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giovedì 12 novembre 2009

Voci d'Algeria. Waciny Laredj (2)

(Torna all'inizio dell'intervista)

J. G. : Parliamo del contesto storico, politico e sociale in cui il suo Don Chisciotte si ritrova una volta approdato ad Algeri. La guardienne des ombres (Don Chisciotte ad Algeri nella traduzione italiana), come pure Le miroir de l’aveugle, è  un’opera ambientata nell’Algeria dei primi anni novanta, l’Algeria delle violenze e della crescita del fenomeno islamista. Per spiegare la difficoltà, la paura, la rabbia e la tensione vissuta in quegli anni lei ha parlato di “esilio psicologico” prima ancora che di “esilio fisico”. Mi corregga se queste affermazioni non sono esatte.


W. L. : Sono esatte.


J. G. : L’esilio. E’ questo il cammino intrapreso da molti intellettuali e letterati algerini finiti nelle liste nere degli islamisti. Ma cosa ha significato precisamente per lei vivere in una condizione di “esilio psicologico” e quale situazione si è trovato personalmente a fronteggiare, da letterato, intellettuale e da libero pensatore negli anni che hanno preceduto la sua partenza dall’Algeria?



W. L. : In merito a Don Chisciotte ad Algeri, per esempio, fin dalle prime pagine si incontra un personaggio che sta scrivendo a macchina, in solitudine. Questa è una forma di “esilio psicologico”. Il personaggio non ha più la lingua, mozzata da misteriosi personaggi barbuti, come pure altre parti del corpo. L’unica possibilità che gli resta per esprimersi e far conoscere la sua storia è quella di scrivere. Non è una questione di autobiografia, ma almeno sul piano simbolico sì, in questo episodio, in questa condizione si può leggere un forte richiamo a quello io ho vissuto e che io intendo per esilio psicologico.

Quando si è attivi e intraprendenti all’interno della vita culturale ed intellettuale di una città, ci sono dinamiche quotidiane che si creano, con gli amici, gli studenti, la famiglia e che si svolgono in spazi ben determinati. Ad un tratto ci si trova costretti ad abbandonare queste abitudini, se ne viene separati in maniera forzata, dal momento che se si continua a frequentare il tal bar o il tal ristorante o si continua ad andare all’università non curanti delle minacce e degli avvisi di morte ricevuti c’è il rischio che si venga uccisi.

Nel mio caso il rischio era enorme, il mio nome era finito nelle liste nere, e rinunciare alla mia quotidianità e al mio abituale modo di vivere mi era sembrata l’unica soluzione per uscire indenne da quella situazione. Una volta presa questa decisione ho scoperto che quella in cui mi ritrovavo a vivere era un’altra vita, un’esistenza parallela alla quale non ero preparato. Parlo della mia condizione, del mio caso personale. Non ero assolutamente preparato ad affrontare questo “esilio”. Conducevo un’esistenza totalmente differente, facevo parte dell’Unione degli scrittori, un’associazione che animava serate culturali, serate letterarie, musicali, incontri tra scrittori di diverse generazioni, c’era insomma un buon fermento culturale, un movimento solido nella città, che resisteva nonostante le prime difficoltà, che continuava ad esistere e lavorare, pubblicando libri e facendo altre cose.

Poi di colpo tutto questo è scomparso. La nostra vita sociale è stata cancellata in poco tempo dall’aumento delle violenze, dalle prime esecuzioni mirate, dalle minacce e dalle prime partenze. Sono stato sottratto al mio spazio naturale, uno spazio di cui avevo profondamente bisogno per continuare ad esistere. Ho dovuto cambiare casa, cercando asilo e ospitalità dalle persone più vicine, ben sapendo però di mettere a rischio in questo modo anche la loro vita. Se una sera, rientrando a casa di un amico che mi concedeva ospitalità, mi avessero seguito, avrebbero ucciso certamente me, ma di sicuro anche il mio amico. Bisognava dunque pensare a se stessi, ma allo stesso tempo anche a quelli che più o meno direttamente venivano coinvolti. In questi casi è naturale cadere dentro un ingranaggio psicologico opprimente e  ritrovarsi a vivere questa condizione di autoesclusione in solitudine.

Il primo passo è scegliere un rifugio. Io ero ospitato da un amico regista, dove sono rimasto più o meno un anno senza fare quasi niente, una condizione terribile per una persona dinamica quale ero. Ogni spostamento lo facevo in macchina, non camminavo mai per strada. Per me era inaccettabile, non potevo sopportare tanto. Ci ho provato per un periodo, ho tenuto duro, ma poi ho detto basta, se avessi continuato in quel modo sarei di certo impazzito.

L’unica ancora di salvataggio in quei mesi è stata la scrittura. Per fortuna, seppur recluso, potevo ancora scrivere. Non mi stanco mai di ripetere che se ho potuto evitare la follia e la morte, se sono sopravvissuto all’esilio psicologico, è stato solo grazie alla scrittura. La scrittura mi forniva l’occasione di riflettere ed ha rappresentato un vero e proprio spazio di evasione. Me ne stavo seduto sul bordo del mare, dal mattino fino alla sera. La casa del mio amico era lungo la spiaggia, ed era sufficiente aprire la finestra della camera per perdersi con i pensieri tra le onde ed evadere, anche solo con la mente, da quella condizione. Almeno questo aspetto era magnifico: ogni mattina, quando mi svegliavo, potevo vedere il sole splendere, e poi al tramonto potevo osservare i colori del mare mutare lentamente, il blu dell’acqua divenire sempre più scuro ed intenso. Vedendo questo spettacolo mi ripetevo: “Non arriveranno mai – parlo degli islamisti – a cambiare il colore del sole e il colore del mare, questi colori resteranno là e niente diventerà nero”. E’ partendo da queste considerazioni che ho deciso di lottare e di resistere, aggrappandomi ad elementi semplici, simbolici.

In quel momento bisognava pur restare attaccati a qualche cosa per non sprofondare ed io mi sono aggrappato ai colori, alla bellezza della loro luminosità e della loro varietà, per arrivare a dire che la vita non poteva e non doveva finir lì, che c’era ancora una vita, una vita bella che meritava di essere vissuta. Così ho cominciato a scrivere e il primo romanzo, diciamo di reazione a tutto questo, è stato La guardienne des ombres. Anzi no è stato il secondo, il primo si chiama Les ailes de la reine, e sta per essere pubblicato in Francia da Acte Sud. Quando ho scritto questo libro era appena iniziato il periodo degli omicidi mirati alla classe intellettuale, era la fase di crescita iniziale vissuta dall’integralismo, gli anni ’90 e ’91, dove l’integralismo era visibile, ma non era ancora arrivato alla fase di massimo sviluppo. Percepivo il grande pericolo che il Paese iniziava a correre e il romanzo riflette queste mie premonizioni.

L’esilio psicologico in cui ho vissuto i mesi che hanno preceduto la partenza da Algeri sfiorava la follia. Ero ad un passo dalla pazzia e per fortuna ho trovato nella letteratura la forza che mi ha salvato la vita. Altre persone non hanno avuto questa fortuna, o questa forza, e si sono suicidate. Un mio caro amico, anche lui scrittore, si è gettato dal ponte di Tlemli, episodio che ho poi ripreso nel romanzo Les ailes de la reine. Molti altri hanno visto il loro matrimonio distruggersi, sgretolarsi sotto le pressioni a cui una vita del genere li aveva condotti.

Ad un certo punto ho iniziato a credere che questo esilio doveva avere una spiegazione. Dal momento che si era materializzato, inatteso, nella mia vita, doveva condurmi da qualche parte. E così, mentre in un primo tempo avevo tentato di resistere, dopo un po’ ho deciso di trasferire i materiali di scena, per usare una metafora strappata al teatro, a Parigi, sfruttando un invito della Scuola Normale Superiore. Pensavo che la fuga in Francia fosse solo una soluzione temporanea, per tre o quattro mesi al massimo. Mi ripetevo questo ogni giorno. Poi la provvisorietà che aveva accompagnato il mio insediamento a Parigi si è lentamente trasformata in una condizione di stabilità. Ero partito per tre mesi e invece sono rimasto alla Scuola Normale Superiore per un semestre, dopodiché ho ricevuto un invito dalla Sorbona, dove sono rimasto un anno, e dopo ancora un altro invito dall’Università Parigi VIII, dove ho lavorato due anni. Alla fine mi sono ritrovato con un posto fisso alla Nuova Sorbona, Parigi III, ma sempre restando in una sorta di stabilità provvisoria.

Sta di fatto che dopo quindici anni mi sono accorto che la mia sistemazione aveva ormai ben poco di provvisorio. Ero partito a quarant’anni ed ora ne ho cinquantaquattro. Ero partito con i capelli neri ed ora sono bianchi. Ero partito con due bambini piccoli ed ora sono diventati adulti. Le cose sono cambiate, l’esilio da psicologico possiamo ora definirlo fisico, anche se io sono sempre rimasto attaccato all’idea di un possibile ritorno, di un ritorno definitivo (in tutti questi anni ho avuto comunque la possibilità di rientrare ad Algeri per brevi periodi).

La possibilità di andare e venire, di vivere in Francia ma di continuare parallelamente la mia attività didattica all’Università di Algeri ha addolcito almeno un po’ questa nuova condizione di esilio in cui mi sono ritrovato, ancora una volta, in maniera inaspettata. Mi sono comunque detto: “posso ancora essere utile al mio Paese, seppur in questa condizione”. E in questo il Ministero mi ha aiutato, bisogna riconoscerlo. Mi ha conservato il posto all’università, chiedendomi solamente una disponibilità parziale.


J. G. : Può spiegarmi meglio la posizione assunta dal Ministero in quegli anni rispetto al suo caso specifico?


W. L. : Quando il mio nome finì nella lista nera delle persone che dovevano essere uccise, parliamo degli anni ’93 e ’94, fu la polizia a scoprirlo. La polizia venne all’università, per avvisarmi del grave pericolo che stavo correndo. Ci fu subito un incontro tra il rettore e il commissario, a seguito del quale mi venne ufficialmente notificata la mia situazione di pericolo. Feci un primo incontro con il rettore, poi un secondo con la polizia, dove scoprii che anche mia moglie, poetessa, era presente nella stessa lista. La polizia mi disse di fare attenzione, ma proprio questo era il nodo fondamentale e privo di soluzione, dal mio punto di vista: cosa voleva dire “fare attenzione”? Io ero un insegnante e per guadagnarmi da vivere dovevo continuare la mia attività, continuare ad andare all’università ogni giorno, insomma continuare la mia routine che era fatta di spostamenti, lezioni e contatto con le persone.

Allora fu l’università a prendere in mano la situazione: mancavano sei mesi alla fine dell’anno accademico ed il rettore mi propose di congelare gli ultimi mesi di corsi. Avrei conservato il mio stipendio pur non recandomi più all’università fino alla fine dell’anno. Nello stesso periodo ricevetti però l’invito dalla Scuola Normale Superiore di Parigi e in tal modo mi ritrovai in aspettativa ad Algeri, con la concreta possibilità di accettare l’invito da Parigi. Così decisi di partire, rimanendo però consapevolmente vincolato all’Università di Algeri. Dopo quei primi sei mesi decisi di chiedere un periodo di aspettativa più lungo, di tre anni, ma questa volta senza retribuzione. In un primo momento questa mia proposta fu accettata, ma dopo fui contattato dal ministero, che si trovava di fronte a decine e decine di casi simili al mio. Il ministero mi fece una controproposta: era disposto a mantenere il mio contratto e il mio stipendio, se solo avessi concesso la mia disponibilità ad aiutare gli studenti e continuare una collaborazione, anche a distanza, con l’università. Ho accettato, per questo conservo ancora oggi il mio posto ad Algeri, e per questo il mio legame con la città e con la sua gente è ancora così solido.


J. G. : Abbiamo parlato di “esilio psicologico” e di “esilio fisico” ma, e perdoni se insisto ancora su questo punto, vorrei sapere se lei, in quegli anni che precedettero la sua partenza, ha mai ricevuto minacce e intimidazioni dirette.


W. L. : Certamente. Ero professore universitario e dunque lavoravo in un luogo pubblico. Avevo una cassetta per la posta e le comunicazioni interne, come tutti i professori, ed ogni mattina ci trovavo dentro una lettera di minacce e insulti. A parte questo ricevevo lettere del genere anche a casa, sorvegliata costantemente dal momento in cui scoprirono il mio nome nella lista. Un giorno arrestarono una persona armata che si aggirava intorno alla mia abitazione, e se non ero io l’obiettivo di quell’uomo, era sicuramente qualcuno tra i miei vicini, anch’essi nel mirino degli islamisti.

Quando la polizia iniziò ad informarmi sui movimenti che registravano quotidianamente nel mio quartiere, i pericoli che correvo semplicemente nel rimanere in casa, allora iniziai a prendere la cosa sul serio e decisi di trasferirmi segretamente dal mio amico regista. Mi trovavo di fronte ad una scelta di questo tipo: potevo rimanere nella mia abitazione, facilitando in questo modo il compito di coloro che volevano uccidermi, o cambiare le mie abitudini e dare del filo da torcere ai miei persecutori. Ebbene io mi dissi in quella situazione: “alla fine potrò anche essere ucciso, potrò cadere in un’imboscata, ma di certo dovranno faticare per raggiungere il loro scopo”. Non mi sembrava giusto arrendersi senza prima lottare, consegnarsi passivamente al proprio tragico destino.

D’altra parte non era facile lottare in quella situazione di incertezza e instabilità, doversi confrontare con gente decisa ad ucciderti e ben armata, senza aver nulla con cui difendersi. Ci tengo a sottolineare che ho sempre avuto paura delle armi, e le ho sempre rifiutate. Tuttavia bisognava pur fare qualcosa, prendere almeno delle precauzioni. Il primo passo da compiere era cambiare domicilio, e lo feci. Bisognava comportarsi da persone estremamente razionali, cosa non facile per un artista o un intellettuale; cambiare le proprie abitudini, abbandonare, per esempio, le consuetudini e le piccole cose che avevano abbellito la mia esistenza fino a quel momento per non facilitare la caccia degli islamisti.

Presi consapevolezza assoluta di ciò nel momento in cui uccisero l’amico Tahar Djaout, anche lui scrittore. Tahar Djaout è stato assassinato una mattina, e deve sapere che la sera prima l’avevamo passata assieme in un bar di fronte all’università. Era solito venire a trovarmi a fine giornata, ci sedevamo un momento per chiacchierare beatamente come si fa tra amici. Quella sera parlammo di un romanzo di Mimouni, me lo ricordo bene, Les fleurs detournés. Tahar lavorava in un giornale, Rupture, e mi aveva proposto di scrivere assieme a lui un articolo ogni settimana, in una rubrica chiamata “Mon metier d’ecrivain”. In questi articoli bisognava parlare di tutto tranne che della professione di scrittore, Tahar era stato chiaro: “Bisogna scrivere su tutto, ma non su quello che riguarda la scrittura e i dettagli del nostro mestiere”. Quella sera gli dissi di voler scrivere qualcosa sugli uccelli, scherzando chiaramente. Non avevo affatto l’intenzione di farlo. Ma il mattino seguente Tahar fu assassinato ed io scrissi un articolo intitolato “Les oiseaux ne se cachent pas pour mourir”, un articolo che non parlava di uccelli, bensì dell’amico ucciso. Questo per dirle che la situazione era terribilmente tragica, ma Tahar non voleva prenderla troppo sul serio, era solito dire: “Questa situazione in realtà non ci riguarda, è una battaglia tra gli islamisti e il potere, noi siamo solo degli obiettivi secondari, di passaggio”. Pensavo si sbagliasse e purtroppo ne ebbi ben presto la conferma. Così, dal momento in cui Tahar Djaout venne assassinato, iniziai a prendere la situazione, le minacce, le intimidazioni e il resto, terribilmente sul serio.


J. G. : Se non mi sbaglio questo episodio l’ha citato in un breve racconto, raccolto e pubblicato in Italia da Giuliana Sgrena per Manifestolibri.


W. L. : Sì, il racconto si intitola “Vita quotidiana di uno scrittore”. In quelle pagine ho descritto la vita quotidiana di uno scrittore algerino nei primi anni novanta. Ho raccontato una mia giornata tipo, dalla mattina, al momento in cui uscivo di casa, fino al rientro, prima del tramonto del sole. Avevo sempre una gabardina bianca e, varcata la soglia di casa, mettevo la mano in tasca in questo modo (simulando la postura di un’arma già impugnata e pronta a far fuoco). Era come se volessi dare un segnale alla persona che mi attendeva con gran voglia di uccidermi, era come se gli dicessi: “Pensaci bene perché anch’io sono armato e non ti sarà facile spuntarla”. Erano gesti folli, dettati quasi dalla disperazione e dall’impotenza che sentivo pesarmi addosso sempre di più. Come quello di controllare sotto la macchina ogni volta prima di salire ed accendere il motore. Questi gesti, che mi sembrano ora chiaramente il prodotto di una sintomatologia depressiva, in una condizione normale non li avrei mai fatti. Erano gesti folli, certo, ma gesti, ripensandoci a posteriori, forse salvatori, gesti che forse mi hanno permesso di continuare a vivere.

E poi c’era mia figlia. La sua presenza rendeva questa situazione ancora più insostenibile. E’ stato pensando a lei che ho preso concretamente la decisione di lasciare il Paese. Aveva otto o nove anni e adorava le sue bambole, regali provenienti da tutte le parti del mondo, ci giocava continuamente e non vedeva che quelle. Insomma era una bambina spensierata come è giusto esserlo alla sua età. Di colpo, nel momento in cui gli islamisti hanno iniziato ad uccidere gli intellettuali, in gran parte amici o comunque conoscenti, ha iniziato a parlare solamente di questi omicidi. Per me fu uno shock, mia figlia non era abituata a questi discorsi. Ma lei capiva, si rendeva conto che le persone uccise erano dei nostri amici, gente con cui trascorrevamo del tempo assieme e che venivano in casa a farci visita.

Il caso di Tahar Djaout fu a questo proposito ancor più drammatico. Tahar era molto legato a mia figlia, giocavano e scherzavano assieme ogni volta che se ne presentava l’occasione; mia figlia poi scriveva piccole poesie che leggeva soltanto a Tahar. Quando cominciarono gli omicidi lei prese un piccolo quaderno e cominciò a scrivere: oggi hanno assassinato il tale, oggi hanno assassinato il tal altro, e così via. Prendeva i giornali per documentarsi sulla vita delle persone uccise, dal momento che nei giornali, a fianco all’articolo di cronaca, veniva brevemente riassunta la vita della persona uccisa, in questo caso degli scrittori o degli intellettuali vittime della violenza islamista.

Mi sono reso conto che mia figlia era passata rapidamente dall’infanzia all’età adulta, una età che non era affatto quella anagrafica; dimostrava una maturità che non era normale per una bambina di nove anni. Mi riferisco al suo modo di pensare, di riflettere, di confrontarsi con la realtà che la stava circondando: temevo che tutto questo potesse farla impazzire e così presi la decisione di partire, di allontanarmi fisicamente da quel contesto, che stava coinvolgendo e distruggendo l’intera famiglia. Abbiamo trascorso un anno negli Stati Uniti, io mia moglie ed i miei figli, e là Rym, così si chiama la bambina, ha ripreso in mano quanto scritto negli ultimi mesi trascorsi in Algeria facendone un libro, Le signeur de centre, pubblicato in Francia. In questo testo mia figlia racconta la sua vita quotidiana in quel periodo, quello che succedeva in casa quando né io né sua madre c’eravamo, quando giocava con suo fratello, i momenti in cui controllava fuori dalla finestra, l’ansia con cui attendeva ogni giorno il nostro ritorno. Molti di questi aspetti mi erano sfuggiti e li ho scoperti solo leggendo il libro.

I miei figli erano cresciuti in un ambiente intriso di cultura, uno spazio intellettuale fecondo, fatto di incontri tra scrittori, lunghe chiacchierate tra accademici, insomma avevano maturato una capacità di analisi e di riflessione di cui io stesso facevo fatica a rendermi conto. I miei figli, in questo caso soprattutto mia figlia, non erano più quei bambini che la loro giovanissima età faceva credere. Avuto sentore di ciò ho preso la decisione di partire. Mi trovavo di fronte ad una scelta, rischiare di perdere me stesso ed i miei figli, oppure partire, lasciare il Paese ed in questo modo salvare la mia famiglia, offrendo ai miei figli ben altro che il macabro spettacolo della morte ripetuto costantemente ogni giorno.


J. G. : Perché, secondo lei, la classe intellettuale fu la prima e la più colpita dalla violenza islamista?


W. L. : Prima di tutto bisogna specificare che non fu l’intera classe intellettuale ad essere colpita dalle violenze. Possiamo dire che la classe intellettuale si divise in due, una parte che prese posizione contro l’ideologia sostenuta dal FIS prima e dalle milizie islamiche poi, la parte a cui appartenevo, e un’altra parte che l’appoggiava. La parte degli oppositori aveva al suo interno scrittori tanto arabofoni quanto francofoni. Chi sostiene che furono colpiti soltanto gli scrittori francofoni sbaglia e non conosce la realtà delle cose. C’erano francofoni che sostenevano addirittura gli islamisti, non era un semplice problema di lingua, ma della presa  di coscienza che poi si esprimeva attraverso la lingua. La lingua non è fondamentalista in sé, ma fondamentalista può essere l’uso che ne viene fatto.  La lingua è solo uno strumento, come tale può essere utilizzato in un senso o nell’altro. Chi si opponeva all’islamismo, sia che utilizzasse la lingua francese sia che utilizzasse quella araba, correva il rischio di essere ucciso. Hanno ucciso Abdelkader Halula, uno tra i più grandi uomini di teatro algerini, che scriveva le sue opere in arabo; hanno ucciso il giornalista Barti Benhauda, specialista di Derrida e ottimo traduttore, anche lui arabofono; e poi Tahar Djaout e altri scrittori. Non era dunque una scelta di lingua; il fattore linguistico era secondario, la realtà delle cose era ben più complessa. Tutti quelli che si opponevano, tutti quelli che capivano la pericolosità di questa ideologia erano bersagli da abbattere. E non era solo agli islamisti che queste persone davano fastidio, erano scomode anche al potere.

Bisogna fare attenzione perché nella scelta di opporsi all’islamismo non significa che queste persone sostenessero la strategia del potere istituzionale, tutt’altro. Erano contrari all’islamismo, ma allo stesso tempo erano contrari alla logica operativa dei militari e al sistema di potere che gestiva l’Algeria da decenni. Se prendiamo Tahar Djaout come esempio, o Barti Benhauda, scopriamo che stavano portando avanti una campagna di sensibilizzazione di certo anti-islamista, ma fondamentalmente ed essenzialmente anti-sistema. Attribuivano al potere la responsabilità della nascita del FIS e della forza raggiunta dal partito di Madani e Belhadj alla fine degli anni ottanta. Le ingiustizie, il clientelismo, la perpetuazione di un sistema corrotto, tutto questo ha favorito l’emergere di una forza di rottura quale si rivelò il FIS. Gli intellettuali occupavano un posto nella società estremamente fragile, non potendosi appoggiare né sulla forza del potere istituzionale, né sulla forza della rete islamista; erano isolati, bersagli facili e il numero delle esecuzioni lo testimonia. Entrambe le parti, il potere e le milizie islamiche, ne hanno beneficiato.


J. G. : La domanda che volevo farle è proprio questa. La responsabilità degli omicidi e delle esecuzioni attuate in quegli anni vanno attribuite interamente agli islamisti oppure ci fu una sorta di complicità del governo, o meglio di quello che ne restava, che non ha saputo o non ha voluto proteggere le menti pensanti germogliate all’interno del Paese?


W. L.: La logica con cui ha agito il potere è stata proprio questa, e non deve stupire. Il rapporto tra governanti ed intellettuali è sempre stato conflittuale, ma non solamente in Algeria, direi in tutto il mondo. Perché? Perché l’intellettuale è una persona libera, non è attaccata ad interessi visibili, a logiche di potere o di guadagno, non è, o almeno non dovrebbe essere, pronto a vendersi al migliore offerente. Sto parlando di un pensatore libero, una figura che troverà sicuramente anche in Italia, in Francia e nel resto del mondo, una persona che è pronta ad emergere dalla società per dire basta, per denunciare il malfunzionamento delle istituzioni, per opporsi alle strategie dei governanti. Nei Paesi europei questo tipo di persona non è sola, c’è una sorta di protezione sociale nei confronti di questa categoria, una protezione garantita da un sistema di diritti e di tutele universalmente riconosciuti. In Algeria, soprattutto negli anni novanta, non c’era questo sistema di protezione e di garanzie, o ci si schierava con il potere o ci si schierava con gli islamisti e chi rimaneva fuori era praticamente isolato, vulnerabile, ed era considerato un nemico tanto dall’una quanto dall’altra parte.

Gli intellettuali si trovarono esattamente in questa posizione. Non nego che l’islamismo in sé, come ideologia e come pensiero, alimentava una logica di eliminazione nei confronti di tutto quello che era differente, altro, al di fuori dei suoi valori, questo è chiaro. Ma questa situazione ha giovato anche al potere, che ha trovato qualcuno che facesse il lavoro sporco al posto suo, qualcuno che poi poteva addirittura condannare e da cui poteva legittimamente prendere le distanze. Quindi, per me, anche lo Stato fu colpevole, certamente. Avrebbe dovuto preoccuparsi di preservare le migliori menti d’Algeria, invece che facilitarne la scomparsa o la fuga. Era compito del potere, del governo trovare una soluzione e proteggere questa categoria, divenuta ben presto il bersaglio privilegiato delle violenze. Decine, anzi centinaia di menti pensanti, di professionisti, ingegneri, dottori, insegnanti hanno lasciato il Paese in fretta, hanno scelto l’esilio, di fronte all’unica concreta alternativa che l’Algeria gli offriva, ossia la prospettiva di venir uccisi.

Bisogna pur chiedersi, perché? Non era certo la bellezza di Parigi o di qualunque altra città ad attirarli, la realtà dell’esilio è dura, è difficile, non stiamo parlando di una vacanza. Io ho lasciato il Paese ben sapendo che avevo comunque un lavoro ad attendermi a Parigi, altrimenti non sarei mai partito. Ma alcuni amici hanno lasciato il Paese in tutt’altre condizioni, senza una prospettiva lavorativa, senza un sostegno economico per vivere. E furono centinaia a prendere questa decisione in tali disastrose condizioni. Penso che avrebbero preferito di certo restare in Algeria, a casa propria, con il conforto di una stabilità e di una sicurezza economica che non hanno più ritrovato. Ma non c’era un’alternativa reale, il potere li aveva abbandonati a se stessi.

Come ci si poteva difendere di fronte ad una milizia armata che aveva una ampia libertà di azione e di movimento nella stessa Algeri? Lo Stato era assente, la polizia era impotente, il sistema intero voltò le spalle alle sue menti migliori, ad intere generazioni che esso stesso aveva contribuito a formare durante gli anni settanta ed i primi anni ottanta. Quella che ci trovammo a fronteggiare era una armata paramilitare in piena regola, ma non avevamo gli strumenti per opporci né tantomeno il sostegno di chi quegli strumenti ce li aveva. Lo Stato non aveva nessuna strategia di difesa e di preservazione della classe intellettuale. Obiettivamente, non aveva interesse a farlo.


J. G. : Secondo lei lo Stato ha approfittato di questa situazione di violenze ed instabilità per regolare vecchi conti lasciati in sospeso?


W. L. : Non so se questo atteggiamento delle istituzioni fu premeditato. Di fatto lo Stato non esisteva più; solo le strutture militari continuarono ad esistere, e perché no a rafforzarsi in quegli anni, mentre le istituzioni statali e governative persero ogni capacità di azione. Ripeto e sottolineo con forza: questa situazione ha giovato al sistema, al sistema che aveva mantenuto la gestione del potere nel Paese fin dall’indipendenza. Gli omicidi dei letterati, degli intellettuali e dei giornalisti scomodi non hanno indebolito o intaccato il blocco monolitico al potere, tutt’altro. E in questo sono categorico.

Dire che tutto questo fu premeditato, che fu una strategia pensata e prevista con largo anticipo, non saprei e non ho gli strumenti per affermarlo con certezza. Ma con certezza so che l’islamismo non faceva regali, non li ha mai fatti, nemmeno in altri contesti, come quello egiziano e quello marocchino. Il primo nemico di questa ideologia è per definizione l’intellettuale, pensatore libero e per questo incontrollabile: ne abbiamo prova fin dagli anni venti. Non mi stupiscono quindi né la modalità di azione né gli obiettivi degli islamisti, che anche in Algeria volevano arrivare ad uno Stato confessionale islamico. Ciò che non mi spiego è la modalità con cui il potere scelse di fronteggiare il fenomeno, le sue rinunce e le sue mancanze. Quello che è successo dietro il sipario resta ancora oscuro e alimenta tuttora forti dubbi.


J. G. : “Il silenzio è complice. La paura non può rendere tutti muti”. E’ Hsissen che parla, protagonista di Don Chisciotte ad Algeri. Mi rivolgo ora al Waciny Laredj giornalista: quali erano le condizioni di vita e di lavoro a cui erano costretti quei giornalisti che non accettavano il silenzio nell’Algeria degli anni novanta?


W. L. : Prima di tutto voglio mettere in chiaro che se resta qualcosa di democratico oggi in Algeria, quel qualcosa è il giornalismo, il giornalismo scritto, che non è sotto il controllo diretto dello Stato. Proprio negli anni novanta, infatti, venne data la possibilità a molti giornalisti che lavoravano nell’organo di partito dell’FLN, El Moudjahid, di fondare nuovi giornali. Era un modo per zittire una categoria potenzialmente fastidiosa e portarla silenziosamente al fallimento, dal momento che le condizioni oggettive per creare nuove edizioni erano difficili ed il sistema informativo e giornalistico in sé non era affatto sviluppato nel Paese. C’erano due giornali nazionali, El Moudjahid e Shaab, e il discorso che il governo fece nei primi anni novanta fu più o meno questo: “Se volete fondare nuovi giornali vi daremo un po’ di soldi, vi assicureremo lo stipendio per tre anni e vi concederemo delle facilitazioni per accedere al credito bancario”. El Watan è nato grazie a questa possibilità, El Khabar lo stesso e così quasi tutti i giornali arabofoni e francofoni che ancora oggi troviamo in edicola.

Questi giornali oggi restano l’unica vera forza di cui dispone la società algerina per poter aspirare ad una certa libertà. La televisione di Stato invece è tuttora gestita dagli uomini di Bouteflika, e identica situazione stanno vivendo i canali radio. Il sistema informativo è di fatto gestito dallo Stato, e il giornalismo scritto resta il solo spazio in cui è assicurata una certa libertà di espressione. Una libertà che i giornalisti avevano saputo sfruttare fin dall’inizio, nei primi anni novanta, ritrovandosi così in breve tempo sotto un continuo e molteplice stato di minaccia. Ma hanno resistito, hanno continuato il loro lavoro, svolgendolo bene, ed è grazie a loro che ancora oggi possiamo godere di questo spazio di libertà, che nemmeno i governi succedutisi dal ’96 fino ad ora sono riusciti ad intaccare. Reprimere oggi i giornalisti e limitare il raggio di azione di questa categoria mi sembra un’opzione improbabile, dal momento che un’azione del genere riceverebbe subito un’enorme visibilità, anche internazionale, compromettendo il cammino di ritorno alla normalità democratica promosso e sbandierato dalle stesse autorità.

Durante gli anni novanta i giornalisti più zelanti furono ben presto inseriti nelle liste nere che gli islamisti facevano circolare nelle moschee, e, come si potrà immaginare, lo Stato, o meglio il sistema, non si affaticò affatto a proteggerli. Ma nonostante le intimidazioni, nonostante gli omicidi, continuarono la loro battaglia per la libera informazione e riuscirono a salvaguardare questo spazio di libertà fino alla fine degli anni novanta e via via fino ad oggi.


J. G. : Quindi possiamo affermare che oggi, per quel che riguarda il giornalismo su carta stampata, in Algeria siamo di fronte ad una condizione di libera informazione e che le radici di questa libertà vanno ricercate negli stessi anni novanta, quando nacquero la gran parte dei giornali?


W. L. : Sì, almeno questo è il mio parere. Perché se il pluralismo informativo indipendente non si fosse radicato profondamente all’interno della società algerina degli anni novanta, diventando una acquisizione di fatto irrinunciabile, io non so davvero a quale scenario ci troveremmo di fronte oggi. Forse ci sarebbero solo i giornali controllati dal potere, El Mudjahid e Shaab, o al limite altri giornali impostati sulle stesse basi e dunque sotto lo stesso rigido controllo. El Watan, El Khabar, El Shuruq, Le Quotidien d’Oran e le altre testate francofone hanno il coraggio e la forza di portare avanti critiche molto coraggiose, contro il sistema e contro il governo stesso. Nei due giornali di regime non avremmo mai potuto leggere questo genere di critiche e di attacchi, e ciò rende prezioso il lavoro svolto dai giornalisti liberi negli ultimi venti anni, a livello pratico e concreto ma anche a livello simbolico. I quattro o cinque canali visibili in televisione, invece, sono uno la fotocopia dell’altro e tutti la fotocopia di ENTV, lo storico canale di Stato e quindi di regime. Se i giornalisti non avessero avuto questa forza, oggi, per quel che riguarda la stampa, ci troveremmo nella stessa identica situazione.

Per esempio, io scrivo un articolo ogni giovedì, in una rubrica di El Watan che ho chiamato “Diaspora”. Mi pongo ogni volta in un modo molto critico e la scelta stessa del termine, “diaspora”, ha una forte valenza polemica. Utilizzo questo termine per indicare quel gruppo di intellettuali che fu costretto a lasciare il proprio Paese e trasferirsi altrove, continuando in un altro posto quello stesso lavoro di critica, testimonianza di un amore intramontabile verso la propria terra che mai avrebbero voluto lasciare. Ogni giovedì propongo un episodio che racconta di questa difficile situazione, che cerca di porre delle domande e di accendere le coscienze. I miei articoli restano sempre nella sfera culturale, ma l’impostazione critica e la valenza politica non viene mai celata e di certo non passa in secondo piano.


J. G. : A proposito di diaspora vorrei tornare per l’ultima volta sul tema dell’esilio. In una condizione di lontananza forzata dalla propria terra, come lei stesso ha già accennato, la scrittura diventa uno “spazio della memoria”. Quale significato ha assunto per lei la scrittura una volta lasciata l’Algeria? Si è servito della scrittura per rimanere attaccato alle sue radici? Per esercitare un diritto alla libertà di parola che nel suo Paese, in quel momento, non le era più concesso?


W. L. : La separazione è stata difficile, come le ho detto, ma per quel che riguarda la possibilità di espressione io ho sempre continuato ad esprimermi liberamente, anche se riconosco che la censura ha ben presto iniziato a svolgere il suo ruolo. Per esempio, quando scrissi Le miroir de l’aveugle, un libro in cui ho mosso una critica profonda e dettagliata al sistema di potere militare in Algeria, lo feci direttamente in francese e, siccome mi trovavo in Francia, lo pubblicai lì. Abbiamo tentato di pubblicarlo nuovamente in Algeria e di tradurlo in lingua araba, ma il libro è stato censurato: era già stampato, ma tutte le copie sono state sequestrate dalla tipografia e distrutte. Questa decisione però non ha pregiudicato i miei lavori successivi e non ha intaccato la mia voglia di scrivere e di criticare ciò che reputo sbagliato e pericoloso per il Paese che amo. Io ero consapevole di aver fatto il mio dovere, e, siccome il libro era già stato pubblicato in Francia, rimasi tranquillo. Per di più alcune copie della traduzione araba continuano ancora oggi a circolare attraverso internet.

La censura riguarda il sistema di gestione e di controllo che lo Stato esercita ed io non sono nessuno per oppormi  a questo sistema, quello che posso fare però è non smettere di scrivere, di oppormi, di criticare e di pensare liberamente, anche all’interno del mio Paese. Rinunciare al mio lavoro, questo sì, sarebbe pericoloso, non la censura che resta uno strumento sterile fine a se stesso. Anche quando mi sono trasferito in Francia sono rimasto fedele all’ideale della giustizia umana, del diritto alla libera espressione. Questo non significa, d’altra parte, che l’esilio non ci cambi almeno un po’. Sono stato disposto a condividere la mia esperienza, mi sono aperto il più possibile al nuovo contesto in cui cercavo di inserirmi, ma non ho mai accettato di vendermi, né come libero pensatore né come scrittore. Le faccio un esempio: io critico il sistema di potere in Algeria, ma amo moltissimo il mio Paese, e non sono pronto a svenderlo per ricavarne un sostegno diciamo politico. Capire questa differenza è fondamentale per evitare di perdersi, in una condizione difficile e confusa quale è l’esilio.

In molti casi, parlo di miei connazionali e colleghi scrittori, rifiutare l’islamismo e la logica di gestione del potere, ha condotto queste persone a denigrare l’intero Paese in cui sono nati e cresciuti. Io rifiuto categoricamente questo modo di vedere le cose. Non sono riuscito e penso che mai ci riuscirò a rinnegare l’amore per la mia terra. Parigi mi ha concesso un po’ di respiro, tempo e spazio per riflettere, lo riconosco, mi ha dato la possibilità di conoscere molti scrittori, di crescere sotto il profilo umano e intellettuale, ma resto ancora fortemente attaccato alle mie origini. E quando parlo di “origini” non intendo una terra circondata da confini serrati, e non intendo neanche esaltare un valore nazional-identitario. No, la parola “origini” per me ha un valore ben più vasto e profondo, vuole indicare uno spazio ideale dove sia possibile condividere i valori umani, uno spazio ideale che si muove, cambia, non è ben definito geograficamente, anche se resta impregnato di algerinità. Per algerinità intendo il riflesso della la ricchezza e della varietà di popoli, genti e culture che hanno fatto la storia del Paese in cui sono cresciuto.


J. G. : Mi conceda una provocazione. “L’Algeria è un Paese colpito da amnesia, è privo di senso critico”, sono parole pronunciate ancora da Hsissen. Questa volta mi rivolgo a Waciny Larej professore dell’università di Algeri: le nuove generazioni di studenti con cui entra in contatto ogni anno restano tuttora vittime di quest’amnesia o dimostrano una acquisizione di consapevolezza maggiore rispetto alle generazioni post-indipendenza che le hanno precedute?


W. L. : E’ una domanda molto importante, a cui però non è facile rispondere. Ci sono due tendenze in atto, una positiva ed una negativa, almeno dal mio punto di vista. Cominciamo da quella positiva. E’ iniziato un innegabile lavoro di recupero della memoria grazie alla società civile e alle associazioni, anche quelle piccole che comunque riescono a svolgere attività importanti. Per esempio c’è l’associazione Apuleio che rivendica la parte romana della nostra cultura; Apuleio è stato il fondatore del romanzo, inteso nel senso moderno del termine. Nacque a Nador, una città non molto lontana da Constantine. Gli studenti algerini non sanno chi è questo personaggio, fondamentale per la storia della letteratura mondiale. Non lo conoscono pur essendo un loro conterraneo, dal momento che è stato messo al bando da una cultura araba che si è fatta esclusiva ed egemonica nei confronti delle altre componenti che pur hanno avuto ampio respiro in quello che è ora riconosciuto come territorio algerino. Oggi, grazie a questa associazione, si sta riscoprendo la figura di Apuleio, le sue opere sono state tradotte in arabo e fanno ormai parte dei programmi scolastici nazionali. Questo, almeno sul piano simbolico, ha per me una grande importanza. Riconoscere Apuleio significa riconoscere la parte romana e cristiana della nostra cultura (algerina).

Un altro esempio fa riferimento a Sant’Agostino. Anche questa figura è stata messa al bando per lungo tempo, mentre ad Annaba resta ancora la splendida basilica di cui fu vescovo. All’interno della basilica si trova una reliquia del santo, l’avambraccio e la mano, espressamente recuperata da quel Monsignor Dupuch di cui parlavamo prima, che andò a prendersela fino a Roma. Voleva che almeno una parte di Sant’Agostino fosse riportata nella sua terra e così oggi è possibile visitare l’interno della chiesa di Annaba, dove c’è la statua del monaco in cui si trova custodita la reliquia. Anche questa è solo una presenza simbolica, ma lo stesso importante, tanto che negli ultimi anni si è iniziato a tenere dei seminari, degli incontri e delle conferenze sulla vita e le opere del Santo. E’ come se l’Algeria avesse deciso di riappropriarsi di questa figura, sia sul piano religioso che su quello culturale. Qualcosa comincia a smuoversi.

Bene, questa era la tendenza positiva. Veniamo ora a quella negativa. C’è ancora una forte reticenza da parte del potere, che non sembra avere la forza e la decisione di rivendicare una algerinità aperta e plurale. Come accennavo prima, c’è ancora tantissimo lavoro da fare per superare queste colpevoli mancanze, ci sono ancora dei conti aperti che devono essere regolati, come nel caso dell’islamismo. D’altra parte penso che se l’Algeria avesse avuto la forza di plasmare questa identità multiforme fin dall’indipendenza, l’islamismo non avrebbe trovato un terreno tanto fertile in cui espandersi, e sarebbe rimasto un fenomeno minoritario. Invece ogni traccia della memoria di questo Paese, di questo insieme di terre diverse seppur vicine, che fosse anteriore al periodo ’54-‘62 è stata rapidamente cancellata, e la conseguenza non poteva essere tanto differente dal genere di catastrofe che si è abbattuta sull’Algeria fino a qualche anno fa. Ancora non c’è una presa di posizione forte e coraggiosa in questo senso. Il primo passo da cui bisognerebbe cominciare è la scuola, perché è da lì che deve iniziare la consapevolezza di essere parte di una cultura molteplice, aperta ed inclusiva, è lì che deve essere rivisitata, senza pregiudizi, la lunga e ricca storia della terra in cui viviamo. Se la scuola non si muoverà su queste prerogative, fra un po’ di tempo arriveremo agli stessi risultati già sperimentati, forse ad un altro islamismo ben più feroce di quello già conosciuto. Purtroppo sento ancora molta sfiducia e molta chiusura quando si inizia a parlare di multiculturalismo e identità plurale.


J. G. : Quindi quando parla di “amnesia” lei si riferisce all’oblio di cui resta ancora vittima il popolo algerino, privato della conoscenza delle sue vere radici?


W. L. : Sì, mi riferisco proprio a questo. Non si può plasmare un popolo a proprio piacimento. Un popolo ha la sua essenza in sé, resta in ogni caso un prodotto della storia, un prodotto variegato, complesso, che nel corso dei secoli è stato attraversato da differenti culture, differenti religioni, che è stato arricchito da contatti, scambi, dominazioni e conquiste. O si è capaci di assorbire tutto questo, trasformandolo in un fattore di forza, in un valore aggiunto, oppure si sceglie la via più breve, quella meno dispendiosa, quella dell’identità esclusiva, delle semplificazioni banalizzanti. Questa seconda soluzione conduce direttamente all’amnesia, cioè porta a dimenticare che a partire da un certo momento è stata fatta tabula rasa di una cultura ancestrale, impreziosita da sedimentazioni successive e di differenti origini. Una cultura che è stata sostituita da un qualcosa di diverso, costruito a tavolino, prefabbricato e utile a certi scopi precisi. E’ un artificio che non poggia su una base concreta e storica, è il frutto di una astrazione e di una manipolazione pericolosa, e la pericolosità, durante gli anni novanta, è diventata visibile a tutti. Le semplificazioni hanno prodotto a loro volta semplificazioni più grandi, i cui effetti sociali sono diventati ingestibili.

Quando parlo di amnesia intendo proprio questo: il popolo algerino e soprattutto chi lo governa deve avere questa consapevolezza, e la consapevolezza può trasformarsi in atti concreti solamente attraverso il sistema di insegnamento scolastico. Ci vuole una programmazione di ampio respiro. Per incidere in maniera positiva nella società servirà un lavoro cosciente e consapevole di almeno trenta o quaranta anni, proprio quello che è mancato fino ad ora. Forse la mia generazione non ne vedrà mai i risultati, ma i nostri figli e i nostri nipoti potranno beneficiare di questo cambiamento. Però, ripeto, occorre iniziare subito a dare nuovo fondamento al concetto di identità e di appartenenza, partendo dal recupero della memoria, dalla riscoperta delle sedimentazioni culturali che hanno da sempre arricchito le nostre genti. Bisogna iniziare prima possibile, perché siamo già in tremendo ritardo. A cosa hanno portato cinquant’anni di indipendenza? Quando, invece di recuperare un patrimonio secolare e valorizzarlo, si cancella la memoria e si fa piazza pulita di tutto quello che non concerne l’arabità e l’islam, cosa si ottiene? I risultati atroci sono ancora davanti ai nostri occhi, le violenze che hanno insanguinato l’Algeria negli anni novanta non potranno essere dimenticate facilmente. E dovrà servire da lezione, per capire quale sia ormai la strada più giusta da imboccare. Tuttavia la necessità di questa svolta non sembra ancora ben visibile e condivisa.


J. G. : E’ ancora una volta la vecchia dottrina del “dividi et impera” che resiste?


W. L. : Un po’ è così, ma mi domando: “Comandare cosa?”. Quello che resta davanti ai nostri occhi algerini sono ceneri e rovine, ferite aperte, sulle quali non è ancora possibile, se si continua a seguire questa logica, edificare uno Stato. Non resteranno più cittadini ma solo zombies. Se c’è veramente la voglia di costruire uno Stato, un Paese giovane, su basi moderne, attaccato alle sue culture, al suo passato e allo stesso tempo aperto all’avvenire, ad ulteriori contaminazioni, si è obbligati a rivedere tutto l’immaginario simbolico che è stato promosso durante gli ultimi decenni, un immaginario simbolico fondato sull’astrazione e sull’amputazione di gran parte del patrimonio storico, culturale e religioso di questo Paese. Ripeto, bisogna partire da lontano per recuperare quell’universalità propria della nostra cultura e per rompere con le semplificazioni e le astrazioni che ci hanno condotto dritti all’islamismo.

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