Reportage da Jerada/2
(Vai alla prima parte del reportage: I “dannati del carbone”)
La vecchia Renault di Said risale lentamente la strada fangosa che costeggia la collina. Aggiriamo Jerada percorrendo un piccolo sentiero secondario, per raggiungere la centrale termo-elettrica senza dare troppo nell’occhio. Le autorità locali non permettono che giornalisti e osservatori arrivino a ficcare il naso nei loro affari, così ci vogliono delle precauzioni. La giornata è grigia, il sole non riesce a penetrare il fitto strato di nuvole che minaccia l’arrivo di una pioggia imminente. Transitiamo vicino ai depositi, dove una decina di persone, la gran parte donne, stanno provvedendo al triage dell’antracite. Un ampio spiazzo ricoperto di sacchi di juta e mucchi di carbone alti circa un paio di metri, flagellato dal vento gelido che soffia dalle montagne dell’Atlante.
Il combustibile fossile estratto dai “pozzi” della zona viene radunato in questo luogo, prima di finire nelle mani dei “baroni”. Qui viene lavorato a mano, con martelli e setacci, e selezionato a seconda della grandezza e della destinazione. Decidiamo di fare una breve sosta. Ci avviciniamo agli operai, che all’inizio ci accolgono con diffidenza. I loro volti sono nascosti dietro a foulard e turbanti sistemati alla meglio per riparasi dalla brezza e dalla polvere nera in cui si ritrovano immersi per più di dieci ore al giorno, dall’alba al tramonto. Aziz inizia a fare domande, cercando di raccogliere informazioni dettagliate sulla loro attività, mentre io scatto qualche foto. Le donne, chine dietro agli ammassi di antracite, sono sorprese dal nostro arrivo e guardano con timore la fotocamera che maneggio con discrezione. Poi, pian piano, sembrano rilassarsi. Alcune mi concedono perfino qualche sorriso, altre invece si mettono in posa, facendo a gara per attirare la mia attenzione.
Dopo aver trascorso una mezz’ora in giro per il deposito, torniamo alla macchina e riprendiamo la strada sterrata. Ancora pochi chilometri e le due ciminiere da cui esalano i vapori della centrale si stagliano nitide di fronte ai nostri occhi. Solo qualche albero, sopravvissuto alla deforestazione che ha investito l’intera vallata nell’ultimo decennio, ci separa ormai dallo stabilimento. Abbandoniamo l’auto dietro ad un cespuglio di rovi e cominciamo il sopralluogo. Ad accompagnarci, oltre a Said, ci sono Jamal e Azouz, tutti responsabili della sezione locale dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo). Said Zeroual, in più, è un vecchio addetto agli impianti di combustione.
Muoviamo i primi passi in direzione di un fossato arido e invaso da strani cumuli giallastri. “Una volta c'era un ruscello, che portava acqua alla città dalla sommità della collina. Ora è diventata una discarica selvaggia”, esordisce Jamal, mentre ci indica le sostanze spugnose che ricoprono il letto del torrente. I camion della centrale arrivano qui ogni giorno per scaricare i rifiuti solidi prodotti dalle caldaie e dai depuratori. Tra le scorie depositate all’aria aperta, riusciamo a scorgere lana di roccia, lana di vetro e amianto, materiali utilizzati per isolare i macchinari. Continuiamo a camminare nel viottolo melmoso che si fa strada tra gli alberi e le scorie ammassate sul terreno. “La fanghiglia biancastra che vedete laggiù – indica Jamal – è quanto resta delle sostanze chimiche impiegate negli impianti di depurazione”. Mentre proseguiamo l’ispezione, Said comincia a raccontare la storia della centrale.
La discarica dell’occidente
Una volta raggiunta l’indipendenza e attuata la nazionalizzazione degli impianti minerari, il governo decide di approfittare delle ingenti quantità di antracite presenti nella regione e affida all’ONE (Ufficio nazionale per l’elettricità) il compito di costruire una centrale termo-elettrica a Jerada. Dal 1971 fino al 1998 il carbone estratto dai cunicoli della miniera viene inviato direttamente alle caldaie dello stabilimento, bruciato e trasformato in energia. Le rotaie che collegavano i due complessi industriali, distanti poche centinaia di metri l’uno dall’altro, sono ancora lì a testimoniarlo. “Per trent’anni la centrale è stata alimentata con l’FMG, una miscela di antracite finissima e schlamm (la fanghiglia prodotta dal lavaggio del carbone, nda)”, ci informa Said. L’FMG è un prodotto tipico delle gallerie scavate nel sottosuolo di Jerada. Per questo, quando la miniera viene chiusa, la centrale deve fronteggiare un serio dilemma. “Bisognava trovare un nuovo combustibile. Così, verso il luglio del 1999, sono arrivati i primi carichi di pet-coke”, continua il responsabile dell’AMDH. Il pet-coke è una sostanza che si ottiene dalla lavorazione del petrolio, come riconosce la sua stessa denominazione scientifica, Petroleum coke. Secondo la comune definizione industriale “è il prodotto ricavato dal processo di condensazione per piroscissione dei residui petroliferi pesanti e oleosi, la cui consistenza può essere spugnosa o compatta”. In breve, si tratta degli scarti che restano alla fine della raffinazione.
L’ONE non si pone troppi problemi e affida l’intera produzione di energia della centrale al nuovo materiale. “Il pet-coke produce molto più calore rispetto all’FMG ed è anche più economico. Per il Ministero era una soluzione conveniente, ma purtroppo stiamo parlando di una sostanza tossica, che dovrebbe essere subito interrata con tutte le misure di sicurezza del caso, invece di essere spacciata per un prodigioso combustibile”, si accende Said. Sono gli Stati Uniti a rifornire il mercato marocchino. “Se il pet-coke è così conveniente come ci hanno ripetuto per anni, allora perché non se lo sono tenuto in America, invece di disfarsene per un prezzo irrisorio?”, si domanda Azouz. Jamal gli risponde in tono rassegnato: “perché noi, Terzo mondo, siamo la discarica dell’occidente. In questo modo gli americani non solo non spendono soldi per il sotterramento dei materiali velenosi, ma in più ci guadagnano, rivendendoli ai paesi cosiddetti bisognosi”. Per la verità non è solo il Terzo mondo ad utilizzare questo prodotto, le cui qualità (basso costo ed elevata produzione di calore) sono ben note agli addetti del settore energetico. In Italia per esempio, l’Agip se ne è servita a lungo per alimentare le centrali termiche di Gela, prima che nel 2002 una sentenza della Corte costituzionale ne vietasse l’utilizzo a causa della sua pericolosità.
I fumi provenienti dalla combustione del pet-coke sono altamente nocivi. “Le alte temperature di fusione provocavano l’esalazione di acido solforico dagli scarichi delle camere di combustione”, spiega Said. Una decina di operai della centrale accusano crisi cardiache e, in particolare gli addetti alle caldaie, lamentano gravi insufficienze respiratorie e disfunzioni sensoriali (vista e olfatto). “Era un massacro. Io stesso sono stato ricoverato più volte. Inoltre, i macchinari si sono ben presto deteriorati. Non erano adatti all’utilizzo di questa sostanza”. Le caldaie esplodono e gli impianti di filtraggio sono deteriorati dagli scarichi corrosivi, venendo così meno alla loro funzione. Gli abitanti di Jerada si oppongono. Anche gli impiegati della centrale cominciano a far sentire la loro voce, sebbene temano di perdere il posto con le loro proteste. Lavorare all’ONE è considerato un lusso in città. L’alternativa è la disoccupazione, il contrabbando di benzina e medicinali alla frontiera con l’Algeria o l’oscurità profonda dei pozzi di carbone.
Il pet-coke conviene, produce più calore e costa meno dell’antracite, ma uccide. Così nel 2006, i dirigenti dell’ONE decidono di interrompere gli approvvigionamenti. “Il Ministero dell’energia e delle miniere ha concluso nuovi accordi con i governi di Russia, Polonia e Sudafrica per la fornitura di un nuovo combustibile, il carbone-vapore”, ci informa Said. In più cerca di stimolare il mercato locale, acquistando il carbone estratto dalle descendries della zona. Una quantità irrisoria rispetto alle forniture provenienti dall’estero (meno dell’1% del consumo annuale), che contribuisce tuttavia a riempire le tasche dei baroni. Il passaggio al carbone-vapore, però, non ha risolto i gravi problemi di inquinamento che ancora affliggono i cittadini di Jerada. “I fumi velenosi sono scomparsi dopo l’abbandono del pet-coke – conclude l’addetto alla centrale – ma l’impiego del nuovo materiale ha determinato un forte aumento dell’emissione di polveri sottili, che sfuggono ai filtri, vecchi e malridotti, e vengono liberate nell’aria dalle ciminiere”.
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