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sabato 14 novembre 2009

Voci d'Algeria. Soumia Salhi

Intervista a Soumia Salhi, Presidente della Commissione Nazionale delle Donne Lavoratrici (CNFT) e membro del Consiglio Nazionale dell’Unione Generale dei Lavoratori Algerini (UGTA).



J. G. : Vorrei iniziare questa intervista con delle domande che esulano dal contesto sindacale e prettamente femminista, per entrare più nel personale e conoscere quella che è stata la sua esperienza di vita, la sua esperienza di donna algerina. Per esempio la sua infanzia, dove è cresciuta e in quali condizioni.

S. Salhi: Provengo da una famiglia modesta, molto modesta, e sono cresciuta in un quartiere popolare di Algeri; mio padre lavorava in una azienda al porto. Ho condiviso con i coetanei del mio quartiere sinceri valori di solidarietà, fenomeno frequente nei quartieri popolari. La mia famiglia era poco numerosa, un nucleo ristretto formato da mia madre, mio padre e mio fratello, più vecchio di me. Una cosa piuttosto inusuale in un quartiere povero. La vita per le ragazze non era affatto facile, ma la mia indole, il mio carattere, combattivo e tenace, mi hanno aiutato ad impormi e a far sì che mi ricavassi uno spazio, seppur donna, nella vita di quartiere.
Ho vissuto assieme ai miei genitori fino al matrimonio, senza problemi, eravamo una famiglia salda, mio padre e mia madre andavano d’accordo, non litigavano mai, tant’è che non ho mai visto mio padre colpire mia madre, episodi frequenti invece tra i vicini, dove abitualmente gli uomini picchiavano le donne. Questa visione continua ha provocato la mia prima presa di coscienza e ha innescato la mia repulsione nei confronti di questa pratica, fin troppo ricorrente. Non sopportavo di vedere le donne percosse quotidianamente dai propri mariti, ma soprattutto non sopportavo di vederle accettare in silenzio questa condizione, quasi che giustificassero le percosse come una punizione meritata. Non sopportavo e non sopporto i mariti violenti, la violenza domestica gratuita.
E’ questa la base sociale da cui provengo e tali esperienze hanno contribuito a forgiare il mio animo e la mia coscienza. Così, quando sono entrata all’università nel 1973, è stata un’esigenza naturale raccogliermi attorno a quanti condividevano i miei stessi pensieri e le mie stesse esigenze. Ricordo quel periodo come l’inizio della lotta sul campo, con le prime esposizioni all’interno della Facoltà, i cineforum e i dibattiti; ricordo anche i rischi a cui andammo in contro, professori che osteggiavano la nostra campagna contro la discriminazione sessuale e che ci ricattavano, gli studenti che ci prendevano di mira negli autobus e che ci infliggevano violenze verbali ma anche fisiche.

J. G. : Durante il periodo del terrorismo, invece, qual è stata la sua esperienza personale? Come ha vissuto quegli anni da militante sindacale e femminista?

S. Salhi: L’associazione in cui militavo in quel periodo ha sempre cercato di darsi da fare, anche durante i primi anni novanta. Cercavamo di accogliere e proteggere le donne vittime della violenza islamista, ascoltavamo i loro racconti e cercavamo di diffondere il coraggio necessario per tenere duro e resistere a quell’ondata di violenza cieca. Bisognava resistere, fuggire, secondo noi, non era una soluzione. All’epoca lavoravo in una azienda ed ero sempre nel sindacato. Continuavo a fare il mio dovere, tanto come lavoratrice quanto come sindacalista. Negli anni ’93-’94 fui addirittura nella commissione incaricata di negoziare il contratto con le imprese.
Mio cognato è stato assassinato sulla porta di casa, mentre i miei genitori furono obbligati a partire e lasciare la casa, andare ad abitare altrove, anche mio fratello ha avuto molti problemi …. Sì, sono stata toccata nel profondo in quel periodo, ho rischiato di perdere quanto avevo di più caro.

J. G. : Suo cognato fu coinvolto per errore, per caso, o la sua morte arrivò dopo una serie di minacce?

S. Salhi: Fu minacciato, fu minacciato più volte, dal momento che aveva avviato le pratiche per espatriare, che aveva deciso di lasciare l’Algeria … Fu gente del quartiere, di “El Harrach”, a prenderlo, a tendergli l’agguato e ad ucciderlo.

J. G. : “El Harrach” era un quartiere caldo durante il periodo del terrorismo?

S. Salhi: Sì, ne fu coinvolto pesantemente. Tuttavia io in quegli anni abitavo a “Gue de Constantine”, coinvolto in maniera perfino più ingente, un vero focolaio di integralisti. Una mattina, quando i ragazzi sono usciti di casa per andare a scuola, hanno trovato dei cani che stavano giocando con una testa, una testa umana, che rotolava in mezzo alla via.

J. G. : Dove si trova esattamente “Gue de Constantine”?

S. Salhi: “Gue de Constantine” si trova  tra “Birkhadem”, “Baraki” e “Kouba”. Molti amici, molti vicini di casa, vennero assassinati in quegli anni.

J. G. : Restavate impotenti di fronte a tutto questo, all’ondata di terrorismo, o avevate la possibilità di reagire, la popolazione cercava di sottrarsi?

S. Salhi: Era dura, ma abbiamo resistito. Abbiamo continuato a lavorare. Io ho continuato viaggiare in macchina nel mio quartiere, ben sapendo che le donne, se volevano evitare rischi, non dovevano uscire di casa, né tantomeno girare in auto da sole. Ho continuato la mia attività all’interno del sindacato, pur sapendo di correre un pericolo mortale. Eravamo in molte a lottare quotidianamente, a combattere la paura con ogni mezzo, continuando la nostra esistenza di sempre.
Questa io la considero una grande vittoria, non aver ceduto al ricatto terrorista innescato dalla paura e dal terrore. La mattina, quando salivo in macchina per andare al lavoro, avevo la sensazione che qualcun altro si trovasse con me all’interno dell’abitacolo, che mi stesse aspettando e che fosse sul punto di farmi fuori. Salivo in auto di corsa, mettevo in moto e partivo subito …. Vivevamo immerse nella paura, ma non cedemmo e continuammo tutte le nostre attività.

J. G. : I suoi genitori hanno condiviso e appoggiato le sue scelte?

S. Salhi: Sì, tutta la mia famiglia è sempre stata fiera di me e della mia attività, compreso mio fratello.

J. G. : Perché ha scelto di restare, a differenza di suo cognato per esempio?

S. Salhi: Non ho mai sopportato l’umiliazione di chiedere elemosina all’ambasciata, non ho mai avuto l’occasione di farlo e nemmeno l’ho cercata. La mia indole è quella di lottare, almeno fin quando è possibile, fuggire non mi è mai sembrata una soluzione. La mia dignità è troppo preziosa per accettare un simile smacco.

J. G. : In quale anno suo cugino aveva avviato le pratiche per l’espatrio?

S. Salhi: Nel 1994.

J. G. : C’è qualcos’altro che occupa un posto particolare nei suoi ricordi, qualche episodio importante che ha marcato la sua vita di donna algerina?

S. Salhi: Sono vissuta in una famiglia di marabut, originaria della Cabilia. Io sono nata ad Algeri, ma mio padre è rimasto un uomo fortemente tradizionalista, almeno sotto certi aspetti. Per quanto riguarda l’istruzione invece si è dimostrato molto aperto, considerando la scuola un’esigenza primaria e indispensabile tanto per mio fratello che per me. Abbiamo ospitato molte ragazze cabile nella nostra casa di Algeri per permettere loro di studiare. Fu mio padre a volerlo, l’istruzione per lui veniva prima di tutto.
Ho frequentato una medersa mista, una scuola primaria mista e un college misto. Ero immersa quotidianamente in un contesto di promiscuità sessuale, ma i miei genitori non sembravano preoccupati da questa situazione. Avevo dei divieti, certo, per esempio non dovevo spogliarmi né denudarmi nemmeno le braccia, ma in fondo era niente in confronto ai brevi periodi trascorsi nel villaggio da cui proveniva mio padre, dove maschi e femmine vivevano in un contesto di perpetua separazione. C’erano addirittura due strade diverse in paese, una per gli uomini ed una per le donne, e quando gli uomini si riunivano in un luogo le donne non potevano nemmeno passarci a fianco. Questa era una situazione che non riuscivo ad accettare. Gli uomini di famiglia “marabutica” potevano assistere alle cerimonie di matrimonio delle altre famiglie, ma gli uomini delle famiglie “non marabutiche” non potevano accedere alle cerimonie di quelle marabutiche.

J. G. : L’appellativo “marabutico” denota l’appartenenza ad un livello sociale?

S. Salhi: Più che sociale indica un livello culturale-religioso. Le famiglie “marabutiche” sono quelle famiglie che vantano al loro interno delle figure religiose di spicco per la comunità dei credenti, dei saggi che conoscevano tutto il Corano a memoria e che spesso davano vita a delle confraternite di discepoli.

J. Granci: La sua famiglia “marabutica” ha dato vita ad una zaouia?

S. Salhi: Sì, una specie. L’antenato fondatore creò una piccola confraternita, nel villaggio della “Piccola Cabilia” di cui sono originaria. Lì c’è anche un piccolo cimitero di famiglia, dal momento che le famiglie “marabutiche” non seppelliscono i propri cari assieme ai morti delle altre famiglie. Nel cimitero, dove c’è la tomba dell’antenato fondatore, è stato costruito un piccolo mausoleo, una sorta di santuario. Questo per quanto riguarda mio padre, ma anche mia madre proviene da una famiglia “marabutica”, cabila, originaria di un altro villaggio.

J. Granci: Un discendente di una famiglia “marabutica” può sposare un “non marabutico”?

S. Salhi: No, la tradizione vuole che un discendente “marabutico” sposi un altro discendente “marabutico”. Oggi, anche nei villaggi più remoti, è possibile soprassedere a tale vincolo, ma fino a vent’anni fa era molto, molto difficile. Nel caso del mio matrimonio fu un po’ più facile, dal momento che vivevo ad Algeri e non al villaggio, ma i parenti vollero ugualmente informarsi e assicurarsi della giustezza delle mie nozze. Io sinceramente non sapevo proprio se la persona che amavo (e che è tuttora mio marito) appartenesse ad una discendenza “marabutica” o meno. Non mi interessava affatto e non mi facevo assolutamente problemi. La cosa simpatica è che alla fine scoprii che lui stesso aveva un’appartenenza “marabutica”, così furono soddisfatti perfino i miei parenti al villaggio, il cui parare tuttavia mi interessava ben poco. Ho contratto il mio matrimonio per altre motivazioni e ben prima di venire a conoscenza di questo fatto in sé curioso.

J. G. : Veniamo ora alla sua storia di militante sindacale e femminista. Come è arrivata a questa esperienza? Qual è stato il suo cammino, in seno all’UGTA ma soprattutto prima di approdare alla centrale sindacale?

S. Salhi: La mia militanza comincia nel movimento femminista algerino, nel quale mi sono battuta a lungo prima di approdare al sindacalismo. Quando ero all’università, durante gli anni settanta, ho fatto parte del nucleo fondatore del primo movimento studentesco femminista algerino, con il quale mi sono a lungo battuta per i diritti della donna e la fine della discriminazione sessuale. All’università di Algeri abbiamo organizzato cineforum, convegni e marce.
Là, in quel poster appeso alla parete, è ritratta la testa del corteo di una manifestazione per i diritti delle donne, in testa sono riconoscibili volti noti del femminismo algerino, Luisa Hannoune, Halida Messaoudi, ci sono io stessa, con venticinque chili di meno… (Madame Salhi mi mostra il poster in cui è raffigurato il corteo che sta descrivendo).
Io sono una delle fondatrici del Movimento per l’Emancipazione delle Donne, sorto all’inizio degli anni ottanta (1984); tuttavia eravamo ancora all’epoca del partito unico e la libertà di associazione non era garantita, non avevamo quindi il diritto di fondare legalmente la nostra associazione e non potevamo ottenere il riconoscimento giuridico. L’unica possibilità di esistere era di inserirsi in strutture già esistenti e riconosciute dal regime. Così ci inserimmo nella federazione dei cineamatori e fondammo il nostro cineclub.
Poi la mia battaglia per i diritti delle donne è proseguita sul fronte sindacale, all’interno dell’UGTA. Il mio obiettivo, fin dall’ingresso nel sindacato, è sempre stato quello di ottenere una regolamentazione del lavoro egualitaria  per entrambi i sessi, difendere i diritti delle donne lavoratrici e porre fine agli abusi subiti in silenzio per decenni.

J. G. : Qual è la sua posizione all’interno del CNFT?

S. Salhi: La posizione che attualmente ricopro è quella di Presidente della Commissione Nazionale delle Donne Lavoratrici, oltre che membro della Commissione Nazionale dell’Unione Generale dei Lavoratori Algerini. La Commissione Nazionale delle Donne Lavoratrici è nata nel marzo 2002, dopo che il Congresso Nazionale dell’UGTA, tenutosi nell’ottobre 2000, ne aveva stabilito la creazione con una risoluzione votata all’unanimità.
Prima del 2002 esistevano piccole strutture (all’interno dell’UGTA), comitati e coordinazioni di donne sindacaliste sorte spontaneamente nel 1997. Le donne all’interno delle strutture sindacali occupavano ruoli di scarsa responsabilità e dunque occorreva una strategia per conquistare uno spazio autonomo e visibile, per permettere alle donne di accedere a posti di responsabilità all’interno della centrale sindacale. Posti da cui poter lottare più efficacemente contro i problemi di discriminazione a cui le donne lavoratrici ancora oggi devono far fronte.

J. G. : E’ da lei che è nata l’iniziativa di creare la CNFT?

S. Salhi: Eravamo un gruppo. Io non ero che un singolo elemento all’interno di un movimento ben più vasto. Per prima cosa si è creato un gruppo di donne sindacaliste molto combattive ad Algeri. Poi collettivi di donne lavoratrici hanno dato vita a gruppi sindacali sparsi un po’ dappertutto nel territorio algerino, in tutte le wilaya più importanti, per esempio a Sidi Bel Abbès, a Constantine, a Tlemcen, dunque tanto nelle regioni orientali che in quelle occidentali. C’è stato un grande incontro nel febbraio 2000 a cui hanno partecipato le rappresentanti di tutti i collettivi sindacali di donne lavoratrici sorti nell’intero territorio nazionale. In quel momento sono state gettate le fondamenta della nascita della CNFT. La priorità era quella di avere un quadro specifico a difesa delle donne lavoratrici, delle donne che decidono di intraprendere un’azione di sciopero per esempio.

J. G. : Può riassumermi il lavoro della Commissione e risultati ottenuti dal 2002?

S. Salhi: Le nostre campagne come CNFT, ed il sostegno fornito dal sindacato, hanno fatto sì che il governo varasse, nel 2004, una legge che incrimina la discriminazione sessuale nei luoghi di lavoro. Siamo poi riuscite ad aprire un “centro di ascolto”, sostenuto il primo anno dalla Fondazione Frederie Chever. Il centro ha lavorato molto e bene negli ultimi quattro anni, si è preso in carica numerose vittime, le ha assistite, moralmente e materialmente ove possibile, e tuttora sta seguendo alcuni casi, portati in tribunale e arrivati fino alla Corte Suprema.
Il centro di ascolto della CNFT ha innescato una dinamica virtuosa, all’interno della stessa UGTA. Ha sollevato apertamente i gravosi problemi a cui le donne, in ambito lavorativo nel nostro caso, devono ancora far fronte.
Avevamo paura che la nostra campagna fosse mal recepita all’interno della centrale sindacale, venisse additata e stigmatizzata dalla società in generale, ostacolata dagli islamisti e dai conservatori. Tutto questo non è successo, in primo luogo per la correttezza del nostro lavoro, che è andata a denunciare fatti concreti, reali, di situazioni in cui le lavoratrici erano ricattate, letteralmente alla mercé dei datori di lavoro. Inoltre abbiamo cercato di non partire da preconcetti ideologici, che ci avrebbero attirato addosso l’avversità dei gruppi islamisti. Abbiamo sviluppato delle argomentazioni ben ancorate alla realtà, abbiamo avuto il coraggio di svelare all’opinione pubblica la realtà di donne impiegate a contratto temporaneo, specificità che le rende fragili e vulnerabili.
Le assicuro che in un contesto di regressione dei diritti socio-sindacali come quello algerino, la battaglia per le difesa delle donne e della loro uguaglianza nei posti di lavoro non era quanto di più agevole si potesse intraprendere. Abbiamo svelato realtà dove le donne lavoratrici erano continuamente minacciate, persino violentate (almeno psicologicamente), a volte lottando anche contro un certo scetticismo che si respirava all’interno della stessa UGTA. Alla fine però, i militanti sindacalisti hanno capito che la battaglia contro la precarizzazione intrapresa dalla CNFT in difesa dei diritti delle donne lavoratrici era una battaglia ben più vasta che interessava l’intera sopravvivenza della centrale sindacale. Così il sostegno alla nostra lotta si è fatto più intenso.
Tutto il sindacato è minacciato dalla precarizzazione e dalla deregolamentazione, in materia di protezione del lavoratore, che è figlia del nuovo capitalismo globale abbracciato da Bouteflika. All’interno delle imprese private le donne vengono assunte la più parte in nero, e in questo modo la legislazione statale in materia di diritti del lavoratore, egualitaria, può tranquillamente venire elusa e non essere applicata. La nostra lotta è stata assolutamente necessaria per combattere le forme di impiego illegali in cui si vedevano costrette la maggior parte delle lavoratrici algerine.
Purtroppo in questo nuovo anno (2008) il centro ha un po’ rallentato le sue attività a causa della mancanza di fondi. La scarsità di fondi rischia di pregiudicare il lavoro del centro dal momento che le stesse chiamate vengono spesso ricevute in addebito, chiamate che provengono dai cellulari e che hanno un costo notevole, sicuramente gravoso per le casse attuali della CNFT. La Commissione infatti non ha un proprio budget da utilizzare di anno in anno e, pur facendo parte della centrale sindacale, non riceve finanziamenti costanti dall’UGTA. Ci sono poi gli psicologi che lavorano al centro di ascolto e che in qualità di esperti offrono sostegno e conforto alle vittime che si rivolgono a noi.

J. G. : Può chiarirmi la questione del finanziamento del centro di ascolto? Non ho ben capito se provenga dall’UGTA o da qualche altra fonte?

S. Salhi: Il primo anno il centro è stato finanziato dalla Fondation Frederie Chever. Il secondo ed il terzo anno è stato finanziato da una associazione legata ad un sindacato americano, ma da giugno scorso non abbiamo più alcuna fonte di finanziamento.

J. G. : Passiamo ai rapporti tra la CNFT e l’UGTA. Quali sono i legami tra le due organizzazioni?

S. Salhi: La CNFT è una struttura contenuta all’interno dell’UGTA, ma che lavora nella più totale autonomia. Nessun sindacalista UGTA compie ingerenze nei confronti della Commissione. Siamo descritte come uno spazio ultraradicale in confronto all’orientamento attuale della centrale sindacale.

J. Granci: Per quel che concerne l’UGTA, l’allineamento del sindacato sulle posizioni del governo non rappresenta ai suoi occhi di storica militante un tradimento delle sue funzioni originarie, del suo ruolo sindacale?

S. Salhi: No, non la vedo proprio in questo modo. E’ vero che l’UGTA ha molto cambiato le sue modalità operative a partire dal 2003, è vero che ci sono problemi al suo interno, ma non è corretto affermare che l’UGTA non riveste più una funzione sindacale.
Ci sono legami tra la direzione del sindacato e le alte sfere politiche, il nostro segretario è rimasto coinvolto nell’ “affaire Khalifa”, e questi sono elementi che rendono fragile l’intera struttura UGTA. Tuttavia io lavoro all’UGTA e sono contro Bouteflika, sono contro il governo, porto avanti i miei doveri sindacali con diligenza, ho condotto campagne in prima persona, mi sono esposta e sono ancora qui. Non nego una prossimità tra l’UGTA e il potere, la maggior parte dei quadri sindacali sono pilotati dai due partiti al governo, l’FLN e l’RND. Membri di spicco dell’UGTA rivestono contemporaneamente ruoli dirigenziali nei due partiti sopra citati, eppure fanno scioperi contro il governo, formato dai loro stessi partiti. La realtà non è mai semplice come spesso viene dipinta dai media, tuttavia è vero che nelle ultime settimane si è giunti a degli eccessi. Per esempio il sostegno fornito dal segretario generale al terzo mandato di Bouteflika, è un fatto tragico …… drammatico per il sindacato!

J. G. : Torniamo all’attività della CNFT e del centro di ascolto. Le denuncie ricevute provenivano essenzialmente da contesti cittadini?

S. Salhi: In parte ma non solo, anzi le denunce provenivano tanto da contesti urbani quanto da contesti extra-urbani. Tuttavia è vero che coloro che vivono nelle grandi città hanno più facilmente accesso al telefono. Un nuovo fenomeno è quello che ha visto negli ultimi anni molte donne depositare querele presso gli uffici della Gendarmeria Nazionale o della Polizia.

J. G. : Per quale motivo principalmente?

S. Salhi: Nella maggior parte dei casi sono vittime di veri e propri ricatti. Se non sono disposte ad accettare le richieste sessuali degli aguzzini si troveranno ben presto di fronte problemi inattesi e imprevisti, difficoltà sempre crescenti sul posto di lavoro, saranno costrette a lasciare quel posto. Ma nella congiuntura attuale si fa sempre più dura rinunciare ad un lavoro quando si è avuta la fortuna o il merito di averne trovato uno. Così queste donne sono prese in una morsa logorante: rinunciare e trovarsi risucchiate in quel 14% di disoccupati che dichiara il Governo (in realtà la percentuale è ben più alta), oppure cedere al ricatto e alle minacce di chi si trova in una posizione di superiorità e di potere all’interno del luogo di lavoro? Una congiuntura così negativa in termini di occupazione e di tutela del lavoratore non si è mai avuta; non era neanche pensabile negli anni settanta e negli anni ottanta.

J. G. : A proposito di discriminazione e marginalizzazione. Per quanto riguarda il Codice della Famiglia lei, in quanto donna, sindacalista e femminista, ritiene che le ultime leggi e modifiche (apportate nel 2005) siano sufficienti? In altre parole, lei è soddisfatta della legislazione che tutela la donna all’interno del nucleo familiare?

S. Salhi: Le recenti modifiche apportate al Codice delle Famiglia non sono altro che piccoli progressi, piccoli passi nella giusta direzione. Le nuove misure consentono alle donne di difendersi almeno un po’ all’interno del contesto familiare, ma il Codice in sé rimane fortemente discriminatorio e dovrebbe essere abolito.
La donna ora può scegliere il suo tutore, il suo wali, ma è la procedura in sé, la necessità di avere una tutela, un wali, che resta scandalosa. E’ un paradosso dal momento che in Algeria ci sono donne presidenti, donne giudici, donne prefetto e donne ambasciatrici….
Ci sono aspetti positivi, primo fra tutti il Codice è stato desacralizzato (con le modifiche del 2005) e ritengo questo un punto fondamentale da cui potranno scaturire una serie di altre innovazioni. Prima del 2005 persisteva l’idea che il Codice fosse un qualcosa di sacro e immodificabile; il fatto che sia stato emendato ha allontanato dal pensiero comune una tale, falsa supposizione. Il Codice è stato di fatto desacralizzato. Un secondo aspetto da tenere in considerazione è che questo nuovo Codice è riuscito ad incunearsi, almeno un po’, nella modernità, non si parla più di dovuta obbedienza al marito, ma di rispetto mutuale. Tuttavia restano pratiche scandalose come la poligamia, che costituisce un insulto alla donna.
Nel Codice del 2005, pur se resa più complicata e di difficile attuazione, la poligamia è ancora riconosciuta. Spesso le donne non sono informate dai mariti che le mettono di fronte al fatto compiuto una volta sposate e così alla donna non resta che chiedere il divorzio, sempre che il marito sia disposto a concederlo. Restano molti, troppi, punti oscuri che offendono la donna e ledono fortemente i suoi diritti: se la donna lavora il marito può invocare l’attività lavorativa come causa legittima per il divorzio; la custodia dei figli in caso di separazione è affidata al marito, mentre prima della promulgazione del Codice era riservata, salvo casi eccezionali, alla moglie.
Insomma io resto tuttora una oppositrice del Codice, mi batto per la sua abolizione e per l’instaurazione di leggi civili egualitarie, anche se, da sindacalista, guardo con soddisfazione i piccoli, e sottolineo piccoli, miglioramenti innescati dalla riforma. Un sindacalista è pronto ad accogliere avanzamenti graduali, purché continui; di certo l’obiettivo finale resta l’abrogazione.

J. G. : Lei ha parlato di sacralizzazione del Codice della Famiglia algerino. Penso al Codice marocchino, la Moudawwana, sacralizzato dal guardiano supremo della nazione, il Capo dello Stato, il Monarca, persona sacra e inviolabile. In Algeria perché si parla di Codice sacralizzato?

S. Salhi: Semplicemente perché trae inspirazione dalla Shari’a. Dunque dal momento che il Codice, promulgato per  la prima volta nel 1984, trae fondamento dalla Shari’a e dal Corano non deve essere toccato. E’ questa la logica diffusa nella società e il fatto che nel 2005 questo Codice sia stato toccato ed emendato ha costituito una desacralizzazione del testo stesso. Non so se ho risposto in modo soddisfacente alla sua domanda…

J. G. : In parte. In Marocco il Re è il “protettore” della Shari’a e dunque il garante del Codice della Famiglia. In Algeria chi è il “protettore” della Shari’a, lo Stato in toto?

S. Salhi: Lo Stato, certamente. Abbiamo l’articolo 2 della Costituzione che identifica l’islam come religione di Stato, dunque il primo magistrato del Paese, il Presidente della Repubblica, deve vegliare al rispetto della legge religiosa e dei principi che da essa sono scaturiti. Tuttavia ci sono un’infinità di principi enunciati nella Shari’a che le leggi della moderna Algeria hanno deciso di ignorare, per esempio il principio che afferma “al ladro deve essere tagliata la mano”. C’è dunque una selezione dei principi da conservare e quelli a cui si può soprassedere.
L’ingiustizia è proprio in questo, le donne, ogni volta che avanzano le proprie rivendicazioni, che chiedono modifiche ed ammodernamenti delle leggi che le riguardano, si vedono presentare rifiuti e dinieghi in nome della sacralità e dell’intangibilità della Shari’a. Dal punto di vista della Shari’a non sarebbe permesso il prestito ad interesse, ma oggi tutte (eccetto alcune banche arabe) le banche lo praticano; dal punto di vista della Shari’a la schiavitù resta un istituzione ammessa, gli uomini possono possedere altri uomini secondo la legge di Dio, ma le attuali leggi dello Stato, che a quella di Dio si ispirano, non lo permettono. Allora, in questi casi cosa ne è della sacralità della Shari’a? Sono solo le donne che devono rimanere vincolate ai suoi precetti!

J. G. : Come si è arrivati al 1984, alla promulgazione del Codice, dal momento che fino a quel momento non c’era traccia di una simile legislazione? Cosa è successo nella società o…

S. Salhi: Non nella società, è al livello della gestione del potere che bisogna guardare per rispondere a questa domanda. C’erano stati già altri tentativi prima del 1984, tentativi di circoscrivere i diritti delle donne all’interno della famiglia e alla fine si è giunti al compromesso del 1984. Un compromesso tra le forze tradizionaliste e quelle moderniste che reggevano lo Stato, da cui è scaturito il Codice.
A partire dal 1979 le forze femministe di cui facevo parte avevano iniziato a far sentire la propria voce. A livello del potere c’è stata una reazione di chiusura e una volontà di annullamento di tali rivendicazioni. Ci furono molti dibattiti in seno all’Assemblea Popolare Nazionale sulla necessità o meno di un codice della famiglia, ma non ci permisero mai di accedere ai testi di quei dibattiti, ci impedirono di conoscere quale doveva essere il nostro futuro.
Bisogna sapere che nel 1984 ci fu una violenta repressione di tutti i movimenti sociali e politici emersi negli anni precedenti. Approfittando di questa repressione, e dunque della forzata assenza di mobilitazioni, venne promulgato in tutta fretta il Codice della Famiglia. Fu un modo per Boumedienne di riconciliarsi con i conservatori.

J. G. : Nel 1980 ci fu la “Primavera berbera”, l’esplosione di rivendicazioni etniche e sociali, che andavano stroncate sul nascere. E il Codice fu una delle molteplici risposte.

S. Salhi: Sì, assolutamente. Io facevo parte del movimento culturale berbero, molto attivo in quegli anni. Ma molto attive erano pure le donne, e molto attivi erano anche gli islamisti, che criticavano il regime di Boumedienne ed avevano già una loro precisa piattaforma di rivendicazioni. I fondamentalisti erano già presenti all’interno dell’università, dove non era raro si verificassero scontri, tra studenti comunisti e studenti islamisti. Sto parlando della facoltà di Ben Aknoun. A Constantine, per esempio, si sviluppò in quegli anni un forte e precoce movimento fondamentalista.

J. G. : Le prendo ancora qualche minuto. Vorrei un suo parere sulla questione del velo. Lei ha parlato di una società algerina che è in gran parte pronta alla modernità, di donne che hanno volontà di emanciparsi attraverso il lavoro, e la possibilità di avere un proprio spazio. Io ho notato invece un peso ancora opprimente esercitato sulle donne dalle figure maschili, che sia il padre, il fratello o il marito. Per esempio nel caso del foulard.

S. Salhi: La maggior parte delle donne algerine che mette il foulard non lo fa per ostentare una appartenenza ideologica. La maggior parte delle donne lo indossa perché, almeno dal loro punto di vista, è più facile uscire ed avere una propria vita sociale al di fuori della famiglia.
Il velo, idealmente, prolunga la protezione che la famiglia esercita sulla ragazza. Per la famiglia, la copertura offerta dal velo è un fattore protettivo che va a beneficio della donna. Indossare il velo, nella maggior parte dei casi, serve alla donna per avere una maggiore libertà. Tuttavia è anche vero che all’interno della società si sta espandendo un rigurgito di religiosità inquietante. Ci sono circostanze particolari che favoriscono una sorta di ripiegamento identitario: con la prima guerra del Golfo si è assistito al primo di tali fenomeni, in cui molte donne hanno spontaneamente messo il velo, come in una sorta di risposta all’Occidente. Lo stesso tipo di fenomeno si è avuto nel periodo seguente al terremoto, perché vi erano campagne di indottrinamento portate avanti nelle moschee le quali affermavano che il terremoto era un segnale inviato da Dio, una punizione nei confronti di una società che non osservava in maniera ferrea i principi religiosi. Bisognava essere dei buoni musulmani per sfuggire ai castighi di Dio e la società algerina, dove permangono molti non praticanti, sfiorava l’empietà.

J. G. : E portare il velo significa essere dei buoni musulmani?

S. Salhi: Sì, è anche questo il valore che viene attribuito a tale gesto. E’ anche una facilitazione verso il matrimonio. Un uomo è rassicurato sulla purezza della donna se questa indossa il velo per uscire di casa.

J. G. : E’ più corretto parlare di fenomeno sociale o di semplice imposizione?

S. Salhi: Penso sia più un fenomeno sociale frutto di una molteplicità di cause.

J. G. : Frutto anche di una congiuntura internazionale che favorisce l’attaccamento e la riscoperta degli emblemi identitari, veri o falsi che siano. Come lei ha detto poc’anzi il fenomeno è iniziato nei primissimi anni novanta; tale fenomeno si è radicato ancor più con la reazione americana all’11 settembre? La logica di scontro, scontro di civiltà, di culture etc.. che ci viene imposta ha giocato un ruolo primario?

S. Salhi: Si, in gran parte è frutto della logica di scontro in cui siamo stati catapultati. Mettere il velo serve per riaffermare un’identità che viene ritenuta in pericolo. Ma bisogna mettere in luce che la maggior parte delle recenti velate non sono affatto praticanti o legate ad altre pratiche e valori che la religione impone. Quello che ho constatato è che le donne, pur velate, escono ed accedono a luoghi rimasti per lungo tempo inaccessibili; vanno nei bar e nei ristoranti (almeno ad Algeri e nelle grandi città), vanno in spiaggia e fanno il bagno, anche se coperte. Negli anni settanta, ottanta e novanta le donne non facevano il bagno, accompagnavano il marito ed i figli alla spiaggia ma al massimo si bagnavano i piedi. Ora si immergono, vestite, velate, ma si immergono. Famiglie intere che escono la sera per andare al ristorante, per andare a mangiare brochettes, questo è un fenomeno nuovo, non c’era prima in Algeria.

J. G. : E’ possibile parlare di “moda del foulard”?

S. Salhi: Sì, certo. In Algeria ultimamente si sta diffondendo la moda del velo alla maniera orientale, portato su magliettine e pantaloni attillati, e non sulla veste tradizionale, la djellaba. Le ragazze velate spesso sono ben truccate, alla libanese diciamo noi. Quando metti il foulard non puoi truccarti il viso, è contraddittorio! E’ per questo che io ho detto prima, attenzione il fenomeno del velo non è emblematico di una riscoperta dell’ideologia islamista o integralista. Non è così semplice il discorso. Assistiamo ad un fenomeno di “velatura svelata”, in arabo hijab mutabarridj. Mutabarridja è la donna che non mette il velo, che si veste all’occidentale.

Algeri, 18 marzo 2008

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