Nell'ultimo numero prima della chiusura imposta dalle autorità, Le Journal Hebdomadaire torna sul tema dei detenuti salafiti e sulla strategia di lotta al terrorismo condotta dallo Stato marocchino dopo il 16 maggio 2003. Con coraggio dà voce alle famiglie dei prigionieri, madri, mogli e bambini che da sette anni subiscono le gravi conseguenze degli arresti di massa orchestrati dal regime. A lungo termine, le conseguenze di una tale politica potrebbero rivelarsi ben più gravi degli atti sanguinosi che l'hanno generata, come testimonia l'inchiesta di Christophe Guguen e Hicham Bennani.
(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire n. 426, 23-29 gennaio 2010)
Sette anni dopo la tragedia del 16 maggio, che ha fatto quarantaquattro morti tra cui gli undici kamikaze, e l’ondata repressiva seguita a tali eventi, le conseguenze della politica anti-terrorista marocchina si fanno ancora sentire tra le famiglie dei detenuti salafiti accusati di terrorismo.
I sequestri, le detenzioni arbitrarie e i processi iniqui continuano ad alimentare il risentimento di una certa parte della popolazione marocchina e suscitano l’inquietudine delle organizzazione nazionali e straniere che si occupano della difesa dei diritti umani. “Per quanto riguarda il Marocco, possiamo constatare che, a dispetto di un relativo miglioramento della situazione globale dei diritti dell’uomo, è stato compiuto un passo indietro nel momento in cui lo Stato si è impegnato nel terreno della lotta al terrorismo con l’adozione di misure eccezionali”, afferma Rachid Mesli, direttore del Forum Al Karama, un’associazione di stanza a Ginevra che difende i diritti umani nel mondo arabo.
Pensare al futuro
Gli arresti di massa compiuti negli ambienti salafiti tra il 2003 e il 2004 avevano come base la scarsa conoscenza del fenomeno e una definizione assai vaga del concetto di “terrorismo”. “Erano sufficienti degli indizi sommari per essere coinvolti nelle retate organizzate dagli apparati di sicurezza: la frequentazione di alcune moschee, il tipo di abbigliamento indossato, la corrispondenza epistolare e i contatti telefonici. Questo sistema, del tutto arbitrario, ha prodotto una serie di ingiustizie”, spiega lo studioso di islam politico Mohammed Tozy. Anche se oggi gli arresti si fanno via via sempre più rari, le prigioni del regno ospitano ancora un migliaio di islamisti. I loro figli, cresciuti per lo più in contesti disagiati, oltre alle umiliazioni quotidiane, subiscono le pressioni del regime e si ritrovano marginalizzati all’interno della società. “Bisogna pensare al futuro. Questi ragazzi si ritroveranno presto senza lavoro, senza mezzi di sostentamento e senza niente da perdere. La gran parte dei loro padri sono innocenti. Lo Stato, al contrario, sta gettando le basi per creare dei veri terroristi”, afferma Abderrahim Mouthad, presidente dell’associazione Ennassir, la sola organizzazione marocchina ad apportare un sostegno concreto alle famiglie dei detenuti islamici nella vita di tutti i giorni. I partiti politici e le altre organizzazioni si guardano bene dall’avventurarsi in questo terreno minato. “All’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani) cerchiamo di intervenire a monte del problema, ricordando allo Stato la necessità del rispetto delle regole e delle procedure giuridiche, sia nel caso degli arresti sia in quello dei processi. Allo stesso tempo facciamo parte dei comitati di solidarietà in appoggio a numerosi detenuti. E’ un modo per apportare il nostro sostegno alla loro causa”, spiega Abdelilah Benabdeslam, vice-presidente dell’AMDH. Il PSU (Partito socialista unificato), invece, al momento della riunione del suo ufficio politico avvenuta lo scorso 10 gennaio, ha chiesto la soppressione pura e semplice della legge anti-terrorismo, adottata senza dibattito o discussioni preliminari nel 2003, in pieno clima di terrore post-16 maggio. Anche in Europa e negli Stati Uniti si reclama una nuova strategia di lotta al terrorismo, che sia capace di rispettare i diritti dell’uomo. Le leggi liberticide adottate in tutto il mondo dopo l’11 settembre si sono forse rivelate “efficaci” a corto termine ma, come ha già sottolineato il Club di Madrid (un think-tank che riunisce ex-presidenti e ministri di tutti i paesi) nel 2005, le violazioni dei diritti umani prodotte da tali provvedimenti creano “un ambiente favorevole allo sviluppo di reti militanti, che beneficiano di un appoggio crescente da parte della popolazione, soprattutto nei sistemi di governo repressivi”.
Stato-terrorista
Il Consiglio d’Europa, assieme ad altre organizzazioni regionali, ha adottato alcune risoluzioni che ribadiscono l’importanza di proteggere i diritti dell’uomo nella lotta al terrorismo. Ma in pratica, in molti paesi, “la paura del terrorismo ha eclissato il bisogno di rispettare i diritti umani”, indica un rapporto della Commissione internazionale dei giuristi pubblicato nel 2009. “Gli Stati Uniti sono il primo Stato-terrorista. Si considerano guardiani della democrazia e dei diritti e invece sono i primi a violare questi stessi principi, nel quadro della cosiddetta lotta al terrorismo. L’esempio più significativo sono le atrocità commesse a Guantanamo, ad Abu Ghraib, a Temara… Purtroppo, i paesi arabo-musulmani seguono ciecamente la politica dettata da Bush e ripresa da Obama”, asserisce Fatiha, la vedova di Karim El Mejjati, rapita in Arabia Saudita assieme al figlio Elias nel 2003 e trasferita nel centro di detenzione segreta di Temara a bordo di un aereo CIA. “Se noi siamo dei terroristi, dei fuorilegge (stando al giudizio americano), che almeno loro rispettino quelle norme di cui parlano tanto. Altrimenti i diritti umani, scusate il termine, non sono altro che chiacchiere”.
UN’INFANZIA AI MARGINI
I figli dei presunti terroristi fermati dopo gli attentati del maggio 2003 a Casablanca ricordano l’arresto dei padri come fosse ieri. Da allora sono relegati ai margini della società. Ancor più che gli altri ragazzi, come loro in condizioni precarie, non hanno altra scelta se non quella di affidarsi a Dio. Testimonianze da Sidi Moumen, il quartiere che ha visto nascere i kamikaze del 16 maggio.
Dov’è mio padre?
“Ogni anno, all’inizio della scuola, il re invia zaini e materiale di cancelleria agli studenti. Dal momento degli attentati noi non li abbiamo più ricevuti!”, si lamenta Khamissa. “Agli occhi di tutti i nostri bambini sono figli di terroristi e perciò non possono più beneficiare degli stessi vantaggi degli altri ragazzi”, continua la donna, che poi aggiunge: “prima degli attentati la prefettura ci convocava con regolarità per consegnarci qualcosa da mangiare, ma, dopo le condanne inflitte ai nostri mariti, non ne abbiamo più diritto, sebbene continuiamo a far parte di una delle bidonville più disagiate del Marocco”.

Rachid Mesli, direttore del Forum Al Karama, è dello stesso avviso. Secondo lui, in tutto il mondo arabo, più o meno, si è di fronte alla medesima situazione, allorché si affronta il tema dalle famiglie dei detenuti salafiti. “Nel momento in cui il sostegno principale del nucleo familiare finisce in prigione, gli altri membri si ritrovano automaticamente in una condizione di marginalizzazione. Tutto questo ha delle conseguenze materiali nel caso delle famiglie e, in più, genera gravi problemi a livello di società”, constata il signor Mesli. “A lungo termine – conclude il direttore – questi ragazzi possono diventare imprevedibili”. “I diritti umani in Marocco non esistono, come non esistono i diritti delle donne, né quelli dei bambini”, insiste Naima Karaoui. Ogni volta che le famiglie cercano di far sentire la loro voce, ogni volta che organizzano manifestazioni pacifiche in strada, vengono subito domate dalle forze dell’ordine.
Il sogno danese

Christophe Guguen e Hicham Bennani
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