Due
anni fa migliaia di marocchini scendevano in piazza reclamando il cambiamento e
un nuovo 'contratto' tra governanti e governati, basato sul rispetto della
dignità, la redistribuzione delle risorse e la fine dell'assolutismo. Che cosa
è rimasto oggi di questa 'esperienza rivoluzionaria'?
"Libertà,
dignità, giustizia sociale", lo slogan scandito da Rabat a Casablanca, da Tangeri
a Agadir, sulla scia della 'primavera'. Da allora sono trascorsi lunghi mesi di
proteste e manifestazioni, che hanno interessato decine di città e villaggi in
tutto il territorio nazionale. Sono sorti coordinamenti locali (oltre un
centinaio), si sono tenute assemblee per dare spazio al confronto tra le varie 'anime'
del movimento. Quella spontanea, rappresentata dai giovani indipendenti - che
hanno costituito i primi nuclei e lanciato gli appelli alla mobilitazione - e
quelle politiche, realtà militanti già rodate e di differente natura - come
l'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), piccoli partiti di
sinistra rimasti fuori dal Parlamento, le associazioni berbere
e gli islamisti di Giustizia e Spiritualità - che hanno appoggiato le rivendicazioni del movimento.
Un
movimento
che ha preso il nome dal giorno della sua epifania (20 febbraio, appunto), e
che si è affermato nel corso del 2011 come "uno spazio originale e
pacifico di espressione del dissenso", ricordava
un anno fa uno dei suoi fondatori:
"Il 20 febbraio ha
rappresentato un'unione inedita che gli oppositori delle vecchie generazioni
non sono mai riusciti a realizzare, anche a causa all'intervento del regime che
ha fatto di tutto per mantenere diviso il fronte dissidente. Per noi è stata
una palestra di democrazia e un mezzo di educazione alla riflessione critica".
Per
la prima volta nella storia del paese, i cittadini - al di fuori delle vecchie
strutture partitiche nate dall'esperienza indipendentista (e subito
neutralizzate dalla monarchia) - hanno cercato di ribaltare il rapporto di
forza tra sudditi e Palazzo, non in nome di un'ideologia o di un colore
politico. Hanno tentato di imporre una relazione mutuale tra Stato e società,
in sostituzione al vincolo unilaterale fino ad ora in vigore, riassumibile
nella divisa del regno "Dio, Patria, Re" su cui il regime alawita ha
fondato la sua legittimità storica, religiosa e politica.
I
févrieristes non hanno appiccato
fuochi ai luoghi del potere, non hanno saccheggiato banche, assicurazioni o
altre imprese di proprietà del sovrano o dei suoi accoliti. Non hanno reagito
con la violenza di fronte agli interventi più duri delle forze dell'ordine. Hanno
cercato di innescare una rivoluzione ancor più complessa e profonda, quella
della mentalità.
Hanno
cercato di infrangere tabù e linee rosse, chiedendo l'estromissione del monarca
dalla vita politica, di dar voce ad un malessere collettivo, reclamando la fine
dell'impunità e della corruzione delle elite al governo. Di risvegliare la
coscienza di un popolo considerato remissivo e anestetizzato dalle repressioni degli
'anni di piombo' (così è stato definito, per la sua brutalità, il regno di
Hassan II: 1961-1999).
'Il 20 febbraio è
morto… viva il 20 febbraio'
Due
anni dopo l'esplosione delle contestazioni, le autorità sembrano essere
riuscite a neutralizzare il movimento dissidente, già da tempo indebolito
numericamente e provato dal braccio di ferro con il regime. Il 20 febbraio 2013,
data del secondo anniversario, si sono svolte manifestazioni a ranghi ridotti
in una decina di città. Qualche centinaia di giovani si sono poi riuniti a Rabat
per celebrare il secondo anniversario dalla discesa in strada. Il Festival de résistence et d'alternatives organizzato per l'occasione, dopo dibattiti e
performance artistiche, si è concluso senza incidenti con un sit-in di fronte
al Parlamento.
Alcuni
l'hanno definito una prova di vitalità, una testimonianza che la "fiamma
rivoluzionaria" non si è ancora spenta. Per altri, la maggioranza dei
giornali e degli 'analisti' marocchini, sarebbe invece la prova del suo "definitivo
fallimento". Di certo, il movimento ha perduto gran parte del sostegno, non
solo popolare, delle prime ore. Perché?
Sul
piano politico, alla richiesta di un cambiamento dal basso (ad esempio la creazione
di un'assemblea costituente eletta) avanzata dal '20 febbraio', la monarchia ha
risposto avviando un processo di riforma dall'alto, sfociato su una nuova costituzione
- che non intacca i poteri di controllo del sovrano e della sua entourage - ed elezioni
anticipate che hanno in parte rinnovato la rappresentanza all'interno
dell'esecutivo e della camera bassa dell'assemblea.
Le
aperture limitate concesse e l'ascesa del partito islamico (PJD)
- l'unico ancora 'vergine' in tema di cooptazione al potere e il solo a
disporre di una solida base elettorale - sono bastate quindi a placare la sete
di cambiamento? No, ma sono riuscite a rilanciare, dentro e fuori dal paese,
l'immagine di un regime ponderato e riformatore e a togliere l'iniziativa dalle
mani della piazza.
La
mancanza di risultati concreti immediati - dal punto di vista degli attivisti,
che hanno boicottato referendum costituzionale ed elezioni - ha inoltre
favorito l'emergere di contrasti interni e il conseguente sfaldamento del
fronte dissidente, che tra l'autunno e l'inverno del 2011 ha visto l'uscita dei
collettivi berberi e dell'associazione islamica Giustizia e Spiritualità
(maggioritaria nelle grandi città).
Anche
sul piano socio-economico, le autorità sono corse subito ai ripari per arginare
il possibile contagio della 'primavera' e togliere terreno al movimento. Sono
state adottate misure d'urgenza per calmierare beni di prima necessità,
arginando così una parte del malcontento, e per imbonire i gruppi di
disoccupati organizzati e i dirigenti sindacali (con promesse di assunzioni
massicce nelle amministrazioni e aumenti salariali). Queste misure, nel breve
periodo, sono riuscite ad acquistare la pace sociale (ma a sprofondare la già
fragile economia del paese, con cui ora si tratta di fare i conti) e ad evitare
la giunzione dei due fronti di lotta come avvenuto invece in altri contesti, ad
esempio quello tunisino.
La
mancanza di ossigeno che ha portato il '20 febbraio' lentamente all'asfissia, però,
non è dovuta soltanto al dietrofront o ai tentennamenti di alcuni attori-chiave
della contestazione, ma anche ad una ben calcolata strategia repressiva. Meno
selvaggia che in altre realtà regionali, la repressione del dissenso in Marocco
ha comunque causato non meno di dieci morti e centinaia di arresti. Quanto
basta per dare l'esempio. "Ogni volta che abbiamo manifestato o che
abbiamo fatto sensibilizzazione in un quartiere popolare, nelle periferie,
siamo andati in contro alla reazione feroce del regime", ricorda Hamza Mahfoud, tra i
leader della protesta a Casablanca.
Gli
interventi violenti sui manifestanti pacifici hanno toccato l'apice nel maggio
2011,
proprio qualche settimana prima dell'approvazione della nuova costituzione, che
ha consacrato diversi articoli alla protezione dei diritti umani e alla libertà
di espressione "in tutte le sue forme". Buoni propositi serviti ad
ottenere il plauso delle cancellerie d'oltremare, ma che non hanno ancora
trovato riscontro sul terreno. Gli arresti, le condanne arbitrarie e le intimidazioni (nei confronti degli attivisti e della
popolazione) proseguono ancora oggi, come conferma un recente comunicato
diffuso da Amnesty International in cui si parla di un "ritorno al punto
di partenza" e di "scarsa credibilità del processo di riforma".
Stando
ai dati diffusi dall'AMDH, sarebbero circa 70 i membri del movimento
attualmente in stato di detenzione, senza contare i militanti trattenuti per
intere giornate nei commissariati e poi rilasciati. Si tratta di una cifra mai
raggiunta dal Marocco dopo l'insediamento al trono di Mohammed VI (1999), ad
eccezione delle incarcerazioni massicce seguite agli attentati del 2003 a
Casablanca. "La maggior parte - precisa la presidente dell'associazione
Khadija Ryadi - sono condannati per reati di diritto comune (possesso di sostanze stupefacenti, distruzione di beni pubblici,
favoreggiamento dell'emigrazione clandestina..), in processi a dir poco
farseschi".
Come
Samir Bradley, arrestato nel luglio scorso durante una manifestazione e rimasto
in carcere per sei mesi sulla base di una confessione estorta sotto tortura.
"Mi hanno picchiato più volte mentre ero ancora in strada. Sono svenuto, ma
le sevizie sono continuate in commissariato. Per due mesi ho dormito per terra,
rannicchiato in un angolo vicino al bagno".
La
triste esperienza subita e il sapore amaro di questo secondo anniversario, non
sembrano scoraggiare Samir. "Finché ci saranno persone che si leveranno in
ogni angolo del paese per chiedere libertà, dignità e giustizia, ci sarà il 20
febbraio".
Gli
attivisti, tuttavia, non nascondono la necessità di fare autocritica. I limiti
organizzativi del movimento, la difficoltà nel gestire i rapporti tra e
all'interno delle coordinazioni, la mancanza di una chiara strategia politica.
L'ingenuità, forse, nel credere possibile un vero cambiamento "nell'immediato
e senza strappi".
L'obiettivo
del '20 febbraio' non è mai stato quello di decapitare il regime, bensì di privarlo
delle sue radici, spingendo i cittadini a liberarsi della paura, a prendere
coscienza dei propri diritti e a tessere reti di solidarietà. Un processo lento
e in parte sotterraneo.
Il
grido ash ashaab ("viva il
popolo"), scandito nelle piazze in contrapposizione allo slogan
legittimista ash al-malik ("viva
il re"), non è solo l'attacco ad una monarchia anacronistica (che ancora gode,
tra l'altro, di un riscontro positivo in seno alla popolazione), ma un
manifesto di insubordinazione contro un sistema di controllo economico e
politico pervasivo (il makhzen),
contro la logica di sottomissione che ancora muove gli ingranaggi dello Stato.
In
questo senso, per gli attivisti, la sopravvivenza del movimento non è legata
alla perpetuazione delle sue strutture e delle sue iniziative, ma alla ripresa e
alla divulgazione dell'esempio offerto. "Non un modello da seguire, ma un
punto di partenza che possa servire per rialzare la testa, per aumentare la
pressione a tutti i livelli, per avere la forza di chiedere conti a chi fino ad
ora non ne ha mai dati", precisa Hamza Mahfoud.
Ecco
perché la battaglia dei giovani févrieristes
non sembra essere vana. Al di là delle affermazioni del governo, che assicura
ormai la scomparsa della contestazione, nuovi fronti si stanno aprendo in tutto
il paese. La lotta per la dignità continua da un anno e mezzo sul monte Alebban,
nonostante gli arresti e le intimidazioni. La tensione e i focolai di rivolta
nel Rif restano accesi, soprattutto dopo le pesanti condanne inflitte ai
militanti coinvolti nella sollevazione
del marzo scorso. Le proteste contro la marginalizzazione economica e le
mancate promesse di sviluppo hanno coinvolto
recentemente anche alcune comunità del Medio Atlante, mentre nelle scuole e
nelle università un nuovo movimento unitario (UECSE)
sta cercando di superare l'impasse - dettata da divisioni ideologiche e scontro
permanente nei campus - che da anni neutralizza il sindacato studentesco.
Ultimo,
emblematico, esempio. L'intera Midelt (porta di accesso alle oasi del Sud-est) è
scesa in strada il 20 febbraio per protestare contro l'umiliazione inflitta dal
sostituto procuratore locale ad un concittadino. Qualche giorno prima il
funzionario aveva schiaffeggiato un giovane meccanico costringendolo a
prostrarsi di fronte lui (e a baciargli i piedi, secondo quanto riportato da fonti
marocchine). L'episodio, che in passato sarebbe potuto passare sotto silenzio,
ha invece scatenato l'indignazione e la solidarietà degli abitanti, riunitisi
in sit-in di fronte al tribunale fino alla promessa, da parte del ministro
della Giustizia, di aprire un'inchiesta sull'accaduto (guarda il video).
Ecco
perché, in Marocco, il 20 febbraio può continuare ad essere il giorno della
dignità. Ecco perché il '20 febbraio', nonostante la flessione e il ritiro
(momentaneo?) dalle piazze, continua ad essere un simbolo di dignità ed
emancipazione.
(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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