La
rappresentanza politica marocchina continua a soffrire di estrema fragilità (leggi
dipendenza) e di scarsa incisività, mentre il palazzo reale resta la chiave di
volta del sistema istituzionale e il vero decision maker. Quanto successo nel
finesettimana appena trascorso sembra esserne l'ennesima conferma.
Dopo
mesi di polemiche e velate minacce, sabato scorso (11 maggio, nda) il secondo partito di maggioranza -
Istiqlal (PI), formazione nazional-conservatrice erede del movimento
indipendentista - ha deciso il ritiro dei propri ministri dal governo, guidato
- in seguito alle elezioni anticipate del novembre 2011 - dagli islamisti
moderati del PJD (Partito della giustizia e dello sviluppo).
I
motivi del gesto, secondo il comunicato diffuso dal consiglio nazionale del PI,
risiederebbero nell'incapacità del primo ministro Abdelilah Benkirane "di
far fronte alla grave situazione economica e sociale che sta attraversando il
paese". Un valido pretesto dietro a cui si nascondono, però, ben altre considerazioni.
Da un lato la volontà dei rappresentanti nazionalisti di riconquistare una
scena mediatica fin qui dominata dal PJD, che cerca di offrire un'immagine
dinamica di sé nonostante gli scarsi risultati ottenuti dalla sua azione di
governo. Dall'altro, la necessità per il nuovo segretario di partito - Hamid
Chabat, in grado di rivaleggiare quanto a populismo ed eccentricità con l'omologo
islamista Benkirane - di far accedere ai posti chiave i propri uomini di
fiducia, anche solo attraverso un rimpasto (al momento della distribuzione dei
ministeri, infatti, le nomine erano state fatte dal predecessore-rivale Abbas
El Fassi).
C'è
poi tutto l'interesse, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali (consultazioni
locali) a smarcarsi dalle misure impopolari - taglio del budget di spesa,
riduzione sovvenzioni, aumento carburanti (con ricadute sul prezzo dei
prodotti) - adottate recentemente dall'esecutivo, alle prese con un buco di
bilancio sempre più preoccupante ed un brusco rallentamento del tasso di
crescita.
Il
ritiro paventato dall'Istiqlal quindi, nonostante il carattere innovativo dell'iniziativa
in un paese dove storicamente i ministri non si dimettono ma vengono deposti,
non deve sorprendere più di tanto. Come non sorprende l'immediata reazione del
sovrano, che dalla vacanza parigina ha 'esortato' Chabat a fare marcia
indietro.
Un
vero e proprio veto, quello posto da Mohammed VI, all'ipotesi di una crisi di
governo. Tanto che il partito nazionalista, convocato a Palazzo nei prossimi
giorni, è sembrato subito disposto a tornare sui propri passi, lodando in un
successivo comunicato "la sollecitudine reale" e ribadendo "la
totale adesione alla volontà di Sua Maestà".
Un
silenzio attendista non privo di imbarazzo, invece, ha avvolto la compagine
islamista, forte del sostegno popolare sancito dalle urne un anno e mezzo fa
(27% dei suffragi, viziato tuttavia da un largo astensionismo) ma da allora
oggetto di critiche provenienti tanto dalla società civile (auto)definita
"modernista" che dalle altre sfere vicine a corte.
Lo
storico francese Pierre Vermeren, specialista del contesto maghrebino, minimizza
la situazione e parla di una "falsa crisi" che, a differenza della
dura recessione economica, non tocca i marocchini. Questo perché, malgrado la
retorica, le numerose riforme costituzionali - ultima quella del 2011
- non hanno mai posto le basi per una vera democrazia né per una dinamica
parlamentare incisiva. L'architettura istituzionale del paese è
"complessa", spiega lo studioso, "ma la gestione del potere
resta nelle mani del Palazzo (…) che continua a fare e disfare maggioranze".
Ancora
più esplicita è l'interpretazione fornita dal giornale web Goud.
Quando scoppia una crisi di governo, ricorda il sito di informazione
indipendente, un Capo di Stato che si trova all'estero - in visita privata o
ufficiale - rientra precipitosamente per evitare che si producano ricadute
sulla popolazione. In Marocco succede il contrario e il Capo di Stato se ne va
proprio quando i contrasti in seno alla maggioranza si acuiscono. Il messaggio è
chiaro: "significa che non c'è nessuna crisi e che quanto successo è solo
l'ennesima dimostrazione dell'immaturità dimostrata dai partiti fin dal momento
dell'indipendenza" (furono i conflitti all'interno del movimento nazionale
a spianare la strada alla monarchia e all'instaurazione del suo controllo
capillare e autoritario sul territorio, nda).
Significa
anche - prosegue Goud - "che lo Stato non si ritiene coinvolto da queste
'bambinate' che si dipanano nei corridoi di ciò che è comunemente chiamato
governo, i cui membri si riducono a semplici funzionari di Sua Maestà. (…) la
stabilità politica non è messa in discussione perché il vero esecutivo, quello formato
dai consiglieri del sovrano, resta saldo e omogeneo".
I
marocchini, secondo l'intellettuale Ahmed Assid, starebbero dunque assistendo
ad "una farsa", grazie a cui - probabilmente - l'Istiqlal riuscirà ad ottenere
una redistribuzione delle carte in tavola, un indebolimento della gouvernance
islamista, ma soprattutto la monarchia rafforzerà la sua immagine
"pacificatrice". Tornare alle urne, infatti, è una prospettiva da
escludere, in primis per lo stesso Mohammed VI, poiché sancirebbe il fallimento
prematuro del 'processo di riforme' di cui le elezioni del 2011 e l'accesso del
PJD alla sfera decisionale sono parte integrante (almeno secondo la propaganda
ufficiale).
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