Bancarelle
e mazzetti di prezzemolo che passano di mano in mano, al costo di 20 dinari
(circa 10 euro) l'uno, tra clienti soddisfatti e venditori che promuovono 'l'insolita
offerta'. Non ci troviamo nel suk di Tunisi. Non è una conseguenza
dell'inflazione né del rincaro dei prezzi.
Hamma Hammami, leader del Front Populaire |
La
scena si svolge nelle contrade di epoca coloniale della capitale - precisamente
in avenue de la liberté, di fronte
alla sede del canale Al Hiwar Attounsi
- e l'ortaggio non è divenuto un bene di lusso ma un simbolo della libertà di
espressione.
Succede
anche questo nella Tunisia della rivoluzione (minacciata).
"Sostenere
un'informazione libera, indipendente e impegnata al fianco del cittadino è un
dovere di tutti i tunisini. Guardo questo canale dalla caduta del vecchio
regime e non posso immaginare che stia per chiudere i battenti. Sarebbe una
perdita enorme per il paese e per il suo consolidamento democratico e
pluralista", afferma uno dei primi acquirenti.
In
gravi difficoltà finanziarie, senza sovvenzioni pubblicitarie dall'ottobre 2012
e con stipendi e produzioni arretrate ancora da pagare, la direzione della rete
ha lanciato un appello al pubblico - il 21 febbraio scorso - per una raccolta
fondi necessaria a garantire la sua sopravvivenza, almeno nel breve periodo. La
risposta è stata al di sopra delle aspettative.
Le
mille confezioni preventivate per la campagna sono esaurite nel corso delle
prime ore di 'mercato', mentre i sostenitori di Al Hiwar hanno continuato ad affluire per tutta la giornata di ieri
(giovedì 28 febbraio, nda), versando
la propria quota anche in cambio di un solo, emblematico, rametto. La folla
radunatasi di fronte ai locali dell'emittente ha poi intonato slogan contro i
partiti al governo e scandito l'ormai irrinunciabile inno nazionale.
"Loro
(Ennahda) vogliono controllare i media e uccidere le voci libere - sostiene un
altro dei presenti - Danno lezioni sull'etica del giornalismo come se i loro
canali di riferimento fossero obiettivi. Oggi stiamo cercando di dimostrare che
la solidarietà tunisina è più forte e più nobile dei petroldollari che li
finanziano".
La
lotta per la libertà di espressione nel contesto mediatico, che da due anni
attende una regolamentazione
istituzionale e la creazione di un'autorità di garanzia al di fuori degli
organi governativi, sta inevitabilmente assumendo i contorni di una lotta
politica. E ricalca lo scenario più ampio dello scontro tra schieramenti che
sta affossando il paese.
Non
stupisce quindi che il partito Ennahda, accusato tra l'altro di voler
monopolizzare le nomine alla testa dei media pubblici, sia indicato come il
maggior responsabile dell'embargo pubblicitario e della conseguente crisi
economica vissuta da Al Hiwar, rete
privata il cui proprietario Tahar Ben Hassine non ha mai nascosto la sua
avversità per il partito islamico.
"Gli
inserzionisti ci hanno detto chiaramente che Ennahda fa pressione su di loro
affinché smettano di venderci gli spot", dichiara Aymen Rezgui, direttore
di redazione e membro del bureau del
sindacato giornalisti (Snjt). "Il giornale Al Farj (organo di Ennahda, nda)
o il canale Zitouna TV (lanciato dal
figlio dell'attuale ministro dell'Educazione, nda) non hanno certo di questi problemi", commentano in avenue de la liberté.
Anche
se le accuse sono state rispedite al mittente dalla formazione di Ghannouchi,
la concorrenza sleale subita dai media indipendenti (o privati) lontani dagli
attuali circoli del potere e l'asfissia finanziaria che li sta portando
(soprattutto i giornali e le radio associative) lentamente alla chiusura
costituiscono una realtà e un elemento di preoccupazione per il futuro del
pluralismo.
Altro
grave fenomeno denunciato dal sit-in spontaneo di ieri, le aggressioni ai
dipendenti di Al Hiwar, di cui
perfino i locali situati in zona La Manouba erano stati oggetto di devastazione
nel maggio scorso. L'ombra di quel gesto continua a pesare sui simpatizzanti
del partito islamico che non fanno mistero della loro avversione per la rete
dissenziente. Del resto, erano stati proprio alcuni commenti di scherno scritti
in rete dai nadahouis, in risposta ai
primi allarmi diffusi sul rischio fallimento, a consigliare all'equipe "di
vendere prezzemolo piuttosto che fare giornalismo".
L'invito,
come constato, è stato prontamente raccolto e l'iniziativa ha suscitato
l'entusiasmo popolare oltre al sostegno di numerose personalità del settore, di
indipendenti (ad esempio Kamel Jandoubi) e di esponenti delle opposizioni (come
il leader del Front populaire Hamma
Hammami).
L'adesione
dei tunisini alla simbolica operazione di salvataggio, come pure la reputazione
di 'canale militante' di cui gode Al
Hiwar, tuttavia, hanno radici ben più profonde della logica di confronto
politico in cui si è inserita nell'ultimo periodo. Fin dal tempo di Ben Ali, infatti,
Al Hiwar è considerata una rete
libera, insubordinata
al regime, e i cittadini non hanno dimenticato il ruolo di primo piano giocato
durante le rivolte di Redeyef nel 2008 e la copertura mediatica, pagata con la
prigione, assicurata da uno dei suoi giornalisti (Fahem Boukadous) agli eventi che sconvolsero il bacino minerario.
"Il
prezzemolo stimola la memoria e ai rappresentanti al governo ne servirebbero
tonnellate - commenta con amara ironia un blogger con in mano il proprio
mazzetto - così magari riuscirebbero a ricordare e ad agire con quella
responsabilità che sembrano aver smarrito più in fretta della loro
ascensione".
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