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sabato 20 febbraio 2010

Cartoline da Jerada

Reportage fotografico
Dopo I “dannati del carbone” e I veleni della centrale, ecco l’ultima parte del dossier su Jerada, piccola cittadina di minatori nella regione marocchina dell'Orientale, al confine con l'Algeria.




Le descendries


Hanno cominciato a scavare loro stessi dei “pozzi”, chiamati descendries nel gergo dei carbonai, in modo totalmente artigianale e in condizioni di sicurezza proibitive. “Gli strumenti di lavoro sono arcaici – conferma Azouz – attrezzature obsolete che mettono in pericolo la vita degli stessi minatori”. Pur di rimediare qualche sacco di carbone, sono disposti a calarsi fino a sessanta metri di profondità, il più delle volte muniti soltanto di martello e scalpello.


Per scendere in fondo al camino, i minatori si servono di una corda legata sotto al bacino, collegata ad una carrucola che viene azionata manualmente dagli operai rimasti in superficie.


Una volta raggiunto il giacimento di antracite, inizia la perforazione orizzontale, che avviene seguendo la linea del filone. “Le descendries sono puntellate e rafforzate con gli arbusti delle foreste della zona. In meno di dieci anni sono stati scavati migliaia di pozzi e la superficie verde che circonda Jerada si è ridotta di due terzi…”.



Ogni pozzo dà lavoro ad almeno sei persone: due minatori che scavano (in genere proprietari del pozzo) e quattro operai che si occupano del trasporto in superficie del prodotto. I primi due si spartiscono i proventi della vendita ai baroni, mentre gli altri ricevono una paga giornaliera che oscilla tra i 70 e i 100 dirham (7 e 10 euro).


 



L’estrazione del carbone avanza di pari passo alla deforestazione delle colline che circondano Jerada.



I minatori



Abderrahman ha lavorato nella miniera fino al momento della sua chiusura decretata nel 1998. Membro dell’UMT (Unione marocchina dei lavoratori), ha partecipato alle trattative con il ministero per ottenere l’indennizzo dei minatori. Dal 2002 ha iniziato a scavare pozzi sulle colline come la gran parte dei suoi ex-colleghi. Circa un anno fa, mentre stava lavorando ad una decina di metri di profondità, le pareti della descendrie in cui si era calato hanno ceduto. E’ rimasto bloccato per quattro ore, con il corpo sepolto fino al torace. Solo l’intervento deciso dei compagni è riuscito a salvarlo dall’asfissia.

Kamal ha lavorato nella miniera di carbone dal 1969 al 1981. E’ stato licenziato a causa della sua appartenenza al sindacato. Dopo alcuni anni trascorsi in Spagna è rientrato a Jerada. Ora è proprietario di due pozzi.


Il triage


Il deposito. Un ampio spiazzo ricoperto di sacchi di juta e mucchi di carbone alti circa un paio di metri, flagellato dal vento gelido che soffia dalle montagne dell’Atlante. Il combustibile fossile estratto dai pozzi della zona viene radunato in questo luogo, prima di finire nelle mani dei baroni. Qui viene lavorato a mano, con martelli e setacci. Uomini e donne provvedono alla selezione del carbone, che viene scelto, lavorato e poi separato, a seconda della grandezza e della destinazione. Le grandi reti metalliche, su cui gli operai riversano il contenuto dei sacchi di juta, servono per distinguere il 6/10, il carbone della misura più piccola, di solito impiegato per il consumo domestico. Il compenso varia da un minimo di 50 dirham (per le donne) fino ad un massimo di 80 dirham (per gli uomini).

 





Le donne, chine dietro agli ammassi di antracite, sono sorprese dal nostro arrivo.










Ci avviciniamo agli operai, che all’inizio ci accolgono con diffidenza.


I loro volti sono nascosti dietro a foulard e turbanti sistemati alla meglio per riparasi dalla brezza e dalla polvere nera in cui si ritrovano immersi per più di dieci ore al giorno, dall’alba al tramonto.



La repressione
La manifestazione indetta dai minatori di Jerada il 25 dicembre 2009 è stata repressa duramente dalla polizia locale, che ha arrestato una sessantina di abitanti e li ha torturati all’interno del commissariato cittadino. “La polizia ha rastrellato tutte le strade della città. Gli arresti e le violenze che si sono prodotte tra la notte del 25 e le prime ore del 26 dicembre non hanno seguito nessuna logica precisa, soltanto il bisogno di infliggere una punizione esemplare”.

Jilali è un vecchio membro della CDT (Confederazione democratica del lavoro). Seduto al tavolino di un bar, mentre stringe un bicchiere di tè alla menta con mani tremolanti, Jilali racconta quanto accaduto due settimane fa al suo compagno di cella: “lo hanno spogliato e poi l’hanno steso su una tavola. Gli hanno sistemato quattro barre di ferro appuntite sulle cosce e un poliziotto ha iniziato a camminarci sopra”. (…) “mi hanno fatto una fotografia e poi l’hanno rielaborata al computer per far apparire sullo sfondo il fuoco appiccato durante le rivolte. Un lavoro fatto veramente male, cosa che non ha impedito al giudice di istruzione di utilizzare la foto come prova contro di me”.

Mohamed è il padre di uno dei diciassette imputati finiti di fronte al giudice per la manifestazione del 25 dicembre scorso. “Mio figlio è accusato di furto. Secondo la versione ufficiale, la sera della manifestazione sarebbe sparito un computer da un internet point del centro. Lo hanno costretto a dichiarasi colpevole a forza di botte. Quando l’ho rivisto piangeva ancora come un bambino”.

I diritti umani
La sezione dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo) di Jerada conta più o meno 150 iscritti. Da anni denuncia le condizioni di lavoro a cui sono costretti i minatori della zona e i rapporti clientelari che legano le autorità ai grandi “baroni” del carbone. Questo reportage è stato possibile grazie al prezioso aiuto fornito dai suoi attivisti.






Jamal, presidente della sezione locale dell’AMDH.






Said, responsabile della sezione locale dell’AMDH.






Azouz, responsabile della sezione locale dell’AMDH.

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