Arrêt sur image

giovedì 25 febbraio 2010

“Sage comme une image”

L’articolo che vi propongo è apparso nelle colonne del Journal Hebdomadaire in pieno “affaire Akhbar Al Youm”. L’obiettivo dell’autrice era quello di ripercorrere, per sommi capi, la difficile storia della caricatura in Marocco. Dopo aver accennato al tema durante l’incontro con Khalid Gueddar (che cercherà di arricchire questo blog con la sua gentile collaborazione) mi è sembrato giusto riprendere in mano il pezzo e tradurlo.

Khalid. La caricatura è vietata.

La caricatura non sembra ancora aver trovato il suo spazio nel contesto marocchino e provoca regolarmente la dura reazione delle autorità. Una breve riproposizione storica del fenomeno e un’inchiesta sulle cause della sua impopolarità.



Venerdì 30 ottobre, tribunale di prima istanza di Casablanca. Khalid Gueddar e Taoufik Bouachrine, rispettivamente disegnatore e direttore del quotidiano Akhbar Al Youm, compaiono davanti al giudice con l’accusa di oltraggio alla bandiera nazionale e alla famiglia reale, in seguito alla pubblicazione (il 26 settembre scorso) di una caricatura che ritrae il principe Moulay Ismail. Nel pomeriggio, all’interno dell’aula, imperversa il dibattito sulla definizione di “caricatura” e sulle finalità attribuite a questo strumento. La Corte considera, in generale, che l’obiettivo di una caricatura è quello di nuocere alla persona che vi viene rappresentata. Per Khalid Gueddar si tratta invece di una questione umor e allo stesso tempo di informazione. L’avvocato del principe Moulay Ismail reagisce: “se l’obiettivo non è quello di nuocere, allora non vedo cos’altro abbia potuto motivare questo disegno!”. Da parte sua, il procuratore generale tira fuori una definizione di Wikipedia per convincere l’uditorio del carattere critico della caricatura e, in quanto tale, della sua natura malevola. La dimensione umoristica dell’oggetto in causa non viene più presa in considerazione durante il dibattito. La caricatura non ha mai fatto breccia nei costumi marocchini. “Il grande problema è che il regime interpreta male la caricatura, basandosi solo su intuizioni personali: molto spesso si attribuiscono intenzioni errate ai disegnatori. Come per le arti plastiche, anche in questo caso c’è bisogno di una cultura di base. Ci vorrà ancora del tempo prima che la caricatura possa essere capita”, si rammarica il caricaturista Brahim Lemhadi, dall’alto dei suoi trent’anni di esperienza. Di certo, almeno fino ad ora, la storia della caricatura in Marocco si è sempre dovuta confrontare con le ire del Palazzo.

Caricatura non grata
La caricatura fa la sua comparsa nelle colonne della stampa marocchina fin dal primo periodo post-indipendenza. Negli anni sessanta vedono la luce i primi giornali satirici, Akhbar Dounia e Joha. Poco più tardi, tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo, uno dei pionieri del disegno marocchino, Hamid Bouhali, in compagnia di Mohamed Filali, lancia in rapida successione tre riviste umoristiche: Satirix, in francese, poi Akhbar Souk e Attakchab in arabo. Tra i caricaturisti che più hanno contribuito all’espressione di questo genere giornalistico, il cui riscontro in edicola è strepitoso, c’è anche Larbi Sebbane. Akhbar Souk raggiunge dei picchi di vendite di 180 mila esemplari a settimana, prima di stabilizzarsi sulle 50 mila copie. Tutto sembra procedere bene, fino a quando un disegno del caricaturista Hamouda non attira la collera di Driss Basri, allora ministro dell’Interno: Bouhali, direttore della pubblicazione, viene messo in carcere per un mese, prima di finire agli arresti domiciliari. Dopo un anno, sottoscrive una dichiarazione in cui si impegna a non pubblicare più giornali e riacquista la libertà. Per la caricatura marocchina è la fine della prima grande avventura. In quegli anni, anche il quotidiano L’Opinion propone un supplemento satirico di quattro pagine, Sandwich, che subisce ben presto la stessa sorte dei suoi predecessori. Le sue caricature, che portano la firma di Filali, infastidiscono il regime. Khalid Jamai, all’epoca capo-redattore del giornale, ricorda: “avevamo pubblicato una caricatura di Ronald Reagan con in braccio una scimmia. L’ambasciatore americano, su tutte le furie, andò a protestare dal sovrano. Allora ricevetti una chiamata da Driss Basri, che pronunciò queste parole: . Minacciò di chiudere L’Opinion se avessimo proposto nuove caricature. Sandwich è scomparso così da un giorno all’altro”.
Da quel momento è come se una fatwa vietasse la divulgazione dei disegni satirici. Nel 1989 Hassan II, ospite nel programma francese L’Heure de verité, dichiara: “Non tollererò mai dei giornali come Le Canard Enchainé. Da noi la caricatura è vietata per consenso nazionale”. Quest’ultima deve infatti aspettare fino al 2000, un anno dopo la morte del vecchio re, prima di ritrovare il suo posto in edicola, grazie ad Ali Lmrabet che fonda il giornale satirico Demain Magazine. Ma, anche in questo caso, si tratta di un’esperienza piuttosto breve. Nel 2003, infatti, la pubblicazione viene chiusa e Ali Lmrabet si vede condannato a quattro anni di carcere per “oltraggio al re e attacco ai valori sacri del regno e alla sua integrità territoriale”. Nel 2007 nasce l’ultimo giornale satirico della storia marocchina, Le Canard libéré. Il supporto, tuttavia, non sembra essere all’altezza dei titoli che l’hanno preceduto. Di certo lo si deve alla sua linea editoriale, “basata sul rispetto dei valori religiosi, della patria e dei simboli nazionali”, come viene precisato in un comunicato stampa. La caricatura, in definitiva, pare abbia conservato una cattiva reputazione: la sua presenza nei giornali marocchini è ancora timida e, tra la maggior parte dei disegnatori, prevale l’autocensura.

Lo choc dell’immagine
Come spiegare l’atteggiamento del regime nei confronti della caricatura? Le immagini sembrano spaventare più delle parole, dal momento che hanno un impatto più forte e immediato. Facciamo un esempio: nel luglio scorso è stato censurato un numero del Courrier International, che riproponeva un articolo del Journal Hebdomadaire sull’impero economico di Mohammed VI. Eppure, al momento della sua prima comparsa nel settimanale marocchino, l’articolo in questione non aveva scatenato nessun provvedimento. La differenza è che il Courrier International l’ha pubblicato assieme ad una caricatura di Khalid Gueddar, che raffigura il re ai comandi di una moto d’acqua mentre sta cavalcando un’onda di monete d’oro. In un comunicato, il Ministero della Comunicazione ha spiegato che è stata proprio la presenza del disegno a motivare la censura del giornale francese. Questioni di moralità: ciò che viene detto, non sempre può essere mostrato. “La lettura di una caricatura è più facile rispetto alle pagine di un testo. E’ il primo elemento che ci colpisce quando si sfoglia un giornale, ed è ciò che immancabilmente ci diverte. Il suo messaggio arriva a tutti, perfino agli analfabeti”, fa notare il caricaturista Lahsen Bakhti, che non può nemmeno immaginare Le Monde senza la caricatura di Plantu in prima pagina.
Secondo il semiologo Dakkach Abdelghafar, la caricatura si scontra con una mancanza di cultura dell’immagine: “non ha niente a che vedere con i precetti religiosi, è prima di tutto un problema di insegnamento”. Una constatazione condivisa dalla ricercatrice Laila Moqaddem, specialista delle raffigurazioni visive: “non sappiamo come reagire di fronte alle immagini, dal momento che siamo sprovvisti della formazione necessaria. In Marocco le arti plastiche vengono insegnate solo a partire dalle superiori. Mi sono resa conto che gli studenti sono totalmente ignoranti in materia di raffigurazioni”. Stando alla tesi dell’accademica, se la caricatura irrita così tanto, è perché arriva a toccare direttamente i sentimenti. “La lettura di un’immagine sollecita quella parte del cervello che centralizza le emozioni, mentre la lettura di un testo dipende dall’emisfero della ragione, lo stesso che gestisce il linguaggio, la logica e il calcolo”, analizza Laila Moqaddem, che poi aggiunge: “ci troviamo in un paese che in generale non tollera la critica, pensi un po’ se questa avviene sotto forma di immagine…”.

Laetitia Dechanet
(Le Journal Hebdomadaire n. 416, 7-13 novembre 2009)

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