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martedì 21 maggio 2013

Marocco: crisi di governo, anzi no. Alcune riflessioni..

La rappresentanza politica marocchina continua a soffrire di estrema fragilità (leggi dipendenza) e di scarsa incisività, mentre il palazzo reale resta la chiave di volta del sistema istituzionale e il vero decision maker. Quanto successo nel finesettimana appena trascorso sembra esserne l'ennesima conferma.



Dopo mesi di polemiche e velate minacce, sabato scorso (11 maggio, nda) il secondo partito di maggioranza - Istiqlal (PI), formazione nazional-conservatrice erede del movimento indipendentista - ha deciso il ritiro dei propri ministri dal governo, guidato - in seguito alle elezioni anticipate del novembre 2011 - dagli islamisti moderati del PJD (Partito della giustizia e dello sviluppo).

I motivi del gesto, secondo il comunicato diffuso dal consiglio nazionale del PI, risiederebbero nell'incapacità del primo ministro Abdelilah Benkirane "di far fronte alla grave situazione economica e sociale che sta attraversando il paese". Un valido pretesto dietro a cui si nascondono, però, ben altre considerazioni. Da un lato la volontà dei rappresentanti nazionalisti di riconquistare una scena mediatica fin qui dominata dal PJD, che cerca di offrire un'immagine dinamica di sé nonostante gli scarsi risultati ottenuti dalla sua azione di governo. Dall'altro, la necessità per il nuovo segretario di partito - Hamid Chabat, in grado di rivaleggiare quanto a populismo ed eccentricità con l'omologo islamista Benkirane - di far accedere ai posti chiave i propri uomini di fiducia, anche solo attraverso un rimpasto (al momento della distribuzione dei ministeri, infatti, le nomine erano state fatte dal predecessore-rivale Abbas El Fassi).

C'è poi tutto l'interesse, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali (consultazioni locali) a smarcarsi dalle misure impopolari - taglio del budget di spesa, riduzione sovvenzioni, aumento carburanti (con ricadute sul prezzo dei prodotti) - adottate recentemente dall'esecutivo, alle prese con un buco di bilancio sempre più preoccupante ed un brusco rallentamento del tasso di crescita.

Il ritiro paventato dall'Istiqlal quindi, nonostante il carattere innovativo dell'iniziativa in un paese dove storicamente i ministri non si dimettono ma vengono deposti, non deve sorprendere più di tanto. Come non sorprende l'immediata reazione del sovrano, che dalla vacanza parigina ha 'esortato' Chabat a fare marcia indietro.

Un vero e proprio veto, quello posto da Mohammed VI, all'ipotesi di una crisi di governo. Tanto che il partito nazionalista, convocato a Palazzo nei prossimi giorni, è sembrato subito disposto a tornare sui propri passi, lodando in un successivo comunicato "la sollecitudine reale" e ribadendo "la totale adesione alla volontà di Sua Maestà".

Un silenzio attendista non privo di imbarazzo, invece, ha avvolto la compagine islamista, forte del sostegno popolare sancito dalle urne un anno e mezzo fa (27% dei suffragi, viziato tuttavia da un largo astensionismo) ma da allora oggetto di critiche provenienti tanto dalla società civile (auto)definita "modernista" che dalle altre sfere vicine a corte.

Lo storico francese Pierre Vermeren, specialista del contesto maghrebino, minimizza la situazione e parla di una "falsa crisi" che, a differenza della dura recessione economica, non tocca i marocchini. Questo perché, malgrado la retorica, le numerose riforme costituzionali - ultima quella del 2011 - non hanno mai posto le basi per una vera democrazia né per una dinamica parlamentare incisiva. L'architettura istituzionale del paese è "complessa", spiega lo studioso, "ma la gestione del potere resta nelle mani del Palazzo (…) che continua a fare e disfare maggioranze".

Ancora più esplicita è l'interpretazione fornita dal giornale web Goud. Quando scoppia una crisi di governo, ricorda il sito di informazione indipendente, un Capo di Stato che si trova all'estero - in visita privata o ufficiale - rientra precipitosamente per evitare che si producano ricadute sulla popolazione. In Marocco succede il contrario e il Capo di Stato se ne va proprio quando i contrasti in seno alla maggioranza si acuiscono. Il messaggio è chiaro: "significa che non c'è nessuna crisi e che quanto successo è solo l'ennesima dimostrazione dell'immaturità dimostrata dai partiti fin dal momento dell'indipendenza" (furono i conflitti all'interno del movimento nazionale a spianare la strada alla monarchia e all'instaurazione del suo controllo capillare e autoritario sul territorio, nda).

Significa anche - prosegue Goud - "che lo Stato non si ritiene coinvolto da queste 'bambinate' che si dipanano nei corridoi di ciò che è comunemente chiamato governo, i cui membri si riducono a semplici funzionari di Sua Maestà. (…) la stabilità politica non è messa in discussione perché il vero esecutivo, quello formato dai consiglieri del sovrano, resta saldo e omogeneo".

I marocchini, secondo l'intellettuale Ahmed Assid, starebbero dunque assistendo ad "una farsa", grazie a cui - probabilmente - l'Istiqlal riuscirà ad ottenere una redistribuzione delle carte in tavola, un indebolimento della gouvernance islamista, ma soprattutto la monarchia rafforzerà la sua immagine "pacificatrice". Tornare alle urne, infatti, è una prospettiva da escludere, in primis per lo stesso Mohammed VI, poiché sancirebbe il fallimento prematuro del 'processo di riforme' di cui le elezioni del 2011 e l'accesso del PJD alla sfera decisionale sono parte integrante (almeno secondo la propaganda ufficiale).


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