Articolo pubblicato da Tel Quel, n. 398, 14-20 novembre 2009.
Un anno e mezzo dopo gli scontri che hanno insanguinato la città, Sidi Ifni sta ancora aspettando. Gli oppositori di ieri siedono oggi nei banchi del consiglio comunale e promettono un cambiamento. Immersione in una città sull’orlo di una crisi di nervi.
Sono le 9 di mattina a Sidi Ifni, 200 chilometri a sud di Agadir. Un motorino fende il silenzio e la foschia iodata. Sedie vuote sulle terrazze dei caffè, le persiane blu sono chiuse, le vie deserte. O quasi. Questa piccola cittadina (20 mila abitanti), infiammatasi nel giugno del 2008, quando le forze dell’ordine hanno sgomberato con la forza i disoccupati che bloccavano il porto, sembra ancora addormentata. In attesa. Le rare figure si incrociano in silenzio, come in una città fantasma. I pochi negozi che si affacciano sull’asfalto dissestato di boulevard Mohamed V non hanno ancora aperto i battenti. E il sole, anche lui, sembra voler aspettare ancora un po’, prima di penetrare la caligine mattutina. “E’ sempre così – commenta laconico Brahim, davanti al suo bar abbandonato – non c’è niente da fare qui. Più della metà della popolazione è disoccupata. Allora gli abitanti si alzano tardi e vivono lentamente”.
Lo sfinimento generale
Nella parte alta della città risuonano rumori sordi che turbano il torpore generale. Ai bordi della piazza di Spagna, vestigia dell’epoca in cui sulla facciata del comune era esposto il vessillo sangue e oro, il municipio è preso d’assalto da un’armata di operai. E’ iniziata l’operazione lifting nel grande edificio dalle mura decrepite. Il comune di Sidi Ifni ha cambiato di mano nelle ultime elezioni, in giugno. I nuovi inquilini intendono restituire lustro a questo posto. Come per dire che le cose sono ormai in procinto di cambiare in città. In ogni caso è quello che ha promesso Mohamed El Ouahdani, alla guida della nuova giunta.
Vestito nero, cravatta scura, l’eletto tra le file dell’USFP (Unione Socialista delle Forze Popolari) era uno dei capi della “Segreteria locale”, il collettivo di partiti, sindacati e altre associazioni che ha guidato la rivolta appena un anno fa. Come una decina di suoi compagni d’armi, ha pagato per il suo impegno ed il suo coinvolgimento con un soggiorno dietro le sbarre. Una decorazione sul campo che ha permesso alla sua lista di strappare 20 dei 25 seggi del consiglio comunale. Ma a quattro mesi dalla vittoria non è più il tempo dei brindisi e dello champagne. La popolazione ha sete di cambiamento e, vecchio detenuto o no, il nuovo patron sente la crescere la pressione. “I cittadini si immaginano che si possa cambiare la città in pochi mesi. Ma evidentemente questo non è possibile”, tuona stizzito El Ouahdani.
Malgrado le promesse dello Stato, che ha assicurato il suo impegno per lo sviluppo della città nell’ottobre 2008, la trasformazione a Sidi Ifni sembra essersi adagiata su un ritmo molto lento (ndt. in italiano nel testo). L’unico vero traguardo raggiunto, per il momento, è la conversione di Sidi Ifni in provincia. L’antica residenza del Pacha è già stata sistemata per accogliere la nuova amministrazione, ma attende ancora l’arrivo del suo inquilino. Annunciata in primavera, poi in estate, la designazione del nuovo governatore da parte del Re non è ancora avvenuta. Nell’attesa, Sidi Ifni continua a dipendere dalla provincia di Tiznit. E il malcontento fermenta in seno alla popolazione.
Appoggiato contro un muro divorato dall’umidità, a qualche metro dal municipio, Hamid rimugina tra i denti la sua disillusione. Come molti abitanti della città, questo pescatore dai tratti marcati e dalle guance annerite da un principio di barba, non ha votato alle ultime elezioni. Sul cambiamento annunciato non ha nessuna fiducia. “Non hanno fatto altro che cambiare la facciata, ma nel fondo tutto è rimasto uguale. E il fatto che i nuovi eletti provengano dalla contestazione dimostra soltanto che si sono lasciati convincere dal potere”, afferma con amarezza. Cinque giorni fa lo scafo sul quale lavorava si è rovesciato. Da allora Hamid è in “disoccupazione tecnica”. Con il suo salario garantiva la sopravvivenza ad altre cinque persone. Il suo umore è comprensibilmente nero. “Cosa vuole che mi importi se hanno creato una nuova provincia. In più senza governatore. E’ il lavoro e infrastrutture migliori che domandavamo. E almeno per ora non si è visto niente”.
Fratelli nemici
Hamid, come molti dei compagni di lotta, sta portando avanti una campagna contro i nuovi eletti al consiglio comunale. I leaders di questa nuova opposizione sono gli stessi, fatte salve alcune eccezioni, che guidarono la rivolta nel 2008. Da Attac, ONG alter-mondialista, all’Associazione marocchina dei laureati disoccupati. La maggior parte dei membri della vecchia coalizione non ha ancora digerito l’elezione dei compagni di lotta di un tempo. La considerano un tradimento. “Intraprendere un cammino di conciliazione, come stanno facendo i nuovi eletti, significa fare il gioco dello Stato. Ad essere inglobati nel sistema non si può che perdere. Tanto più che il consiglio comunale non ha alcun potere reale, piazzato com’è sotto la tutela della provincia e quindi del Ministero dell’Interno”, denuncia Khalid Bouchra, uno dei veterani della “Segreteria locale”, indagato, ma non condannato, dopo i “fatti di Sidi Ifni”. A suo parere è “inaccettabile rientrare in questo modo nel gioco elettorale, dopo anni di duro boicottaggio. Mentre due compagni, Mohamed Issam e Zine El Abidine Radi, restano ancora in carcere”.
Mohamed El Ouahdani ha intrapreso il suo cammino politico su invito di Ibrahim Sbaalil, rappresentante locale dell’USFP, radiato dalle liste elettorali dopo la condanna a sei mesi di prigione. Il nuovo inquilino del municipio si dice innervosito da tutta questa situazione. Per lui, “le autorità hanno fornito le prove della loro volontà, del loro impegno al cambiamento. Rimanere in una opposizione perpetua è solo un modo, per alcuni, di regolare propri conti con lo Stato”. Accanto a lui c’è Khadija Ziane, foulard stretto e sorriso discreto. Anche lei, ora, fa parte del consiglio comunale. Dopo aver passato sei mesi dietro le sbarre. Da parte sua, considera il successo elettorale “come la prova che la battaglia contro lo Stato è stata vinta”, e sembra credere che “le autorità siano ormai obbligate a mantenere le loro promesse, sempre che non vogliano ritrovarsi di fronte a rivolte ancor più dure di quelle del 2008”.
Obiettivo Canarie
Comodamente installati sugli sgabelli di un negozio per surfisti a due passi dal centro, Hicham, Younes, Mourad e i loro amici sono ben lontani da queste considerazioni. E’ da molto ormai che questi serfeurs, capelli scoloriti dal sole e addominali-tartaruga, non si aspettano più grandi cose dalla politica. Come quasi tutti gli abitanti della città hanno partecipato pietre alla mano alla guerriglia urbana di Sidi Ifni. Ma non attendono più miracoli. E’ dall’altra parte dell’oceano, nelle Canarie, che immaginano un avvenire migliore. Hicham e Younes hanno già tentato la traversata, ma ogni volta si sono fatti prendere e sono stati rispediti a casa manu militari. Per Mourad invece sarà la prima volta. “Laggiù, anche se non hai un lavoro, tutto è più facile. A qualche chilometro di distanza, là nell’oceano, c’è tutto, mentre qui non c’è niente”, racconta con un sorriso triste e spento. Durante la conversazione i suoi occhi non hanno lasciato un istante lo schermo del computer davanti a lui. Connesso su MSN, sta chattando, come ogni giorno, con delle belle ragazze canarie. I suoi sogni sono già proiettati oltre l’azzurro del mare. “Servono 5 mila dirhams per il viaggio. Do corsi di surf, lavoro nei negozi, e presto avrò la somma necessaria. Conto di partire prima della fine dell’anno”, mi confida con un bagliore negli occhi. In ogni modo “la maggior parte dei miei compagni di scuola sono già partiti. Restare per che cosa?”.
La città, dopo essere passata sotto il controllo marocchino nel 1969, si è svuotata. 50 mila abitanti all’epoca degli Spagnoli, appena 20 mila oggi. Mourad e i suoi amici non hanno più di 25 anni, ma parlano lo stesso con nostalgia di quel grandioso passato. “Sidi Ifni era un gioiello. La nostra tribù, gli Ait Baamrane, si è battuta affinché questa ricchezza tornasse marocchina. Abbiamo cacciato gli Spagnoli dalla città senza l’aiuto di nessuno. Ma alla fine il Makhzen ci ha ringraziato isolandoci e lasciandoci morire lentamente”, s’indigna Hicham.
L’ospedale della morte
Tutti gli abitanti della città hanno ancora in mente degli esempi di questo passato maestoso: un aeroporto internazionale, cinema, istituti di studi superiori e un ospedale, “il più avanzato di tutta l’Africa del nord”, si affrettano a precisare, con fierezza, i cittadini di Sidi Ifni. Quarant’anni dopo, la città dei prodi guerrieri ha smarrito la sua superbia. In assenza di una vera strada che la colleghi a Tan Tan, non può essere considerata nemmeno un centro di passaggio. “Gli abitanti della regione hanno sempre avuto la reputazione di essere dei ribelli. Già prima di passare sotto il dominio degli Spagnoli, non riconoscevano l’autorità del Sultano. Il Makhzen ce lo sta facendo pagare da quarant’anni”, analizza Khalid Bouchra, con voce stanca.
Appena fuori città, l’ospedale pubblico sembra, da solo, l’immagine della gloria passata. Citato ad esempio fino a quarant’anni fa, oggi funziona al rallentatore. Sulla facciata decrepita, il passante riesce a malapena a leggere le parole “urgenze” o “ospedale”, cancellate dall’insidia degli anni. All’interno c’è silenzio e un vago odore di rancido. Nessuno all’ingresso, i corridoi sono vuoti… “Questa sera, come sempre, ci siamo solo io e un infermiere a mandare avanti l’intera struttura – si dispera un medico – non bisogna stupirsi, poi, se ci sono dei problemi”. Se ne sta rintanato in una sala polverosa. Le attrezzature sembrano uscite da un’epoca lontana. Per mancanza di mezzi, qui regna il “sistema D”. “Ci ritroviamo ad occuparci di cose che non hanno alcun rapporto con il nostro lavoro. Chiamare le autorità per rifornire l’ambulanza di benzina, per esempio, perché c’è un paziente da evacuare d’urgenza verso Tiznit o Agadir”, prosegue il giovane dottore, confinato qui al termine dei suoi studi. Tutta la città è ancora sconvolta dalle conseguenze di questa penuria di risorse. Solo l’anno scorso due donne, due sorelle, sono morte mentre stavano raggiungendo un altro ospedale a centinaia di chilometri da Sidi Ifni. Avevano appena partorito.
Nel porto di Sidi Ifni, dei marinai…
Dall’altra parte della città, sul bordo del mare, c’è il porto. E’ là che cominciarono gli scontri nel giugno 2008. Più di un anno è passato e il rapporto tra le autorità ed i pescatori resta ancora teso. M’barek, stivali fino al ginocchio, un grosso maglione di lana nonostante il calore soffocante e occhiaie profonde sul viso, dà sfogo alla sua rabbia: “Solo due giorni fa due uomini sono morti in mare. L’imbocco del porto è estremamente pericoloso. Si verificano incidenti di continuo. Per assicurare il passaggio basterebbe giusto dragare un po’ il fondale”.
A qualche metro da lui, una decina di camion stanno caricando casse e casse di sardine pescate durante la notte. Decine di pesci sventrati, invece, restano a terra, immersi in una poltiglia vischiosa e nauseabonda di viscere e sangue. E’ tutto quello che rimarrà della pesca del giorno, una volta che i camion saranno ripartiti verso Agadir. “Qui non ci sono industrie per la lavorazione del pesce. Tutto ciò che viene pescato è poi portato all’estero su immensi battelli-frigorifero o altrove in Marocco su questi camion. I pesci di Sidi Ifni costituiscono un’immensa ricchezza. Ma noi non ne approfittiamo”, spiega, disincantato, Farès Hafifi, uno dei promotori del blocco del 2008. Come i suoi compagni di sventura, giura di essere pronto a manifestare di nuovo, se il cambiamento promesso non arriverà. A Sidi Ifni l’attesa è infinita, ma non la pazienza dei suoi abitanti.
Amélie Amilhau
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