"Le
lepri tunisine ed egiziane hanno decapitato in fretta i loro regimi e poi si
sono bloccate. La rivoluzione marocchina, invece, avanza lentamente, dietro uno
strato di apparente tranquillità". Intervista al regista Jawad Rhalib,
"pronto a scommettere sulla vittoria della tartaruga".
Dopo
El Ejido (2006) e Les damnés de la mer (2008, nomination all'Oscar), il belgo-marocchino
Jawad Rhalib torna con un nuovo documentario dal titolo Le chant des tortues ("Il canto delle tartarughe"). Un
viaggio nel Marocco del '20 febbraio' e dell'onda lunga prodotta dalla
primavera locale.
Due
anni di lavoro e un racconto appassionato, dove slogan e rivendicazioni,
immagini delle piazze e ritratti dei giovani attivisti, si mescolano alle voci
di artisti e giornalisti (Hoba Hoba Spirit, Kenza Benjelloun, Khalid Jamai..)
che con i loro contributi hanno accompagnato i mesi della protesta e che continuano
ancora oggi a diffondere la "parola liberata".
L'opera,
presentata in anteprima a Lille in occasione dei due anni dalla comparsa del movimento dissidente, sarà diffusa nei cinema
europei - ci auguriamo anche in Italia - a partire dal maggio prossimo. Difficilmente,
invece, il documentario potrà essere proiettato in patria, dove già i
precedenti lavori del regista avevano scatenato l'ostruzionismo delle autorità.
Incontro
con Jawad Rhalib.
Lei è nato e cresciuto
in Marocco, ma per la sua formazione superiore e poi il suo percorso
professionale ha scelto il Belgio. Una sorta di 'esilio volontario' o solo una
casualità?
Una
scelta realista. Per fare un film, documentario o fiction è la stessa cosa,
sono necessari mesi di ricerche, di documentazione e di riprese. Poi c'è
bisogno di materiali, capacità umane e finanziarie. L'insieme di questi ingredienti
è quasi totalmente assente in Marocco, contesto in cui bisogna poi aggiungere
un altro tipo di considerazione.
Le
spiego con un aneddoto. Finiti gli studi ero rientrato per lavorare nel settore
audiovisivo. Avevo un mio programma chiamato "Ecologia" e la prima inchiesta
trattava dello spreco d'acqua nei campi da golf di Tangeri (nonostante la
carenza idrica patita dalla città). Tanto è bastato a bloccare il progetto per
oltre un anno a seguito del quale, fortemente deluso, ho fatto le valige e sono
tornato a Bruxelles.
Parliamo un po' del suo
ultimo lavoro, "Le chant des tortues". Da dove viene questo titolo?
Il
titolo si rifà alla favola della lepre e della tartaruga: correre, partire a
razzo non è necessariamente una garanzia di successo. E' un po' una
provocazione, ma non priva di fondamento. I marocchini sono tartarughe rispetto
alle lepri tunisine ed egiziane, che hanno decapitato in fretta i loro rispettivi
regimi senza però aver raggiunto - ancora oggi - grandi risultati in termini
socio-economici e politici. Chissà che con la sua lenta cadenza, con la sua
apparente tranquillità, la tartaruga marocchina non ottenga alla fine quel
cambiamento fino ad ora solo immaginato negli altri contesti.
Chi sono, dunque, le
'tartarughe' marocchine?
Sono
i ragazzi e le ragazze che ho conosciuto durante gli ultimi due anni. Sono i giovani
che hanno alzato la testa trascinandosi dietro la generazione cresciuta sotto
Hassan II, segnata dalla paura. 'Anche i muri hanno orecchie'…sono parole che
ho udito fin dall'infanzia, parole pronunciate da amici o genitori ogni volta
che la conversazione toccava questioni di politica nazionale. Per decenni
movimenti e gruppi dissidenti si sono mossi in maniera discreta, timida e quasi
sempre sono stati stroncati sul nascere.
Poi
è arrivato il 20 febbraio. Giovani considerati fino a quel momento
depoliticizzati, molli, privi di ideali, sono riusciti a far scendere in piazza
- uniti sotto la loro bandiera e in nome della dignità - centinaia di migliaia
di marocchini. E' apparsa una generazione rivoluzionaria che continua a smuovere
le coscienze, in strada, nelle università, nell'intimità delle case.
Un
ruolo importante lo stanno giocando anche gli artisti e i giornalisti
indipendenti, a cui ho cercato di dare risalto nel mio lavoro, divenuti
portavoce delle rivendicazioni espresse dalla piazza. Ad esempio il giornalista
Khalid Jamai, il gruppo Hoba Hoba Spirit e la pittrice Kenza Benjelloun. A volte la rivolta non ha bisogno
di essere urlata e i messaggi veicolati dalla cultura - o meglio dalla
contro-cultura - possono rivelarsi più efficaci delle manifestazioni, specie a
lungo termine. Per questo sono pronto a scommettere sulla tartaruga!
A proposito di artisti
e contro-cultura, il caso del rapper L'haqed
è piuttosto emblematico. Ne ha parlato nel suo documentario?
No,
ma fortunatamente altri lo hanno già fatto. Il caso L'haqed meriterebbe un
intero film e in 90 minuti è difficile affrontare la primavera marocchina in
tutti i suoi risvolti e in maniera esaustiva. Tra l'altro avevo iniziato ad
intervistarlo ma non sono mai riuscito a finire il lavoro a causa del suo
arresto.
Per lei il cambiamento
in Marocco è inevitabile. Tuttavia, a due anni dal 20 febbraio 2011, non mi
sembra si siano ottenuti grandi risultati e, al contrario, la nuova stretta
autoritaria sembra intenzionata a soffocare il dissenso maturato nei mesi scorsi.
Qual è il suo parere al riguardo?
Sono
stati l'entusiasmo, la consapevolezza e la partecipazione con cui sono venuto a
contatto a darmi fiducia. Non certo l'arrivo al governo di un partito islamista
pro-monarchico o le aperture promesse. Il cammino è ancora lungo, ripeto, ma
dopo l'esperienza del movimento, dappertutto continuano a levarsi nuove voci di
protesta, nuovi collettivi e coordinazioni - studenteschi, culturali, per la
gestione delle risorse locali - che non si danno per vinti e che proseguono la
lotta iniziata dal '20 febbraio' su molteplici fronti.
Non
abbiamo più paura. Perciò, nonostante il ritorno della repressione, penso che
non si possa più tornare indietro. Prima del 2011 l'arresto degli attivisti era
vissuto con un sentimento di impotenza. Ora la stampa on-line, i social network
rimbalzano le informazioni da un angolo all'altro del paese. Il regime non ha
più modo di nascondersi e la gente si organizza sempre più velocemente per
denunciarne gli abusi.
A proposito di abusi,
ha avuto problemi durante le riprese?
A
volte i poliziotti hanno cercato di sequestrare il materiale durante le
manifestazioni. Richieste di autorizzazioni per farci perdere tempo, qualche
intrusione da parte delle autorità locali (caid, agenti della
prefettura)..tutto sommato delle operazioni di disturbo ordinarie.
Anche la diffusione
delle sue opere è ostacolata dalle autorità marocchine?
Si,
la censura si è abbattuta sul mio penultimo documentario Les damnés de la mer e con molta probabilità nessuna autorizzazione
verrà mai concessa per proiettare Le
chant des tortues. Ma le autorità dimenticano che grazie alla parabola o
attraverso il web i marocchini possono captare Arte, Tv5 o FranceInter..
Il
caso Le damnés de la mer è esemplare.
Il lungometraggio era stato co-prodotto dal canale marocchino 2M (la seconda
rete di Stato, nda) ma non è mai
passato sugli schermi. Il motivo è facile da capire: le immagini mostrano il
capitano di un peschereccio svedese al largo di Dakhla che spiega come i metodi
di pesca intensiva stiano distruggendo le coste atlantiche e stiano mandando in
rovina i piccoli pescatori. Si parla del ruolo giocato in questo circuito di
sfruttamento dal governo marocchino e da alcuni personaggi influenti che
gravitano attorno al sovrano..insomma sono state infrante le 'linee rosse'.
Ha accennato ad una
co-produzione marocchina. In che modo riesce a finanziare i suoi progetti?
A
parte Le damnés de la mer, i miei
documentari sono finanziati essenzialmente dalle istituzioni francesi e belghe,
con fondi di sostegno specifici per la produzione culturale e giornalistica. El Ejido, invece, era stato prodotto dal
canale franco-tedesco Arte.
In Marocco il
documentario è celebrato da qualche anno con due festival internazionali, a Fes
e Agadir. Qual è il suo stato di salute?
Non
esiste una cultura del documentario in Marocco. Ad esempio, i due appuntamenti
che ha citato hanno una programmazione 'rigida', controllata, e sono
insignificanti in termini di finanziamento e risonanza rispetto al Festival di
Marrakech, vetrina cinematografica del regno, che snobba completamente questa
categoria (a differenza di Berlino, Cannes, Venezia o gli Oscar..).
In
Europa i documentari vengono programmati regolarmente in sala, mentre in
Marocco sono considerati poco più che reportage, senza investimenti né ritorno
mediatico. Ma la situazione cambierà in fretta. Anche in questo campo le
esigenze della popolazione sono destinate ad oltrepassare l'offerta ufficiale e
nuove forme indipendenti stanno già vedendo la luce, anche se con i limiti del
caso.
Il
pessimo stato di salute del documentario, del resto, riflette la scarsa
considerazione accordata alla cultura sul piccolo schermo. Se durante il regno
di Hassan II avevamo la scelta tra la cronaca delle attività reali, la serie
Dallas e le trasmissioni religiose, adesso possiamo aggiungere il calcio, le
telenovela turche, i reality e poco altro..
Si considera un artista
impegnato?
Ritengo
che la creazione sia una forma e uno strumento di resistenza. Meglio ancora: la
cinepresa è un'arma in sé e, se in più si ha la fortuna di avere un'ampia
diffusione, può diventare una bomba. Un po' come successo con El Ejido, lungometraggio che denuncia le
condizioni di sfruttamento imposte ai lavoratori migranti nelle serre spagnole.
Il film ha innescato un dibattito nel parlamento regionale andaluso, poi in
quello iberico ed ha favorito la dura presa di posizione del governo svizzero e
canadese, propensi al boicottaggio dei prodotti agricoli della regione di
Almeria.
In
generale, ho sempre cercato di porre l'uomo e la natura, la dignità dell'uno e
la salvaguardia dell'altra, al centro dei miei progetti, della mia sensibilità
di cittadino e di regista.
Quali artisti vede come
punti di riferimento nel suo lavoro?
Uno
su tutti, Ken Loach, per la forza e la genuinità che trasmette con il suo
'cinema del reale'.
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