Sabato 30 gennaio il tribunale ha confermato la condanna a sei mesi di carcere per Taoufiq Ben Brik. Dure le proteste delle Ong tunisine e straniere, che vigilano sul rispetto dei diritti umani nel paese. Mentre le sue condizioni di salute si aggravano, i familiari del giornalista lanciano un grido di allarme e moltiplicano le iniziative. Silenzio quasi assoluto da parte delle “democrazie” europee.
Il giornalista ancora in carcere
La Corte di appello di Tunisi ha confermato la condanna a sei mesi di carcere per il giornalista Taoufiq Ben Brik. Il verdetto, pronunciato sabato 30 gennaio, conferma la sentenza emessa dal tribunale di primo grado il 28 novembre scorso. Ben Brik, noto oppositore del regime di Ben Ali e difensore dei diritti umani, è accusato di “violenze, oltraggio pubblico dei buoni costumi e distruzione volontaria dei beni altrui”, in seguito alla denuncia presentata da una giovane donna d’affari, misteriosamente scomparsa al momento del processo.
Il giornalista, in carcere dal 29 ottobre, si è sempre dichiarato innocente rispetto ai fatti che gli vengono imputati. “Sono vittima di una macchinazione politica”, ha affermato in aula al momento del processo. Secondo il parere di numerosi osservatori, arrivati a Tunisi per assistere all’udienza, si tratterebbe di una vendetta ordita dal regime in seguito alle critiche apportate da Ben Brik al governo di Ben Ali. I suoi articoli, pubblicati sulla stampa internazionale durante l’ultima campagna elettorale, avevano preso di mira il presidente e la dittatura imposta al paese da oltre vent’anni. L’arresto è avvenuto pochi giorni dopo la quinta rielezione del generale, un tempismo quantomeno sospetto. “Ancora una volta siamo vittime di una decisione imposta, che non ha niente a che vedere con quelle che dovrebbero essere le garanzie giuridiche offerte da uno Stato di diritto”, dichiara la moglie Azza Zarrad all’AFP (l’Agenzia stampa francese), che poi continua: “porteremo la vicenda davanti alle Nazioni Unite”. Gli avvocati di Ben Brik hanno rilevato la presenza di irregolarità e vizi di forma incorsi durante il giudizio di primo grado, tra cui la falsificazione della firma del giornalista sul verbale redatto al momento dell’arresto. Inoltre, hanno continuato ad invocare un confronto diretto con l’autrice della denuncia e con i due testimoni, una richiesta sistematicamente elusa dalle autorità tunisine.
Le reazioni alla condanna
“E’ un verdetto scandaloso, una decisione politica”, protesta Radhia Nasraoui all’uscita del tribunale. Le fa eco l’altro difensore del giornalista, Nejib Chebbi: “la vicenda mostra chiaramente un carattere politico”. Anche la Lega tunisina per i diritti dell’uomo denuncia l’ingerenza del governo e dei servizi nella vicenda. Secondo uno dei responsabili dell’associazione, questo processo avrebbe come unico obiettivo quello di “punire un giornalista libero e indipendente”. Le critiche al regime di Tunisi per la condanna di Taoufiq Ben Brik piovono numerose perfino dall’altra parte del Mediterraneo. Souhayr Belhassen, presidente della Federazione internazionale delle associazioni per i diritti umani, specifica che “questo giudizio è pronunciato da una corte vassalla del potere esecutivo”, mentre Eric Sottas, segretario generale della OMCT (l’Organizzazione mondiale contro la tortura), aggiunge: “se la repressione di ogni forma di dissenso è ormai un prassi sistematica (in Tunisia, nda), i suoi meccanismi si sono ancor più rafforzati dopo la campagna elettorale del 2009”. Anche Reporters Sans Frontieres, che ha seguito attentamente il caso Ben Brik fin dall’inizio, si è unita alle proteste contro un verdetto giudicato iniquo.
Ben diversa è stata la risposta dei governi occidentali. Nel silenzio generale, solo il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner ha manifestato la sua delusione per la condanna del giornalista. L’indomani del pronunciamento dei giudici, sollecitato dai principali organi di stampa nazionali, il ministro ha affermato: “sono un convinto difensore della libertà di stampa, penso che questo principio debba essere rispettato ovunque”. Di fronte alle dichiarazioni di Kouchner, per quanto timide e evasive, la reazione di Ben Ali non si è fatta attendere. Il presidente-generale ha subito denunciato le “interferenze straniere” negli affari interni del paese e, quella che poteva trasformarsi in una vera e propria controversia diplomatica, è stata arginata in fretta solo grazie agli ottimi rapporti che intercorrono tra Tunisi e l’Eliseo. Le potenze europee, tuttavia, avrebbero gli strumenti per intervenire, dato che la Tunisia ha in progetto di presentare a breve una domanda di partenariato. L’Unione europea che, almeno a parole, afferma di essere sensibile al rispetto dei diritti umani, potrebbe quindi esercitare pressioni per esigere la liberazione di Ben Brik e la fine della repressione.
“Le sole armi che ci restano sono i nostri corpi”
Secondo le dichiarazioni dell’avvocato Radhia Nasraoui, il giornalista resterà rinchiuso nel carcere di Silana per altri tre mesi, salvo un provvedimento di grazia presidenziale o un ribaltamento del giudizio in cassazione, possibile solo nei primi dieci giorni dopo il processo d’appello. Il carcere di Silana è tristemente conosciuto per le difficili condizioni di detenzione a cui sono sottoposti i prigionieri. L’igiene è scadente, le visite dei familiari dipendono dagli umori dell’amministrazione carceraria e le cure fornite ai detenuti sono praticamente inesistenti. Tali presupposti avevano messo in allarme la famiglia Ben Brik fin dal momento del suo trasferimento, avvenuto all’inizio di dicembre, nel lontano penitenziario (160 km dalla capitale). Lo stato di salute del giornalista si è aggravato pericolosamente nelle ultime settimane. Affetto dalla sindrome di Cushing, una malattia degenerativa che blocca le difese immunitarie dell’organismo, Taoufiq Ben Brik ha bisogno di una assistenza medica continua e della somministrazione di terapie regolari. “Da quando è in carcere (mio marito, nda) non ha mai avuto il permesso per incontrare il suo medico personale, né i suoi avvocati”, ha ricordato Azza Zarad in un’intervista rilasciata all’AFP nei primi giorni di gennaio. “L’ultima volta che ho visto Taoufiq nella prigione di Silana mi sono spaventata. Aveva il viso gonfio e riusciva a stento a camminare”.
La moglie dell’oppositore, arrivata in Francia il 6 gennaio per sensibilizzare le autorità transalpine sul caso Ben Brik e sulle violazioni commesse dal regime di Ben Ali, aveva iniziato uno sciopero della fame ad oltranza, sostenuta dai fratelli e dalle sorelle del giornalista. “Le sole armi che ci restano sono i nostri corpi”, ha dichiarato a L’Humanité l’8 gennaio scorso. In quei giorni anche la società tunisina aveva dimostrato la sua solidarietà all’oppositore, sfidando la dura repressione delle autorità. Il 30 dicembre una manifestazione non autorizzata, partita dalla sede del giornale Al Mawqaf (organo di stampa del Partito democratico progressista), è stata dispersa brutalmente in seguito all’intervento delle forze di polizia. Un secondo movimento di protesta, guidato dal Comitato tunisino per la protezione dei giornalisti, ha indetto il 5 gennaio uno sciopero della fame di ventiquattrore: “un atto pacifico per attirare l’attenzione sulle condizioni dei nostri colleghi e amici”, ha affermato un responsabile dell’organizzazione.
Tuttavia, né le proteste del Comitato né le grida di allarme lanciate dalla famiglia del giornalista e diffuse dalle Ong internazionali hanno portato i frutti sperati. Taoufiq Ben Brik resta in carcere e il rammarico del ministro Bernard Kouchner è quanto di meglio hanno saputo offrire, nell’ambito di questa vicenda, i rappresentanti dell’occidente “democratico”. “Avrei preferito che la Tunisia intentasse contro di lui un processo politico, dicendo chiaramente sei colpevole di aver scritto questo e quest’altro”, si lascia andare la moglie Azza Zarrad che, da quando il marito è finito agli arresti, vede moltiplicarsi le azioni intimidatorie del regime. “Sono praticamente isolata. Il mio telefono non funziona, le mail vengono intercettate e nemmeno la posta mi viene più recapitata – confessa la signora Ben Brik – viviamo sotto il controllo costante della polizia, perfino mio figlio viene pedinato mentre va a scuola”.
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