Nel
marzo scorso, il suicidio di Amina Filali aveva profondamente scosso l'opinione pubblica marocchina (o almeno
una parte considerevole). Stuprata all'età di sedici anni, la ragazza era stata
costretta a sposare il suo violentatore - previo accordo delle famiglie, come
prescritto dal codice penale - non riuscendo però a reggere la situazione.
Da
quel momento è iniziata la mobilitazione dei collettivi e delle associazioni
(femministe, diritti umani), che in nome di Amina hanno condotto una battaglia
mediatica e 'sul campo' (manifestazioni e sit-in di fronte al parlamento) per
chiedere la revisione del codice.
Quasi
un anno dopo è arrivata la risposta delle autorità e con essa i primi frutti
dell'azione collettiva:
il
governo ha emesso il suo parere positivo sulla proposta di legge in modifica all'articolo
475. La bozza prevede la soppressione del secondo paragrafo, quello che
autorizza l'autore dell'abuso a sposare la sua vittima per sfuggire alla
prigione, e un inasprimento delle pene detentive per chi ha commesso violenza.
"Si
tratta senz'altro di una notizia positiva - afferma Kadija Ryadi, presidente
dell'AMDH (Association marocaine pour les droits de l'homme) - che va presa,
però, per quello che è. E cioè una proposta, che dovrà poi passare al vaglio e
all'approvazione delle due camere". Sui tempi previsti per l'iter
legislativo, infatti, le autorità non hanno ancora fornito alcun dettaglio.
Ma
le preoccupazioni degli attivisti non si fermano qui. Qualora il testo
ottenesse il consenso del parlamento, ricordano, non vi sarebbero comunque
garanzie per la sua applicazione. Timori giustificati se si tiene conto - oltre
all'esperienza negativa
già accumulata in tema di riconoscimento e sanzione degli abusi sulle donne - dell'esplosione
di un clamoroso caso di impunità, proprio in concomitanza con i recenti annunci
governativi.
Pochi
giorni prima che i ministri esprimessero il loro accordo sulle modifiche al 475,
in effetti, il tribunale di Rabat era stato chiamato a pronunciarsi sull'affaire Malika Slimani, una funzionaria vittima
- secondo quanto stabilito dal magistrato in primo grado - di violenza sessuale
(seguita da gravidanza) ad opera del deputato Hassan Arif. La corte aveva
condannato il parlamentare ad un anno di carcere (con la condizionale) ed una
multa, ma la sentenza è stata ribaltata in appello e Arif assolto per
insufficienza di prove.
L'imputato
ha affermato di aver intrattenuto rapporti di carattere "esclusivamente
professionale" con la Slimani, asserzione smentita dai tabulati telefonici
in possesso del tribunale - che attestano l'esecuzione di circa trecento
chiamate indirizzate dal deputato alla ragazza in orario non lavorativo - e dal
test del dna (peraltro eseguito raramente in questi casi), che ha provato la
paternità di Arif sul figlio della vittima.
"Una
giustizia al servizio dei potenti", titolava l'indomani del verdetto il
sito di informazione Lakome,
ricordando che - anche se fossero mancate le prove riguardo allo stupro -
l'accusato avrebbe dovuto essere comunque incriminato per altri due reati:
mancato riconoscimento e relazione extra-coniugale (sanzionati dal codice).
L'intera
vicenda, prima di ottenere una certa risonanza mediatica, era stata sollevata da
un 'semplice' post ("Quando la giustizia è teatro dell'assurdo") diffuso
da Marwa Belghazi sulla piattaforma femminista Qandisha.
La blogger è poi tornata sui fatti in questi termini: "ho assistito al
processo per puro caso e l'aver appreso che la vicenda andava avanti da anni,
nel silenzio più assolto, mi ha sconvolto. In ogni altro paese in cui la
stampa, i cittadini e i loro rappresentanti seguono e partecipano alla res publica, non si sarebbe dovuta
attendere la mia testimonianza per scatenare il buzz. In più, un episodio del genere avrebbe scatenato un terremoto
politico all'interno del parlamento e quest'uomo non avrebbe di certo
continuato ad esercitare indisturbato le sue funzioni in nome del popolo".
Per
Khadija Ryadi, invece, la decisione del tribunale di Rabat "non stupisce
più di tanto e riflette il modo in cui generalmente sono trattati i casi di
violenza sessuale del paese: la vittima in arresto e il colpevole a piede
libero, soprattutto se si tratta di un personaggio di calibro". Il danno e
la beffa. Oltre all'esito del processo, infatti, Malika Slimani ha trascorso tre
giorni in stato di reclusione per ingiurie a pubblico ufficiale, dopo aver
diffuso un appello video
in cui ha accusato i magistrati di corruzione e si è difesa dal clima di 'linciaggio
morale' - "non era vergine quindi non è stata violentata", "è
maggiorenne e sicuramente era consenziente", "aveva una relazione con
lui e sta cercando solo visibilità" - sostituitosi allo slancio di
indignazione iniziale.
Al
di là della legge e del codice, al di là dell'impunità e del malfunzionamento
della giustizia - lamentano gli attivisti per i diritti umani - combattere la
violenza sessuale significa prima di tutto scontrarsi con una forma di 'complesso
sociale', che implica un giudizio morale sulla donna che la subisce più che sul
suo artefice.
"E'
tempo che la nostra società accordi più interesse alla protezione
dell'individuo che a quella di un presunto ordine collettivo - è ancora il
commento della blogger Belghazi - Questa transizione implica l'accettazione di
un principio in gran parte ancora sconosciuto, la libertà di autodeterminazione
in materia sessuale e oltre. Di conseguenza, lo stupro deve essere considerato
come un'offesa all'intimità profonda dell'essere umano e non più solamente dell'ordine
divino o sociale".
Intanto,
i militanti si stanno organizzando - sul web e nelle sedi delle associazioni -
per rispondere all'appello di solidarietà lanciato dalla Slimani. Sono state
indirizzate lettere di protesta al Ministero della Giustizia e una campagna
in rete chiede apertamente le dimissioni di Hassan Arif.
Ma
i riflettori accesi sulla vicenda basteranno a garantire una revisione della
sentenza in terzo grado di giudizio?
Senza
aver avuto il tempo di gioire per la 'vittoria' sull'articolo 475, gli
attivisti si stanno già rimboccando le maniche e sono pronti ad una nuova
mobilitazione in nome di Malika, coscienti che la battaglia per l'instaurazione
di uno stato di diritto è ancora lunga.
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