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mercoledì 6 febbraio 2013

Violenza sessuale in Marocco: un passo avanti e due indietro?

Nel marzo scorso, il suicidio di Amina Filali aveva profondamente scosso l'opinione pubblica marocchina (o almeno una parte considerevole). Stuprata all'età di sedici anni, la ragazza era stata costretta a sposare il suo violentatore - previo accordo delle famiglie, come prescritto dal codice penale - non riuscendo però a reggere la situazione.




Da quel momento è iniziata la mobilitazione dei collettivi e delle associazioni (femministe, diritti umani), che in nome di Amina hanno condotto una battaglia mediatica e 'sul campo' (manifestazioni e sit-in di fronte al parlamento) per chiedere la revisione del codice.

Quasi un anno dopo è arrivata la risposta delle autorità e con essa i primi frutti dell'azione collettiva:

il governo ha emesso il suo parere positivo sulla proposta di legge in modifica all'articolo 475. La bozza prevede la soppressione del secondo paragrafo, quello che autorizza l'autore dell'abuso a sposare la sua vittima per sfuggire alla prigione, e un inasprimento delle pene detentive per chi ha commesso violenza.

"Si tratta senz'altro di una notizia positiva - afferma Kadija Ryadi, presidente dell'AMDH (Association marocaine pour les droits de l'homme) - che va presa, però, per quello che è. E cioè una proposta, che dovrà poi passare al vaglio e all'approvazione delle due camere". Sui tempi previsti per l'iter legislativo, infatti, le autorità non hanno ancora fornito alcun dettaglio.

Ma le preoccupazioni degli attivisti non si fermano qui. Qualora il testo ottenesse il consenso del parlamento, ricordano, non vi sarebbero comunque garanzie per la sua applicazione. Timori giustificati se si tiene conto - oltre all'esperienza negativa già accumulata in tema di riconoscimento e sanzione degli abusi sulle donne - dell'esplosione di un clamoroso caso di impunità, proprio in concomitanza con i recenti annunci governativi.

Pochi giorni prima che i ministri esprimessero il loro accordo sulle modifiche al 475, in effetti, il tribunale di Rabat era stato chiamato a pronunciarsi sull'affaire Malika Slimani, una funzionaria vittima - secondo quanto stabilito dal magistrato in primo grado - di violenza sessuale (seguita da gravidanza) ad opera del deputato Hassan Arif. La corte aveva condannato il parlamentare ad un anno di carcere (con la condizionale) ed una multa, ma la sentenza è stata ribaltata in appello e Arif assolto per insufficienza di prove.

L'imputato ha affermato di aver intrattenuto rapporti di carattere "esclusivamente professionale" con la Slimani, asserzione smentita dai tabulati telefonici in possesso del tribunale - che attestano l'esecuzione di circa trecento chiamate indirizzate dal deputato alla ragazza in orario non lavorativo - e dal test del dna (peraltro eseguito raramente in questi casi), che ha provato la paternità di Arif sul figlio della vittima.

"Una giustizia al servizio dei potenti", titolava l'indomani del verdetto il sito di informazione Lakome, ricordando che - anche se fossero mancate le prove riguardo allo stupro - l'accusato avrebbe dovuto essere comunque incriminato per altri due reati: mancato riconoscimento e relazione extra-coniugale (sanzionati dal codice).

L'intera vicenda, prima di ottenere una certa risonanza mediatica, era stata sollevata da un 'semplice' post ("Quando la giustizia è teatro dell'assurdo") diffuso da Marwa Belghazi sulla piattaforma femminista Qandisha. La blogger è poi tornata sui fatti in questi termini: "ho assistito al processo per puro caso e l'aver appreso che la vicenda andava avanti da anni, nel silenzio più assolto, mi ha sconvolto. In ogni altro paese in cui la stampa, i cittadini e i loro rappresentanti seguono e partecipano alla res publica, non si sarebbe dovuta attendere la mia testimonianza per scatenare il buzz. In più, un episodio del genere avrebbe scatenato un terremoto politico all'interno del parlamento e quest'uomo non avrebbe di certo continuato ad esercitare indisturbato le sue funzioni in nome del popolo".

Per Khadija Ryadi, invece, la decisione del tribunale di Rabat "non stupisce più di tanto e riflette il modo in cui generalmente sono trattati i casi di violenza sessuale del paese: la vittima in arresto e il colpevole a piede libero, soprattutto se si tratta di un personaggio di calibro". Il danno e la beffa. Oltre all'esito del processo, infatti, Malika Slimani ha trascorso tre giorni in stato di reclusione per ingiurie a pubblico ufficiale, dopo aver diffuso un appello video in cui ha accusato i magistrati di corruzione e si è difesa dal clima di 'linciaggio morale' - "non era vergine quindi non è stata violentata", "è maggiorenne e sicuramente era consenziente", "aveva una relazione con lui e sta cercando solo visibilità" - sostituitosi allo slancio di indignazione iniziale.

Al di là della legge e del codice, al di là dell'impunità e del malfunzionamento della giustizia - lamentano gli attivisti per i diritti umani - combattere la violenza sessuale significa prima di tutto scontrarsi con una forma di 'complesso sociale', che implica un giudizio morale sulla donna che la subisce più che sul suo artefice.

"E' tempo che la nostra società accordi più interesse alla protezione dell'individuo che a quella di un presunto ordine collettivo - è ancora il commento della blogger Belghazi - Questa transizione implica l'accettazione di un principio in gran parte ancora sconosciuto, la libertà di autodeterminazione in materia sessuale e oltre. Di conseguenza, lo stupro deve essere considerato come un'offesa all'intimità profonda dell'essere umano e non più solamente dell'ordine divino o sociale".

Intanto, i militanti si stanno organizzando - sul web e nelle sedi delle associazioni - per rispondere all'appello di solidarietà lanciato dalla Slimani. Sono state indirizzate lettere di protesta al Ministero della Giustizia e una campagna in rete chiede apertamente le dimissioni di Hassan Arif.

Ma i riflettori accesi sulla vicenda basteranno a garantire una revisione della sentenza in terzo grado di giudizio?

Senza aver avuto il tempo di gioire per la 'vittoria' sull'articolo 475, gli attivisti si stanno già rimboccando le maniche e sono pronti ad una nuova mobilitazione in nome di Malika, coscienti che la battaglia per l'instaurazione di uno stato di diritto è ancora lunga.

(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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