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venerdì 22 febbraio 2013

Marocco. Il '20 febbraio' è ancora simbolo di dignità

Due anni fa migliaia di marocchini scendevano in piazza reclamando il cambiamento e un nuovo 'contratto' tra governanti e governati, basato sul rispetto della dignità, la redistribuzione delle risorse e la fine dell'assolutismo. Che cosa è rimasto oggi di questa 'esperienza rivoluzionaria'?



"Libertà, dignità, giustizia sociale", lo slogan scandito da Rabat a Casablanca, da Tangeri a Agadir, sulla scia della 'primavera'. Da allora sono trascorsi lunghi mesi di proteste e manifestazioni, che hanno interessato decine di città e villaggi in tutto il territorio nazionale. Sono sorti coordinamenti locali (oltre un centinaio), si sono tenute assemblee per dare spazio al confronto tra le varie 'anime' del movimento. Quella spontanea, rappresentata dai giovani indipendenti - che hanno costituito i primi nuclei e lanciato gli appelli alla mobilitazione - e quelle politiche, realtà militanti già rodate e di differente natura - come l'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH), piccoli partiti di sinistra rimasti fuori dal Parlamento, le associazioni berbere e gli islamisti di Giustizia e Spiritualità - che hanno appoggiato le rivendicazioni del movimento.

Un movimento che ha preso il nome dal giorno della sua epifania (20 febbraio, appunto), e che si è affermato nel corso del 2011 come "uno spazio originale e pacifico di espressione del dissenso", ricordava un anno fa uno dei suoi fondatori:

"Il 20 febbraio ha rappresentato un'unione inedita che gli oppositori delle vecchie generazioni non sono mai riusciti a realizzare, anche a causa all'intervento del regime che ha fatto di tutto per mantenere diviso il fronte dissidente. Per noi è stata una palestra di democrazia e un mezzo di educazione alla riflessione critica".

Per la prima volta nella storia del paese, i cittadini - al di fuori delle vecchie strutture partitiche nate dall'esperienza indipendentista (e subito neutralizzate dalla monarchia) - hanno cercato di ribaltare il rapporto di forza tra sudditi e Palazzo, non in nome di un'ideologia o di un colore politico. Hanno tentato di imporre una relazione mutuale tra Stato e società, in sostituzione al vincolo unilaterale fino ad ora in vigore, riassumibile nella divisa del regno "Dio, Patria, Re" su cui il regime alawita ha fondato la sua legittimità storica, religiosa e politica.

I févrieristes non hanno appiccato fuochi ai luoghi del potere, non hanno saccheggiato banche, assicurazioni o altre imprese di proprietà del sovrano o dei suoi accoliti. Non hanno reagito con la violenza di fronte agli interventi più duri delle forze dell'ordine. Hanno cercato di innescare una rivoluzione ancor più complessa e profonda, quella della mentalità.

Hanno cercato di infrangere tabù e linee rosse, chiedendo l'estromissione del monarca dalla vita politica, di dar voce ad un malessere collettivo, reclamando la fine dell'impunità e della corruzione delle elite al governo. Di risvegliare la coscienza di un popolo considerato remissivo e anestetizzato dalle repressioni degli 'anni di piombo' (così è stato definito, per la sua brutalità, il regno di Hassan II: 1961-1999).


'Il 20 febbraio è morto… viva il 20 febbraio'

Due anni dopo l'esplosione delle contestazioni, le autorità sembrano essere riuscite a neutralizzare il movimento dissidente, già da tempo indebolito numericamente e provato dal braccio di ferro con il regime. Il 20 febbraio 2013, data del secondo anniversario, si sono svolte manifestazioni a ranghi ridotti in una decina di città. Qualche centinaia di giovani si sono poi riuniti a Rabat per celebrare il secondo anniversario dalla discesa in strada. Il Festival de résistence et d'alternatives  organizzato per l'occasione, dopo dibattiti e performance artistiche, si è concluso senza incidenti con un sit-in di fronte al Parlamento.

Alcuni l'hanno definito una prova di vitalità, una testimonianza che la "fiamma rivoluzionaria" non si è ancora spenta. Per altri, la maggioranza dei giornali e degli 'analisti' marocchini, sarebbe invece la prova del suo "definitivo fallimento". Di certo, il movimento ha perduto gran parte del sostegno, non solo popolare, delle prime ore. Perché?

Sul piano politico, alla richiesta di un cambiamento dal basso (ad esempio la creazione di un'assemblea costituente eletta) avanzata dal '20 febbraio', la monarchia ha risposto avviando un processo di riforma dall'alto, sfociato su una nuova costituzione - che non intacca i poteri di controllo del sovrano e della sua entourage - ed elezioni anticipate che hanno in parte rinnovato la rappresentanza all'interno dell'esecutivo e della camera bassa dell'assemblea.

Le aperture limitate concesse e l'ascesa del partito islamico (PJD) - l'unico ancora 'vergine' in tema di cooptazione al potere e il solo a disporre di una solida base elettorale - sono bastate quindi a placare la sete di cambiamento? No, ma sono riuscite a rilanciare, dentro e fuori dal paese, l'immagine di un regime ponderato e riformatore e a togliere l'iniziativa dalle mani della piazza.

La mancanza di risultati concreti immediati - dal punto di vista degli attivisti, che hanno boicottato referendum costituzionale ed elezioni - ha inoltre favorito l'emergere di contrasti interni e il conseguente sfaldamento del fronte dissidente, che tra l'autunno e l'inverno del 2011 ha visto l'uscita dei collettivi berberi e dell'associazione islamica Giustizia e Spiritualità (maggioritaria nelle grandi città).

Anche sul piano socio-economico, le autorità sono corse subito ai ripari per arginare il possibile contagio della 'primavera' e togliere terreno al movimento. Sono state adottate misure d'urgenza per calmierare beni di prima necessità, arginando così una parte del malcontento, e per imbonire i gruppi di disoccupati organizzati e i dirigenti sindacali (con promesse di assunzioni massicce nelle amministrazioni e aumenti salariali). Queste misure, nel breve periodo, sono riuscite ad acquistare la pace sociale (ma a sprofondare la già fragile economia del paese, con cui ora si tratta di fare i conti) e ad evitare la giunzione dei due fronti di lotta come avvenuto invece in altri contesti, ad esempio quello tunisino.

La mancanza di ossigeno che ha portato il '20 febbraio' lentamente all'asfissia, però, non è dovuta soltanto al dietrofront o ai tentennamenti di alcuni attori-chiave della contestazione, ma anche ad una ben calcolata strategia repressiva. Meno selvaggia che in altre realtà regionali, la repressione del dissenso in Marocco ha comunque causato non meno di dieci morti e centinaia di arresti. Quanto basta per dare l'esempio. "Ogni volta che abbiamo manifestato o che abbiamo fatto sensibilizzazione in un quartiere popolare, nelle periferie, siamo andati in contro alla reazione feroce del regime", ricorda Hamza Mahfoud, tra i leader della protesta a Casablanca.

Gli interventi violenti sui manifestanti pacifici hanno toccato l'apice nel maggio 2011, proprio qualche settimana prima dell'approvazione della nuova costituzione, che ha consacrato diversi articoli alla protezione dei diritti umani e alla libertà di espressione "in tutte le sue forme". Buoni propositi serviti ad ottenere il plauso delle cancellerie d'oltremare, ma che non hanno ancora trovato riscontro sul terreno. Gli arresti, le condanne arbitrarie e le intimidazioni (nei confronti degli attivisti e della popolazione) proseguono ancora oggi, come conferma un recente comunicato diffuso da Amnesty International in cui si parla di un "ritorno al punto di partenza" e di "scarsa credibilità del processo di riforma".


Stando ai dati diffusi dall'AMDH, sarebbero circa 70 i membri del movimento attualmente in stato di detenzione, senza contare i militanti trattenuti per intere giornate nei commissariati e poi rilasciati. Si tratta di una cifra mai raggiunta dal Marocco dopo l'insediamento al trono di Mohammed VI (1999), ad eccezione delle incarcerazioni massicce seguite agli attentati del 2003 a Casablanca. "La maggior parte - precisa la presidente dell'associazione Khadija Ryadi - sono condannati per reati di diritto comune (possesso di sostanze stupefacenti, distruzione di beni pubblici, favoreggiamento dell'emigrazione clandestina..), in processi a dir poco farseschi".

Come Samir Bradley, arrestato nel luglio scorso durante una manifestazione e rimasto in carcere per sei mesi sulla base di una confessione estorta sotto tortura. "Mi hanno picchiato più volte mentre ero ancora in strada. Sono svenuto, ma le sevizie sono continuate in commissariato. Per due mesi ho dormito per terra, rannicchiato in un angolo vicino al bagno".

La triste esperienza subita e il sapore amaro di questo secondo anniversario, non sembrano scoraggiare Samir. "Finché ci saranno persone che si leveranno in ogni angolo del paese per chiedere libertà, dignità e giustizia, ci sarà il 20 febbraio".

Gli attivisti, tuttavia, non nascondono la necessità di fare autocritica. I limiti organizzativi del movimento, la difficoltà nel gestire i rapporti tra e all'interno delle coordinazioni, la mancanza di una chiara strategia politica. L'ingenuità, forse, nel credere possibile un vero cambiamento "nell'immediato e senza strappi".

L'obiettivo del '20 febbraio' non è mai stato quello di decapitare il regime, bensì di privarlo delle sue radici, spingendo i cittadini a liberarsi della paura, a prendere coscienza dei propri diritti e a tessere reti di solidarietà. Un processo lento e in parte sotterraneo.

Il grido ash ashaab ("viva il popolo"), scandito nelle piazze in contrapposizione allo slogan legittimista ash al-malik ("viva il re"), non è solo l'attacco ad una monarchia anacronistica (che ancora gode, tra l'altro, di un riscontro positivo in seno alla popolazione), ma un manifesto di insubordinazione contro un sistema di controllo economico e politico pervasivo (il makhzen), contro la logica di sottomissione che ancora muove gli ingranaggi dello Stato.

In questo senso, per gli attivisti, la sopravvivenza del movimento non è legata alla perpetuazione delle sue strutture e delle sue iniziative, ma alla ripresa e alla divulgazione dell'esempio offerto. "Non un modello da seguire, ma un punto di partenza che possa servire per rialzare la testa, per aumentare la pressione a tutti i livelli, per avere la forza di chiedere conti a chi fino ad ora non ne ha mai dati", precisa Hamza Mahfoud.

Ecco perché la battaglia dei giovani févrieristes non sembra essere vana. Al di là delle affermazioni del governo, che assicura ormai la scomparsa della contestazione, nuovi fronti si stanno aprendo in tutto il paese. La lotta per la dignità continua da un anno e mezzo sul monte Alebban, nonostante gli arresti e le intimidazioni. La tensione e i focolai di rivolta nel Rif restano accesi, soprattutto dopo le pesanti condanne inflitte ai militanti coinvolti nella sollevazione del marzo scorso. Le proteste contro la marginalizzazione economica e le mancate promesse di sviluppo hanno coinvolto recentemente anche alcune comunità del Medio Atlante, mentre nelle scuole e nelle università un nuovo movimento unitario (UECSE) sta cercando di superare l'impasse - dettata da divisioni ideologiche e scontro permanente nei campus - che da anni neutralizza il sindacato studentesco.

Ultimo, emblematico, esempio. L'intera Midelt (porta di accesso alle oasi del Sud-est) è scesa in strada il 20 febbraio per protestare contro l'umiliazione inflitta dal sostituto procuratore locale ad un concittadino. Qualche giorno prima il funzionario aveva schiaffeggiato un giovane meccanico costringendolo a prostrarsi di fronte lui (e a baciargli i piedi, secondo quanto riportato da fonti marocchine). L'episodio, che in passato sarebbe potuto passare sotto silenzio, ha invece scatenato l'indignazione e la solidarietà degli abitanti, riunitisi in sit-in di fronte al tribunale fino alla promessa, da parte del ministro della Giustizia, di aprire un'inchiesta sull'accaduto (guarda il video).

Ecco perché, in Marocco, il 20 febbraio può continuare ad essere il giorno della dignità. Ecco perché il '20 febbraio', nonostante la flessione e il ritiro (momentaneo?) dalle piazze, continua ad essere un simbolo di dignità ed emancipazione.


(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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