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lunedì 11 marzo 2013

"Il canto delle tartarughe". Un documentario racconta la primavera marocchina

"Le lepri tunisine ed egiziane hanno decapitato in fretta i loro regimi e poi si sono bloccate. La rivoluzione marocchina, invece, avanza lentamente, dietro uno strato di apparente tranquillità". Intervista al regista Jawad Rhalib, "pronto a scommettere sulla vittoria della tartaruga".

Dopo El Ejido (2006) e Les damnés de la mer (2008, nomination all'Oscar), il belgo-marocchino Jawad Rhalib torna con un nuovo documentario dal titolo Le chant des tortues ("Il canto delle tartarughe"). Un viaggio nel Marocco del '20 febbraio' e dell'onda lunga prodotta dalla primavera locale.

Due anni di lavoro e un racconto appassionato, dove slogan e rivendicazioni, immagini delle piazze e ritratti dei giovani attivisti, si mescolano alle voci di artisti e giornalisti (Hoba Hoba Spirit, Kenza Benjelloun, Khalid Jamai..) che con i loro contributi hanno accompagnato i mesi della protesta e che continuano ancora oggi a diffondere la "parola liberata".

L'opera, presentata in anteprima a Lille in occasione dei due anni dalla comparsa del movimento dissidente, sarà diffusa nei cinema europei - ci auguriamo anche in Italia - a partire dal maggio prossimo. Difficilmente, invece, il documentario potrà essere proiettato in patria, dove già i precedenti lavori del regista avevano scatenato l'ostruzionismo delle autorità.

Incontro con Jawad Rhalib.


Lei è nato e cresciuto in Marocco, ma per la sua formazione superiore e poi il suo percorso professionale ha scelto il Belgio. Una sorta di 'esilio volontario' o solo una casualità?

Una scelta realista. Per fare un film, documentario o fiction è la stessa cosa, sono necessari mesi di ricerche, di documentazione e di riprese. Poi c'è bisogno di materiali, capacità umane e finanziarie. L'insieme di questi ingredienti è quasi totalmente assente in Marocco, contesto in cui bisogna poi aggiungere un altro tipo di considerazione.

Le spiego con un aneddoto. Finiti gli studi ero rientrato per lavorare nel settore audiovisivo. Avevo un mio programma chiamato "Ecologia" e la prima inchiesta trattava dello spreco d'acqua nei campi da golf di Tangeri (nonostante la carenza idrica patita dalla città). Tanto è bastato a bloccare il progetto per oltre un anno a seguito del quale, fortemente deluso, ho fatto le valige e sono tornato a Bruxelles.


Parliamo un po' del suo ultimo lavoro, "Le chant des tortues". Da dove viene questo titolo?

Il titolo si rifà alla favola della lepre e della tartaruga: correre, partire a razzo non è necessariamente una garanzia di successo. E' un po' una provocazione, ma non priva di fondamento. I marocchini sono tartarughe rispetto alle lepri tunisine ed egiziane, che hanno decapitato in fretta i loro rispettivi regimi senza però aver raggiunto - ancora oggi - grandi risultati in termini socio-economici e politici. Chissà che con la sua lenta cadenza, con la sua apparente tranquillità, la tartaruga marocchina non ottenga alla fine quel cambiamento fino ad ora solo immaginato negli altri contesti.


Chi sono, dunque, le 'tartarughe' marocchine?

Sono i ragazzi e le ragazze che ho conosciuto durante gli ultimi due anni. Sono i giovani che hanno alzato la testa trascinandosi dietro la generazione cresciuta sotto Hassan II, segnata dalla paura. 'Anche i muri hanno orecchie'…sono parole che ho udito fin dall'infanzia, parole pronunciate da amici o genitori ogni volta che la conversazione toccava questioni di politica nazionale. Per decenni movimenti e gruppi dissidenti si sono mossi in maniera discreta, timida e quasi sempre sono stati stroncati sul nascere.

Poi è arrivato il 20 febbraio. Giovani considerati fino a quel momento depoliticizzati, molli, privi di ideali, sono riusciti a far scendere in piazza - uniti sotto la loro bandiera e in nome della dignità - centinaia di migliaia di marocchini. E' apparsa una generazione rivoluzionaria che continua a smuovere le coscienze, in strada, nelle università, nell'intimità delle case.

Un ruolo importante lo stanno giocando anche gli artisti e i giornalisti indipendenti, a cui ho cercato di dare risalto nel mio lavoro, divenuti portavoce delle rivendicazioni espresse dalla piazza. Ad esempio il giornalista Khalid Jamai, il gruppo Hoba Hoba Spirit e la pittrice Kenza Benjelloun. A volte la rivolta non ha bisogno di essere urlata e i messaggi veicolati dalla cultura - o meglio dalla contro-cultura - possono rivelarsi più efficaci delle manifestazioni, specie a lungo termine. Per questo sono pronto a scommettere sulla tartaruga!


A proposito di artisti e contro-cultura, il caso del rapper L'haqed è piuttosto emblematico. Ne ha parlato nel suo documentario?

No, ma fortunatamente altri lo hanno già fatto. Il caso L'haqed meriterebbe un intero film e in 90 minuti è difficile affrontare la primavera marocchina in tutti i suoi risvolti e in maniera esaustiva. Tra l'altro avevo iniziato ad intervistarlo ma non sono mai riuscito a finire il lavoro a causa del suo arresto.


Per lei il cambiamento in Marocco è inevitabile. Tuttavia, a due anni dal 20 febbraio 2011, non mi sembra si siano ottenuti grandi risultati e, al contrario, la nuova stretta autoritaria sembra intenzionata a soffocare il dissenso maturato nei mesi scorsi. Qual è il suo parere al riguardo?

Sono stati l'entusiasmo, la consapevolezza e la partecipazione con cui sono venuto a contatto a darmi fiducia. Non certo l'arrivo al governo di un partito islamista pro-monarchico o le aperture promesse. Il cammino è ancora lungo, ripeto, ma dopo l'esperienza del movimento, dappertutto continuano a levarsi nuove voci di protesta, nuovi collettivi e coordinazioni - studenteschi, culturali, per la gestione delle risorse locali - che non si danno per vinti e che proseguono la lotta iniziata dal '20 febbraio' su molteplici fronti.

Non abbiamo più paura. Perciò, nonostante il ritorno della repressione, penso che non si possa più tornare indietro. Prima del 2011 l'arresto degli attivisti era vissuto con un sentimento di impotenza. Ora la stampa on-line, i social network rimbalzano le informazioni da un angolo all'altro del paese. Il regime non ha più modo di nascondersi e la gente si organizza sempre più velocemente per denunciarne gli abusi.


A proposito di abusi, ha avuto problemi durante le riprese?

A volte i poliziotti hanno cercato di sequestrare il materiale durante le manifestazioni. Richieste di autorizzazioni per farci perdere tempo, qualche intrusione da parte delle autorità locali (caid, agenti della prefettura)..tutto sommato delle operazioni di disturbo ordinarie.


Anche la diffusione delle sue opere è ostacolata dalle autorità marocchine?

Si, la censura si è abbattuta sul mio penultimo documentario Les damnés de la mer e con molta probabilità nessuna autorizzazione verrà mai concessa per proiettare Le chant des tortues. Ma le autorità dimenticano che grazie alla parabola o attraverso il web i marocchini possono captare Arte, Tv5 o FranceInter..

Il caso Le damnés de la mer è esemplare. Il lungometraggio era stato co-prodotto dal canale marocchino 2M (la seconda rete di Stato, nda) ma non è mai passato sugli schermi. Il motivo è facile da capire: le immagini mostrano il capitano di un peschereccio svedese al largo di Dakhla che spiega come i metodi di pesca intensiva stiano distruggendo le coste atlantiche e stiano mandando in rovina i piccoli pescatori. Si parla del ruolo giocato in questo circuito di sfruttamento dal governo marocchino e da alcuni personaggi influenti che gravitano attorno al sovrano..insomma sono state infrante le 'linee rosse'.


Ha accennato ad una co-produzione marocchina. In che modo riesce a finanziare i suoi progetti?

A parte Le damnés de la mer, i miei documentari sono finanziati essenzialmente dalle istituzioni francesi e belghe, con fondi di sostegno specifici per la produzione culturale e giornalistica. El Ejido, invece, era stato prodotto dal canale franco-tedesco Arte.


In Marocco il documentario è celebrato da qualche anno con due festival internazionali, a Fes e Agadir. Qual è il suo stato di salute?

Non esiste una cultura del documentario in Marocco. Ad esempio, i due appuntamenti che ha citato hanno una programmazione 'rigida', controllata, e sono insignificanti in termini di finanziamento e risonanza rispetto al Festival di Marrakech, vetrina cinematografica del regno, che snobba completamente questa categoria (a differenza di Berlino, Cannes, Venezia o gli Oscar..).

In Europa i documentari vengono programmati regolarmente in sala, mentre in Marocco sono considerati poco più che reportage, senza investimenti né ritorno mediatico. Ma la situazione cambierà in fretta. Anche in questo campo le esigenze della popolazione sono destinate ad oltrepassare l'offerta ufficiale e nuove forme indipendenti stanno già vedendo la luce, anche se con i limiti del caso.

Il pessimo stato di salute del documentario, del resto, riflette la scarsa considerazione accordata alla cultura sul piccolo schermo. Se durante il regno di Hassan II avevamo la scelta tra la cronaca delle attività reali, la serie Dallas e le trasmissioni religiose, adesso possiamo aggiungere il calcio, le telenovela turche, i reality e poco altro..


Si considera un artista impegnato?

Ritengo che la creazione sia una forma e uno strumento di resistenza. Meglio ancora: la cinepresa è un'arma in sé e, se in più si ha la fortuna di avere un'ampia diffusione, può diventare una bomba. Un po' come successo con El Ejido, lungometraggio che denuncia le condizioni di sfruttamento imposte ai lavoratori migranti nelle serre spagnole. Il film ha innescato un dibattito nel parlamento regionale andaluso, poi in quello iberico ed ha favorito la dura presa di posizione del governo svizzero e canadese, propensi al boicottaggio dei prodotti agricoli della regione di Almeria.

In generale, ho sempre cercato di porre l'uomo e la natura, la dignità dell'uno e la salvaguardia dell'altra, al centro dei miei progetti, della mia sensibilità di cittadino e di regista.


Quali artisti vede come punti di riferimento nel suo lavoro?

Uno su tutti, Ken Loach, per la forza e la genuinità che trasmette con il suo 'cinema del reale'.


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