potere indipendente, continuano ad essere gestite dal re e dal ministro di competenza.

"Pensi che l'anno scorso cinque avvocati hanno denunciato la collusione tra il tribunale di Tetouan e alcuni trafficanti di droga e in risposta sono stati sospesi o radiati! La legge punisce allo stesso modo corrotti e corruttori ed è sempre più difficile trovare qualcuno disposto a denunciare il fenomeno. Anche lo scandalo che ha coinvolto l'ex ministro Mezouar [vedi link precedenti, ndr] e il tesoriere del regno Bensouda ha portato davanti ai giudici non i responsabili dell'appropriazione indebita in questione ma gli impiegati che avevano fatto avere le prove alla stampa! Bisogna finirla con l'impunità e proteggere i testimoni, non condannarli".

Tra i settori "nazionali" in cui la corruzione è più visibile, quantomeno per i risvolti assunti, c'è proprio quello della stampa, conclude il responsabile di Transparency. Non a caso uno degli ultimi rapporti pubblicati dalla ong si concentra quasi esclusivamente sullo stato di salute dei media e sul diritto di accesso all'informazione.

"E' risaputo che i grandi detentori di capitali - commenta in proposito Filali Meknassi - si servono dell'incidenza degli introiti pubblicitari come mezzo di pressione sulla linea editoriale, decretando la fortuna o la disgrazia di un giornale [vedi intervista a Aboubakr Jamai]. Come conseguenza a questa deriva, che data al massimo dieci anni, i cittadini hanno perso decisamente fiducia in quanto vedono scritto ed è venuto meno un altro strumento di controllo del potere, di solito efficace nei contesti democratici, quale appunto l'informazione".

(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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