(Articolo pubblicato da Tel Quel, n. 410, 6-12 febbraio 2010)
L’ultima conferenza stampa tenuta dall’equipe del Journal Hebdomadaire mercoledì 3 febbraio ha l’aria di una veglia funebre. La sala trabocca di gente, ma fa ugualmente freddo. La luce, capricciosa, scompare e poi ritorna, in una danza di macabre penombre e di lunghi silenzi. Con voce tremante Aboubakr Jamai racconta la storia del giornale che lui stesso ha fondato nel 1997. Ne ripercorre tutta la vita, fino al momento della morte sopraggiunta lo scorso 27 gennaio, quando cinque uscieri del tribunale hanno messo i sigilli ai locali della pubblicazione e ne hanno sequestrato tutti i beni. Secondo le voci che circolano, Le Journal ha contratto un debito di circa 15 milioni di dirham (1,3 milioni di euro circa) nei confronti del fisco e della cassa di previdenza sociale. Lo Stato reclama quanto dovuto, in special modo i 4,5 milioni di credito che spettano alla CNSS, per il periodo tra il 1997 e il 2003. Jamai non contesta gli insoluti accumulati dal Journal, ma lamenta i vizi di forma presenti nella procedura che ha decretato la morte del settimanale e la sorprendente celerità della giustizia. Il verdetto di primo grado, infatti, è stato messo in atto ad una velocità record, senza attendere il risultato del processo d’appello. Resta il fatto che la pubblicazione simbolo degli anni duemila è ormai morta e sepolta. Ecco qui la sua storia.
Figlio dell’alternanza
“Creare un giornale è un atto di fede”. Con questa frase Aboubakr Jamai apre l’editoriale apparso sul primo numero di Le Journal, nel novembre 1997. Da poco convertito al giornalismo, la sua sola esperienza in materia si limita alla cronaca finanziaria tenuta in La Vie Economique. All’inizio, “ogni articolo era una gestazione difficile”, confida lo stesso Jamai. Il settimanale di Jean-Louis Servan Schreiber, la culla da cui nasce Le Journal, è la pubblicazione dove ha esordito anche Ali Amar. I due si sono conosciuti alla Wafabank. Jamai aveva fatto uno stage nel dipartimento diretto proprio da Amar. Nella loro testa matura l’idea di dar vita ad un nuovo giornale. Il progetto attira l’interesse di numerosi imprenditori che all’epoca avevano già fatto fortuna: tra gli altri Mustapha Terrab, Faiçal Laraichi e Saad Bendidi.
Alla fine, attorno al tavolo di Media Trust, la società editrice del Journal, si siedono solo tre azionisti: Amar, Jamai e il suo compagno di studi superiori Hassan Mansouri, futuro proprietario di Primarios. “All’epoca, nell’ambiente giornalistico, nessuno avrebbe scommesso granché su questo progetto. Nessuno dei tre aveva la credibilità o l’esperienza necessaria. Erano dei perfetti sconosciuti”, testimonia un giornalista che ha preso parte all’avventura fin dalla prima ora. “Eravamo delle matricole”, ricorda Aboubakr Jamai che, il giorno della prima uscita in edicola, prova un sentimento ambivalente: “Eravamo felici della nostra riuscita, ma allo stesso tempo consapevoli di dover replicare la sfida ogni settimana”.
Fin dai primi numeri la ripartizione dei ruoli all’interno del trio dirigente avviene seguendo le competenze e le caratteristiche di ciascuno dei componenti. Editorialista più che giornalista, “Jamai, al tempo direttore di pubblicazione, era un po’ messo in disparte e non assisteva quasi mai alla chiusura delle edizioni”, ricorda un membro di Le Journal. Ali Amar, capo-redattore, riveste il ruolo di “catalizzatore della redazione”, prosegue il giornalista. Il direttore generale Hassan Mansouri, invece, vede il giornalismo come una fonte di guadagno: “aveva investito i suoi soldi nel progetto e voleva vederli fruttare”, conclude il nostro testimone. Mansouri sorveglia da vicino il suo capitale, assiste alle varie fasi del lavoro, procura i panini e le bibite per la redazione e si reca fin dal primo mattino in tipografia per controllare la buona riuscita del prodotto.
L’economia prima di tutto
La prima copertina del settimanale mette in evidenza i risultati delle elezioni legislative del 1997, che portano Abderrahman Youssoufi alla carica di Primo ministro. Una semplice coincidenza dovuta alla data di lancio. Il “governo di alternanza” prende forma, ma la politica non è ancora il soggetto privilegiato dagli articoli del Journal, che preferisce consacrarsi ancora al contesto economico.
Convinta che il Marocco dei “colletti bianchi” sia l’avvenire del Paese, la nuova pubblicazione si posiziona sul mercato come un’alternativa a La Vie Economique e L’Economiste. L’equipe del giornale si dimostra innovativa, proponendo sondaggi di opinione e utilizzando un linguaggio piacevole. Grazie alla rete di contatti intrattenuta da Jamai e Amar, riesce perfino a concludere degli scoop importanti, che scuotono gli ambienti finanziari, specie nel settore bancario e in quello delle telecomunicazioni, punti di riferimento per lo sviluppo economico degli anni novanta. “Quelli che poi diventeranno i grandi nomi della finanza marocchina, come Mustapha Bakkoury, Anas Alami o Hassan Bouhemou, erano soliti prendere il caffè nei locali di Le Journal”, riferisce un membro della redazione. Queste persone, che già ricoprono incarichi di responsabilità, rappresentano un sostegno finanziario per il settimanale, poiché acquistano pagine e pagine di pubblicità. “Uno dei nostri primi inserzionisti è stata la società Marfin, una filiale della BMCE, diretta al tempo da Hassan Bouhemou (ora braccio destro di Majidi, il curatore degli interessi economici della monarchia, ndt). Pubblicavamo regolarmente dei supplementi finanziari per attirare il maggior numero di pubblicità”, confessa Aboubakr Jamai.
Qualche mese soltanto dopo la prima uscita in edicola nascono i primi dissapori tra gli azionisti. Hassan Mansouri si oppone all’ingresso nella redazione di Jamal Berraoui, zio materno di Jamai e storico capo-redattore di La Vie Economique. Secondo Mansouri si tratta di un giornalista politico che mal si concilia con la linea editoriale prettamente economica assunta dal Journal. Ma Aboubakr Jamai non demorde. “Berraoui era un mio idolo. Ammiravo la sua intelligenza e la sua cultura”, ci confida. L’arrivo dello zio lo alleggerisce da un grave fardello e lo rassicura. Jamai non ha ancora fiducia in se stesso e dubita delle sue reali capacità di editorialista: “Mi svegliavo in piena notte ponendomi domande ossessive. Cosa stai facendo? Per chi ti prendi? Temevo di essere un intellettualoide privo di solide basi”, ammette Jamai. Il direttore di pubblicazione finisce così per avere la meglio. Berraoui integra l’equipe del giornale, mentre Hassan Mansouri decide di rivendere la sua quota. Alla ricerca di un nuovo azionista su cui fare affidamento, Jamai vive un “riflesso tribale”, secondo una sua stessa dichiarazione. Contatta un cugino che gli presenta Fadel Iraqi, assicuratore e mercante d’arte. Iraqi, sfodera gli assegni senza battere ciglio e acquista la quota di Mansouri. “Gli ha pure concesso una sovra-valutazione del 30% rispetto all’investimento iniziale di 500 mila dirham”, racconta Jamai. Le Journal supera velocemente questa prima crisi interna, anche se l’amicizia tra Jamai e Mansouri non verrà più recuperata.
Basri e la svolta politica
Nell’estate del 1998 la redazione è presa in mano dal tandem Berraoui-Amar. Aboubakr Jamai, dal canto suo, può prendere tranquillamente il volo per Oxford, dove ottiene una borsa di studio. Si iscrive ad un master e ripiomba nel suo primo amore, la finanza. Allo stesso tempo cerca di inspessire il suo bagaglio culturale. A Londra affina le sue idee a contatto con l’intellettuale palestinese Edward Said. Durante l’assenza del direttore di pubblicazione, Jamal Berraoui imprime una netta svolta politica al giornale. La congiuntura è propizia, al governo c’è Abderrahman Youssoufi, l’alternanza sembra funzionare bene e trova in Le Journal il suo più caldo sostenitore.
Il 28 settembre del ’98 il settimanale pubblica la sua prima copertina-choc, e segna così il nuovo corso: “per salvare l’esperienza dell’alternanza politica, Driss Basri (numero 2 del regime al tempo, ndt) DEVE ANDARSENE”. “Abbiamo avuto una rivelazione, è come se ci fossimo scoperti veramente solo in quel momento. Di colpo sembrava possibile far sentire la propria voce”, analizza Jamai.
“Figli dell’alternanza”, come loro stessi si definiscono, i mentori del Journal decidono di battere un terreno ancora vergine, quello dei diritti dell’uomo, invocando a gran voce il ritorno in patria di Abraham Serfaty. L’audacia della giovane pubblicazione si conferma settimana dopo settimana. Nel marzo del 1999 propone una intervista a Malika Oufkir, che ha appena terminato la scrittura de La prigioniera, libro in cui testimonia gli anni di reclusione trascorsi sotto Hassan II. “Era un vero e proprio azzardo. Potevamo parlare della Costituzione, di Abraham Serfaty e degli anni di piombo. Ma nel caso di Malika Oufkir avevamo toccato il giardino segreto di Hassan II. Era l’ultima linea rossa”, racconta Jamai. Le Journal la oltrepassa senza subire le ire del vecchio re, cosa che stupisce la stessa redazione. Aboubakr Jamai ha una sua teoria al riguardo: “con una simile inchiesta stavamo concretizzando quell’apertura proposta proprio da Hassan II”. Del resto, in seguito agli articoli pubblicati da Le Journal, il quotidiano francese L’Humanité, mai tenero nei confronti del sovrano alawita, fa uscire un pezzo intitolato “La primavera marocchina”, accolto con gioia dal defunto re.
Hassan II pensa che Le Journal possa servire gli interessi del Paese, offrendo al contesto internazionale l’immagine del nuovo vento democratico che soffia in Marocco. Tramite Fouad Ali El Himma, lo fa sapere a Fadel Iraqi, arrivando perfino a proporre ai dirigenti del giornale un assegno da 50 milioni di dirahm per creare una tipografia. Anche i vecchi compagni di scuola del principe ereditario sembrano tutti entusiasti della rivista: Hassan Aourid, futuro portavoce del Palazzo, vi tiene una sua tribuna fissa, mentre El Himma, segretario particolare del primogenito Sidi Mohammed, agisce da emissario presso i dirigenti del Journal quando Hassan II o suo figlio vogliono trasmettere un messaggio.
Gli anni d’oro
In breve, tutto sembra andare per il meglio. Aboubakr Jamai ha ormai acquisito l’esperienza e la sicurezza necessaria per imporsi nel panorama giornalistico e la linea editoriale convince un numero di lettori sempre più numeroso. Di settimana in settimana le vendite esplodono, fino a raggiungere il picco di 30 mila esemplari nel 1999. Gli introiti pubblicitari inondano Le Journal. “Venivamo ricevuti personalmente dai dirigenti delle grandi aziende. Mentre all’inizio raccoglievamo 150 mila dirham di pubblicità al mese, nel 1999 e nel 2000 siamo passati a 450 mila. Quando uscì il supplemento su Agadir, abbiamo raggiunto la somma di un milione di dirham di pubblicità. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito”, testimonia un vecchio responsabile commerciale della pubblicazione.
I soldi affluiscono in grandi quantità, al punto che il settimanale, quando incontra i primi problemi con le tipografie marocchine, decide di stampare le sue copie in Francia. Il risultato farebbe bruciare d’invidia qualunque direttore di pubblicazione: un giornale con lo stesso formato e la stessa qualità di stampa di Le Courrier International. Anche il prezzo da pagare, però, strapperebbe un grido di spavento: la spesa per il trasporto dalla Francia si attesta tra i 7 e gli 8 milioni di dirham all’anno. “Ogni settimana un componente dell’equipe si trasferiva in aereo a Parigi per portare le pellicole in tipografia. Era un vero e proprio week-end di lusso a spese dello Stato”, racconta un membro del Journal.
Il settimanale non bada più a spese. Lascia il modesto appartamento dove aveva visto la luce per installarsi comodamente in ampio locale di 400 m2 che risistema da capo a piedi. Computer nuovi e scintillanti, stampanti e scanner di ultima generazione, macchine aziendali e così via. Quando poi ci sono degli eventi importanti, la direzione è pronta a sborsare soldi senza troppi riguardi. “Le Journal organizzò un seminario in Francia a cui presero parte una decina di uomini d’affari. Per l’occasione aveva noleggiato un aereo privato. Un dirigente del giornale voleva dipingere il velivolo con i colori del settimanale”, ricorda il nostro testimone. Le Journal è “the place to be” per un giornalista. Le penne più promettenti e quelle già affermate sono assunte con stipendi stellari per l’epoca. Nel giornale di Jamai e Amar, oltre al riconoscimento salariale, trovano anche uno spazio per esprimersi liberamente, in cui potersi lasciare andare dopo anni di frustrazione e di autocensura.
La rivista incamera una serie di inchieste fastidiose. Va a ficcare il naso nelle transazioni immobiliari di Mohamed Benaissa, al tempo ministro degli Esteri. Denuncia le dubbie operazioni finanziarie dell’ONA (come per esempio l’affaire Diwan). Ma tutto sembra filare liscio. Tutto o quasi, fino a quando Le Journal affronta la “questione sacra” del Sahara Occidentale nell’aprile del 2000.
Non toccare il Sahara
In primo piano Mohamed Abdelaziz, capo del Fronte Polisario. Un titolo-choc: “Sahara, quale alternativa ad un referendum superato?”. Si presenta così la copertina del 14 aprile 2000, che nessun lettore del Journal ha mai visto. Le 33 mila copie del settimanale, infatti, vengono sequestrate all’aeroporto Mohammed V, appena arrivate dalla Francia. Intervistare il leader del Polisario è una idea di Aboubakr Jamai, sorta dopo un colloquio informale con un membro del Dipartimento di Stato americano. Secondo il diplomatico, gli Stati Uniti ritengono che la soluzione al conflitto del Sahara passi per una “terza via”, l’autonomia. Il confronto armato non ha portato a niente, il referendum non sembra più attuabile, così l’autonomia, agli occhi degli Stati Uniti, sembra l’unica strada percorribile per porre fine a questo conflitto che è durato anche troppo. Jamai sa di avere tra le mani qualcosa di grosso. Appena rientrato in Marocco riprende gli ultimi discorsi pronunciati da Hassan II prima di morire. In essi si parla spesso di regionalizzazione e di federalismo. Allora contatta un amico, il quale conferma che il G14 (un think tank creato dal defunto re) sta lavorando alla soluzione proposta da Washington. Così Jamai decide di dare la parola ad Abdelaziz, pensando di avere le spalle coperte: non sta facendo altro se non anticipare una soluzione già in corso di approvazione dalle alte sfere. Ma i calcoli non tornano e la sua audacia non viene perdonata. “Subito dopo la chiusura, ricevo una telefonata da un amico che mi chiede di passare a casa sua. Qualcuno vuole parlarmi ma non aggiunge altro”, racconta Jamai. Questo illustre sconosciuto è Edward Gabriel, ambasciatore degli Stati Uniti in Marocco. Stando alle parole di Jamai, Gabriel è furioso a causa della censura che ha colpito il giornale dopo l’intervista con Mohamed Abdelaziz. L’ambasciatore pensa che questa decisione caschi come un capello nella minestra, dal momento che Mohammed VI ha già accettato l’opzione dell’autonomia. Qualche mese più tardi, il Marocco abbandona ufficialmente l’idea del referendum per gettarsi nella famosa “terza via”, concretizzata in seguito con la proposta di autonomia per le province del sud.
Questa prima scaramuccia con lo Stato non intacca minimamente la vita economica del settimanale. Al contrario. Gli inserzionisti attendono con impazienza che Le Journal torni in edicola. Dopo un mese, la pubblicazione riappare con una pagina bianca come copertina, in segno di protesta, ma con più pubblicità di prima. La rivista ha la sua medaglia al valore, che ne aumenta la notorietà e le vendite. Ma nuvole nere si condensano all’orizzonte. I contatti con i vecchi compagni di Mohammed VI, che rivestono ormai funzioni ufficiali, si fanno sempre più rari. La “primavera marocchina” è finita e l’inverno sembra bussare precocemente alle porte. “Durante l’ultimo incontro in cui si sono incrociati gli azionisti del Journal e Fouad Ali El Himma si percepiva che i rapporti non erano più quelli di un tempo”, confida un testimone presente all’incontro. I sintomi del disamore che separa ormai il giornale dal regime sono già evidenti, quando una nuova mazzata colpisce la pubblicazione.
Le Journal è morto, viva Le Journal Hebdomadaire
Il 2 dicembre del 2000, in una notte piovosa di ramadan, le copie dei settimanali freschi di stampa si ammassano nei marciapiedi, sotto lo sguardo vigile dei terrassiers. Nessuna traccia del Journal. Qualche ora prima, un comunicato della MAP (agenzia stampa marocchina) ha annunciato la chiusura del settimanale su ordine del Primo ministro Abderrahman Youssoufi. Nella edizione precedente, Le Journal ha pubblicato un documento inedito che prova l’implicazione del partito di Youssoufi nel golpe militare tentato da Oufkir nel 1972. Oltre alla chiusura, il settimanale si trova al centro di una campagna mediatica senza precedenti. Libération, organo di stampa dell’USFP (Unione socialista delle forze popolari, la formazione di Youssoufi, ndt), lancia un articolo di sei colonne in copertina con l’intento di stroncare il giornale di Jamai. Il titolo parla da solo: “E’ ora di finirla con quest’imbroglio chiamato Le Journal”. 2M invece, organizza un programma speciale per denigrare la rivista. In seguito alla chiusura, gli azionisti del Journal fanno il giro delle trasmissioni televisive e delle redazioni parigine per ribadire il loro diritto a riapparire in edicola. “Bisognava reagire di conseguenza, dato che il regime aveva tirato fuori le sue armi più letali”, confessa Jamai, che inizia uno sciopero della fame nel tentativo di resuscitare la sua pubblicazione. Da buon comunicatore quale è diventato, sceglie bene la sua tribuna per annunciare l’iniziativa: il congresso della Federazione internazionale per i diritti dell’uomo (FIDH) che si tiene proprio a Casablanca.
Dopo quaranta giorni di interdizione, Le Journal rinasce con un altro nome: Le Journal Hebdomadaire. Tutti continuano a chiamarlo Le Journal, come prima, ma il cambiamento sopraggiunto nei toni non lascia spazio agli equivoci. E’ scoccata l’ora della guerra. Nei primi otto numeri apparsi in edicola, cinque sono consacrati all’USFP. Il settimanale, ormai nel pieno della battaglia, vuole la sua vendetta. Il giornale pubblica poi alcune pagine del libro scritto da Jean-Pierre Tuquoi, Le dernier roi, di cui è vietata la vendita in Marocco. Il fiore all’occhiello della generazione di Mohammed VI si trasforma così nel peggior incubo del Palazzo, divenendo un portavoce dei “contestatori”. Hicham Mandari, Ali Lmrabet, Moulay Hicham, Nadia Yassine e il PJD (Partito della giustizia e dello sviluppo) sono dei soggetti ricorrenti. Alti ufficiali dell’esercito, uomini d’affari, responsabili di Stato, nessuno è risparmiato dalla furia del settimanale. I dossier del Journal sono dirompenti, frutto di inchieste approfondite e di analisi precise. Un tale lavoro di indagine rafforza la notorietà della pubblicazione, che diventa un punto di riferimento irrinunciabile per tutti i media internazionali interessati al Marocco. Aboubakr Jamai è ospite abituale dei canali televisivi stranieri e talvolta abusa della sua immagine di araldo del quarto potere. “Una volta, invitato ad una trasmissione, ha chiamato la redazione per modificare la copertina prevista per l’edizione in stampa. Voleva che parlassimo di Mohammed VI e che mettessimo la foto del re in prima pagina. Così avrebbe potuto mostrarla in diretta, per evidenziare il nuovo spirito della rivista”, ricorda un giornalista dell’epoca.
La benzina finisce
Il settimanale è in conflitto aperto con l’establishment politico ed economico del Paese, ma non ha più i mezzi necessari per sostenere le sue posizioni. La condanna emessa da Youssoufi ha provocato il boicottaggio pubblicitario delle società di Stato e delle grandi imprese private: “abbiamo perso l’80% dei nostri introiti pubblicitari. Le autorità hanno fatto di tutto per costringere Le Journal all’asfissia”, si indigna Jamai. “Venivamo considerati come un giornale problematico dagli inserzionisti”, aggiunge un vecchio responsabile commerciale del Journal.
Senza l’afflusso di nuove risorse il settimanale inizia a tirare il diavolo per la coda perché, proprio come la cicala della favola, ha dissipato troppo durante il suo periodo d’oro. Nel 2000, al momento della chiusura dei conti, Media Trust si porta dietro un deficit di diversi milioni di dirham, malgrado una cifra d’affari annuale di 25 milioni (un risultato straordinario al tempo). La società ha debiti verso i fornitori, le banche e le casse dello Stato. In più, siccome le disgrazie non arrivano mai sole, la rivista è condannata al pagamento di 800 mila dirham di risarcimento a Mohammed Benaissa, che ha vinto il processo intentato al giornale per diffamazione. Dopo la sentenza i beni di Media Trust vengono posti sotto sequestro: i computer, i mobili e le scrivanie della società sono messi all’asta. Subito riacquistati da Fadel Iraqi, non lasceranno mai gli uffici della testata.
A questo punto della storia, gli azionisti trovano un escamotage per permettere al settimanale di sopravvivere. Nel 2002 viene creata una nuova società, Trimedia, che si incarica di firmare le fatture e riscuotere gli assegni intestati a Le Journal. Coperta di debiti, la vecchia società editrice Media Trust è messa in stand by. Finita l’epoca dei fasti, è arrivato il momento di fare economia. Le Journal abbandona le tipografie francesi per ripiegare sulle rotative di Maroc Soir. E’ anche costretto a cambiare sede, troppo ampia e costosa, per trasferirsi in uffici più modesti. Ma gli arretrati e le penalità per il ritardo dei pagamenti continuano ad accumularsi e il giornale non riesce più ad onorare gli impegni presi. Il settimanale paga il prezzo di una gestione caotica, tanto da essere comparato dagli stessi giornalisti della redazione ad una repubblica delle banane o ad una società offshore. “Era una battuta che facevamo a volte tra noi. Sapevamo che la società non pagava le tasse né i contributi e che la contabilità non era del tutto trasparente”. L’indebitamento colossale e un budget ormai dissanguato spingono gli azionisti a ritardare sempre di più il pagamento delle imposte e i versamenti alla previdenza sociale. Questa situazione, in ogni caso, non impedisce al giornale di passare al “formato magazine” nel 2004, triplicando così i costi di stampa. “La gestione del Journal evidenzia, per lo meno, una sbagliata gerarchizzazione delle priorità”, continua la nostra fonte. Il buco di bilancio diventa abissale.
Cercasi acquirente disperatamente
“Sapevamo che per uscire da questa situazione l’unica soluzione era vendere il giornale. Ero pronto a cederlo a chiunque, perfino alla DST (Direzione per la sicurezza del territorio, ndt), a tre condizioni: la DST avrebbe dovuto annunciare ufficialmente l’acquisto di Le Journal Hebdomadaire, avrebbe dovuto preservare i posti di lavoro e pagare i debiti di Media Trust”, dichiara Jamai. Non è la DST ma il principe Moulay Hicham che propone di raggiungere il settimanale nel 2003. Ma le trattative falliscono, perché il cugino di Mohammed VI esige che la sua partecipazione non sia resa pubblica. Una condizione che gli azionisti del Journal rifiutano.
Nel 2006 si presenta un nuovo acquirente, Mohamed Bensaleh, proprietario di Holmarcom. Incarica Hassan Alaoui, a capo di Economie & Entreprises, di condurre i negoziati in sua vece. Ancora una volta, però, il passaggio non avviene. Ironia della sorte, le contrattazioni hanno luogo proprio nel momento in cui Le Journal Hebdomadaire si trova al centro di un nuovo clamoroso processo, che complica ancor più la situazione. Il settimanale è condannato al pagamento di 3 milioni di dirham di risarcimento a Claude Moniquet, direttore dell’Esisc (Centro europeo di ricerca e analisi strategica), per aver messo in dubbio la veridicità del suo rapporto sul Polisario. Jamai ritiene che il documento sia stato “teleguidato” da Rabat.
Un’altra doccia fredda. Le vendite calano, i debiti continuano ad accumularsi, ma il giornale trova ancora una volta il sistema di sopravvivere alla crisi, pagando sull’unghia parte degli arretrati ai creditori che si presentano in redazione. L’avventura, tuttavia, sta volgendo al termine. Le Journal è entrato in un tunnel mortale e, di fatto, aspetta soltanto il colpo finale. Aboubakr Jamai annuncia allora, al momento di una conferenza stampa nel 2007, che è pronto “a ritirarsi dal giornalismo” per salvare la pubblicazione. Se ne va negli Stati Uniti, prima di essere richiamato da Fadel Iraqi un anno più tardi. Ali Amar, che ha assicurato un interim poco convincente, viene congedato da Iraqi. Jamai riprende le redini di un settimanale ormai agonizzante. “Non voglio implicarmi troppo nella redazione del Journal per non metterlo in pericolo. Mi occuperò soltanto della cronaca”, dichiara a Tel Quel nella primavera del 2009, poco dopo il suo ritorno in Marocco. In realtà riprende subito in mano la penna per firmare degli editoriali sempre più sferzanti. Aboubakr è di nuovo l’uomo da mettere a tacere al più presto. Il bavaglio è già pronto. Lo Stato presenta il conto per i debiti accumulati da Le Journal e in questo modo finisce la sua storia.
I TRE MOSCHETTIERI
Aboubakr Jamai, la mente. “Nelle riunioni di redazione l’avevamo soprannominato il signor dobbiamo. Lanciava delle idee irrealizzabili, prima di prendere il suo tappeto da preghiera e raggiungere la comunità nella moschea più vicina”, ricorda un ex-caporedattore. Nipote di un fervente nazionalista e figlio del giornalista Khalid Jamai, l’editorialista del Journal ha cominciato il suo percorso nel settore finanziario. Co-fondatore della società di borsa Upline Securities, intraprende la strada del giornalismo per “cambiare aria”, come lui stesso confessa. Oratore carismatico, non ha mai digerito la sua esclusione dalla televisione marocchina, avvenuta dopo la prima chiusura del settimanale nel 2000. Beniamino dei media stranieri, non manca occasione di condannare gli “scivoloni” del regime, sia in giornali prestigiosi sia nei canali televisivi. Come direttore di pubblicazione non si è mai occupato troppo delle finanze della rivista, neanche quando la gestione si è fatta avventurosa. Editorialista, ha lasciato ad Ali Amar l’incarico di gestire la redazione. Partito per studiare a Oxford nel 1998 e poi a Yale nel 2004, ha segnato la sua carriera al Journal con lunghe e frequenti assenze.
Ali Amar, il braccio. L’idea di creare un settimanale economico germoglia in occasione delle riunioni nel suo F2 di Hay Riad, a Rabat. Al momento del lancio del Journal si vede attribuire gratuitamente l’8% delle azioni di Media Trust, la società editrice. La sua partecipazione raddoppia quando Fadel Iraqi subentra ad Hassan Mansouri e aumenta il capitale. Socio minoritario tra gli azionisti, Ali Amar è sempre rimasto nell’ombra, schiacciato dal carisma di Aboubakr Jamai che attira su di sé tutti i riflettori. Ma è lui che costruisce il giornale giorno dopo giorno, che non esita a compiere inchieste sul campo e che passa le notti in bianco quando si deve chiudere in ritardo un’edizione. “E’ un giornalista talentuoso, dotato di indubbia intelligenza”, racconta un vecchio membro della redazione. Licenziato nell’agosto del 2008 da Fadel Iraqi, Ali Amar rialza la testa l’anno dopo, pubblicando un libro estremamente critico sui dieci anni di regno di Mohammed VI, Le grand malentendu. L’opera, che parla spesso dell’esperienza al Journal, viene accolta male dai suoi vecchi amici e compagni, che lo rimproverano di deformare la realtà. Dopo una breve eclissi ritorna al giornalismo: scrive sotto pseudonimo nel settimanale Le Temps. Mercoledì 3 febbraio, mentre Jamai si congedava in modo commuovente nell’ultima conferenza stampa del Journal, Amar si è fatto notare per la sua assenza.
Fadel Iraqi, il mecenate. Collezionista di oggetti d’arte, assicuratore, speculatore di borsa dal portafoglio facile, questo figlio di un rispettato magistrato ha sempre considerato Le Journal come una passione irrinunciabile. Investendo nel settimanale, Fadel è riuscito ad avvicinare gli alti dirigenti del Paese e i membri della famiglia reale, con cui in principio ha dimostrato le sue affinità. Ma l’etichetta “Le Journal” finisce per procurargli diversi fastidi. Senza di lui la pubblicazione non sarebbe riuscita a sopravvivere così a lungo. Vi inietta denaro con regolarità, per pagare i conti più pressanti. Iraqi tenta a più riprese di vendere la rivista, ma il pesante passivo del giornale ha sempre impedito il felice esito delle trattative. Come lui stesso ha dichiarato, Le Journal è stato “il suo affare più bello e allo stesso tempo quello più sbagliato”.
Hassan Hamdani
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