"Gli
interessi e i legami in ballo sono molteplici, si tratta di una rete abilmente
tessuta da entrambe le parti che si regge su una sorta di do ut des. Agevolazioni economiche, affari, in cambio di appoggio
politico". Intervista al giornalista marocchino Ali Amar, che racconta la
storia di una decolonizzazione mai realmente avvenuta, di "un'indipendenza
nell'interdipendenza".
La
visita di Francois Hollande in Marocco qualche settimana fa, la prima ufficiale
da Presidente della Repubblica, non ha riservato particolari sorprese. Più
dimessa nei toni rispetto a quelle del suo predecessore Sarkozy, nonostante il
consueto sfarzo dell'accoglienza monarchica, è rimasta nei confini del
protocollo.
Chi
si aspettava che il cambio di inquilino all'Eliseo presupponesse una revisione
delle relazioni privilegiate tra Parigi e Rabat è rimasto deluso. Destra o
sinistra, in diplomazia, la Francia resta un'adepta fedele della realpolitik,
preferisce parlare di affari piuttosto che di diritti umani.
Nessun
segnale di rottura. Hollande, accompagnato da una cinquantina di imprenditori,
si è guardato bene dal sollevare questioni 'scomode' per le autorità di Rabat
(nonostante alcuni appelli al riguardo, tra cui quello
di Human Rights Watch).
Nessun
accenno, dunque, alla repressione dei movimenti di contestazione, siano essi di
natura sociale o politica, né allo sciopero della fame avviato dai detenuti
politici e nemmeno agli attacchi ripetuti alla libertà di espressione.
Il
Presidente si è felicitato di fronte al Parlamento locale dei "passi
decisivi compiuti verso la democrazia", ha ribadito la credibilità del
progetto di autonomia per il Sahara presentato da Rabat e ha lodato "la
volontà riformatrice del re Mohammed VI", lo stesso che ha onorato la
firma di nuovi contratti commerciali - nuove commesse per l'industria francese
- a margine della visita.
Hollande
ha anche dichiarato che il Marocco si sta affermando come "un paese di
stabilità e di serenità", dimenticando - forse - il 30% della popolazione
che vive al di sotto della soglia di povertà e che la (relativa) stabilità
dimostrata durante le turbolenze della primavera regionale è stata in parte
comprata con l'aumento della spesa pubblica per la sovvenzione dei prodotti di
base, una scelta che ha rapidamente aggravato la crisi
di bilancio del regno e che potrebbe scatenare un nuovo, ben più consistente,
malcontento.
Insomma,
niente di nuovo sotto il sole (franco-marocchino). La continuità sembra
assicurata, come conferma il giornalista Ali Amar, autore assieme al collega
Jean-Pierre Tuquoi del libro Paris-Marrakech.
Luxe, pouvoir et réseaux (Calmann-Lévy, 2012), opera incentrata sulle reti
di potere e i traffici di influenze tra le due sponde del Mediterraneo.
Amar,
che abbiamo intervistato per scavare più a fondo sui legami particolari che
uniscono l'ex colonia a Parigi, è stato tra i fondatori del settimanale Le journal hebdomadaire, rivista
indipendente nota per la sua 'mancanza di riguardi' nei confronti del regime e
costretta alla chiusura nel 2010 in seguito ad una dura campagna di
boicottaggio pubblicitario. Da allora tutti i beni del giornalista sono finiti
sotto sequestro, compresi i conti bancari. Attualmente vive a Lubiana dove
beneficia di un programma di assistenza biennale per scrittori e intellettuali
perseguitati in patria (International Cities of Refuge Network).
Ali
Amar è anche autore di Mohammed VI. Le
grand malentendu (Calmann-Lévy, 2009) - libro vietato nei confini del regno
- in cui ripercorre con occhio critico i primi dieci anni dall'ascesa al trono
del giovane sovrano e la sua 'politica di riforme' celebrata tanto in Marocco
che all'estero, in primis dai fedeli amici francesi.
Partiamo
dal suo caso personale. Quello di un giornalista impegnato, un oppositore del
regime, che dopo le vicissitudini patite in patria trova finalmente una tribuna
pronta ad accoglierlo, un sito di informazione francese (Slate Afrique).
Improvvisamente però, dopo due anni di collaborazione, la sua non è più una
firma preziosa ma una presenza ingombrante, scomoda, e viene licenziato in malo
modo (come conferma un articolo pubblicato su Mediapart).
Quanto ha a che fare tutto questo con l'argomento della nostra intervista?
Prima
di tutto, ci tengo a sottolineare che la mia relazione personale con la Francia
è iniziata presto, ho studiato nelle scuole della Repubblica fin dalle
elementari e la considero la mia seconda patria, soprattutto in termini di formazione
intellettuale. Scrivere per un giornale francese, dopo i problemi avuti in
Marocco, lo consideravo un modo per continuare con serenità il mio lavoro di
inchiesta. Lo credevo un riparo dove fosse possibile esprimersi liberamente, da
cui far sentire la mia opinione dissonante.
Evidentemente
mi sbagliavo, non avendo fatto i conti con la mole e la profondità degli
interessi incrociati tra Rabat e Parigi. Il mio licenziamento da Slate non è dovuto a mancanze
professionali, come qualcuno ha voluto far credere, ma alle pressioni dei
finanziatori sulla direzione (in crisi economica e in cerca di ossigeno in
Marocco), un fatto che dimostra fino a dove l'influenza delle lobby franco-marocchine
può arrivare. Una situazione incomparabile con altre realtà post-coloniali. Anche
gli inglesi mantengono legami particolari con le ex-colonie del Commonwealth,
la regina conserva una sorta di autorità morale sul Canada o sull'Australia, ma
nel nostro caso siamo ben al di là. Come scrivo nel mio libro ci sono relazioni
incestuose tra le elite marocchine e quelle francesi.
Da
questo punto di vista, la visita di Hollande non sembra aver portato novità su
quello che lei descrive come l' "asse Parigi-Marrakech"..
Direi
di no. Alla base di questa visita non c'erano nodi da sciogliere né imperativi
impellenti, se non ribadire che il nuovo Presidente non avrebbe messo in
discussione la continuità e la tipologia dei rapporti più che privilegiati storicamente
intrattenuti. Anche gli accordi economici siglati erano già stati preparati e
discussi in una serie di incontri precedenti.
Hollande
tuttavia non è (ancora) un habitué dei voli Parigi-Marrakech, di questa forma
di corruzione delle elite politiche, economiche e culturali. Inoltre ha un
ascendente manifesto per l'Algeria, alleata del Fronte Polisario, e il fatto
che la sua prima visita ufficiale all'estero sia stata fatta ad Algeri ha dato
fastidio a Palazzo, sempre attento a questo tipo di formalità. Serviva una
risposta. Il Marocco aveva bisogno di sentirsi ancora il figlio prediletto
della Francia, di non perdere questa particolare leadership nella regione.
Quali
sono gli interessi su cui si fondano questi rapporti "più che privilegiati"?
Gli
interessi e i legami in ballo sono molteplici, si tratta di una rete abilmente
tessuta da entrambe le parti che si regge - alla base - su una sorta di do ut des. Agevolazioni economiche,
affari, in cambio di appoggio politico. Dal punto di vista marocchino, il
discorso potrebbe essere sintetizzato in questo modo: "noi vi diamo tutti
i vantaggi qui, come una terra promessa, e in contropartita la diplomazia
francese appoggia incondizionatamente il regime".
Ecco
allora che la Francia è il primo fornitore di capitali e il primo beneficiario
dei mercati marocchini, una sorta di piscina in cui tuffarsi senza timori per
le grandi compagnie quotate in borsa (CAC 40), mentre gli scambi commerciali
tra i due paesi hanno rappresentato un quinto del volume totale negli ultimi
dieci anni.
Sul
versante opposto, Parigi si è fatta portavoce della 'marocchinità' del Sahara
Occidentale e strenua sostenitrice di questa politica al Consiglio di sicurezza
dell'ONU. Sarkozy si è impegnato a fondo affinché il regno alawita ottenesse lo
'statuto avanzato' nel partenariato con l'Unione europea (sinonimo di prestiti
a tasso ridotto e accesso facilitato ai mercati europei), nonostante le
resistenze dei paesi scandinavi, intransigenti sul rispetto dei diritti umani.
Eliseo e Quai d'Orsay (Ministero Esteri) si sono adoperati in ogni modo per promuovere
il miraggio della "democrazia marocchina" e le "riforme di un re
visionario".
In
questo senso, il discorso pronunciato da Hollande di fronte al Parlamento di
Rabat si inscrive nella continuità di cui parlavamo prima. Nessuna menzione
alle violazioni seguite alla primavera locale, gli abusi e le torture sui
prigionieri denunciate su scala internazionale. Soltanto adulazione, mentre lo
stesso Hollande, nella riunione che si tiene ogni anno con gli ambasciatori,
aveva affermato: "dirò sempre tutto, dappertutto". Sembra piuttosto
che dica quello che l'uditorio del momento si aspetti che dica. Ad Algeri aveva
fatto lo stesso.
Per
concludere riguardo agli interessi in gioco, c'è poi la questione dell'ingerenza
marocchina, attraverso le donazioni e le influenze monarchiche, nell'islam di
Francia (finanziamento associazioni, costruzione moschee, nomina imam). Una
consuetudine ormai consolidata che non piace al Ministero dell'Interno ma di
cui si parla poco, essendo tollerata e tenuta ben nascosta dai riflettori.
La
candidatura di Hollande all'Eliseo aveva suscitato non pochi timori sul
versante marocchino. Timori ingiustificati, alla luce dei fatti…
Sì,
pur essendo ancora prematuro dare un giudizio definitivo. A spaventare la
controparte marocchina, oltre al debole algerino manifestato da Hollande, era
l'assenza di legami 'personali' con questa figura. Chirac era considerato uno
di famiglia in Marocco, Sarkozy si è guadagnato la nomea di 'miglior amico' di
Mohammed VI.
Pur
tenendo presente la sostanziale preferenza per gli esponenti della destra
francese, il candidato ideale del Partito socialista agli occhi dell'élite
marocchina - nonché il più quotato alla vittoria finale prima di essere
sommerso dagli scandali - era Dominique Strauss-Kahn, un 'figlio di Agadir' e un
assiduo frequentatore dei salotti del regno.
Con
Hollande, invece, erano i fantasmi della prima gestione Mitterand a risorgere.
Ma se Hollande, come accennavo prima, non è un habitué dei voli
Parigi-Marrakech, gran parte del suo entourage sì. Tra gli amici di Palazzo,
spiccano su tutti i nomi dei ministri Najat Vallaud-Belkacem (anche portavoce
del governo) e Manuel Valls. Quanto basta per stare tranquilli.
In
uno dei suoi ultimi articoli
- "Ce que Mohammed VI doit au maréchal Lyautey" - lei parla di come il
Protettorato francese abbia favorito la strutturazione del regime marocchino attuale.
E' qui l'origine dell' "incesto"?
Sì.
Ha avuto inizio quasi per caso, con l'arrivo in Marocco del primo Residente
generale (vertice militare e civile del Protettorato, nda). Lyautey aveva capito che la Francia, nella conduzione degli
affari coloniali, non doveva ripetere gli errori commessi in Algeria. Del resto
lui stesso era un monarchiste,
espressione della Francia dell'ordine e dei vecchi valori aristocratici.
In
Marocco ha sublimato il sultanato dell'epoca, che non era ben saldo su tutto il
territorio oggi conosciuto, e ha inaugurato la strategia di cooptazione delle
elite locali ancora vitale per il Palazzo. E' riuscito a duplicare l'impianto
amministrativo, centralizzato, di stampo francese, a cui poi ha affiancato il
fasto e il decoro delle monarchie di ancien
regime, oltre alla sacralità e alla ritualità dei primi imperi islamici.
In
altre parole, Lyautey ha gettato le basi per la formattazione di un regime a
metà tra modernità e rigido tradizionalismo, un modello unico nel mondo, forse
paragonabile solo a quello degli Shogun giapponesi.
Allo
stesso tempo, ha inserito il retrovirus che lega il Marocco al 'territorio
metropolitano'. Già sotto il Protettorato era iniziata la formazione delle
elite nelle scuole francesi, una pratica che prosegue ancora oggi. Mentre,
all'epoca dei negoziati di Aix-les-Bains (1955), si parlava apertamente di una
"indipendenza nell'interdipendenza". Terminologia in seguito
accantonata per esigenze di nazionalismo ufficiale. Ma se andiamo a Casablanca
ci accorgiamo che la statua di Lyautey non è stata abbattuta, solo leggermente
spostata dal centro della piazza principale.
La
doppia identità e i legami sono rimasti intatti, nonostante le piccole crisi
che si sono avute tra Rabat e la Repubblica. Il Marocco non ha mai rotto il
cordone ombelicale, nemmeno in termini di strutture economiche e resta una
'riserva protetta'. Le terre espropriate durante il periodo coloniale non sono
tornate ai legittimi proprietari ma alla monarchia, che le distribuisce come
fonti di rendita ai suoi fedelissimi. La holding del sovrano (ONA, Omnium
Nordafricain), che oggi controlla i settori strategici dell'economia nazionale,
era all'inizio un insieme delle vecchie compagnie francesi sotto il
Protettorato.
Ci
descriva meglio come funziona oggi questa "riserva protetta", se
possibile facendo qualche esempio…
Stilare
una lista completa di tutte le imprese francesi insediate in Marocco, o che
beneficiano di contratti importanti, è un compito arduo. Le compagnie del CAC
40 costituiscono senz'altro il nocciolo duro, seguite da uno sciame di piccole
e medie imprese concentrate soprattutto nei rami dell'informatica e dei call
center.
Per
fare dei nomi, Safran domina il mercato delle forniture aeronautiche, Renault è
la sola a costruire automobili nel regno, Lafarge è il primo cementificio,
Veolia e GDF Suez si sono accaparrate i servizi nelle principali città, Alstom
il tram di Rabat e di Casablanca…
In
generale, sono pochi i grandi progetti che si realizzano senza
'l'accompagnamento' francese. E a fare da apripista è spesso l'organo preposto
alla cooperazione governativa, l'Agence française de developpement (AFD), che
distribuisce i fondi per lo sviluppo.
Questi
'aiuti economici' (prestiti a lunga scadenza e a tassi di interesse
vantaggiosi), che hanno permesso al Marocco di avviare la politica dei 'grandi
cantieri', si trasformano poi in mercati, assegnati alle industrie francesi
senza il rispetto delle regole di trasparenza. Vale a dire che il Marocco
acquista infrastrutture dalla Francia con i soldi presi in prestito dalla
Francia stessa. L'esempio più eclatante è quello del TGV, su cui mi soffermo a
lungo nel libro dato il risvolto politico, non solo economico, che ha assunto.
Per
essere ancora più chiari, imprese come SNCF, Vivendi, Bouygues, Veolia, Alstom,
vengono ricevute direttamente a Palazzo o passano attraverso intermediari di
fiducia. E' in questo modo che avviene l'attribuzione del mercato, della
commessa, non attraverso l'apertura di un d'appalto.
Un
altro esempio delle svariate forme di facilitazioni, o corruzione, concesse
nella 'riserva protetta'. In passato l'impresa Accor, che dispone di numerose
filiali nel settore del turismo di lusso, ha beneficiato di sconti speciali per
l'acquisto dei terreni su cui ha costruito i suoi impianti.
La
stessa holding reale era solita associarsi a queste società, prima di ridefinire
le partnership commerciali e dar sfogo alla sua voracità.
In
effetti non ci sono solo "esperienze positive". Qualche problemino si
è pur verificato negli ultimi anni per alcune aziende francesi installate in
Marocco…
Il
caso emblematico è quello della catena di supermercati Auchan, associata al palazzo
reale via la holding ONA e partner al 50-50 in un progetto di grande
distribuzione (Marjane). Ma l'esempio è sui
generis, c'è un elemento che molte volte viene perso di vista. Auchan non è
espressione dell'asse Parigi-Marrakech, o meglio Parigi-Rabat. Si tratta di
un'impresa non quotata in borsa, a carattere familiare e ad iniziale
radicamento provinciale, prima del boom. Per questo il suo siluramento, a
vantaggio dell'ONA, non ha suscitato troppo scandalo nella sponda nord. Altri
casi invece (Axa, Danone..) hanno richiesto arbitrati ufficiosi a corte,
piccole crisi che non hanno però intaccato la relazione tra i due partner.
L'essenziale
è il rispetto della regola aurea: "i profitti sono facili e consistenti a
patto di non fare ombra agli interessi di Palazzo", come ricordano i
documenti pubblicati da Wikileaks. I cabli confermano l'aspetto cannibalesco, predatore
- per riprendere la definizione di due amici e colleghi (C. Graciet e E.
Laurent, Le roi prédateur, Seuil,
2012) - dell'affarismo monarchico e il carattere mafioso del sistema economico
marocchino.
Marrakech.
E' qui che si apre e si chiude il suo libro, è la città ocra l'emblema delle
"relazioni incestuose". Perché?
Per
prima cosa, Marrakech è il simbolo di un esotismo radicato nell'immaginario
francese - i palmeti, le oasi, uno scenario orientalista alla Laurence d'Arabia
- un esotismo lontano alla fine vicino, se si pensa che la città è a solo 3 ore
di volo da Parigi.
Già
Churchill, ad inizio del secolo scorso, ne parlava come della "Parigi del
deserto". La nuova forma di delocalizzazione rituale da parte delle elite
politiche francesi - oltre alle orde di turisti, uno su cinque in media, in
arrivo dall'Esagono - l'hanno poi trasformata nel 22° arrondissement della capitale - 'Marrakech-sur-Seine' - tanto sono
pregnanti gli sviluppi politici ed economici che vengono decisi nei suoi
lussuosi palazzi (Mamounia, Royal Mansour, Es Saadi) e nei riad messi a disposizione da Mohammed VI o da altri personaggi di
corte.
Riunioni,
festeggiamenti, vere e proprie migrazioni - soprattutto in periodo invernale -
dei più alti rappresentanti della classe politica, dei media, dello spettacolo.
Sembra quasi si tratti di un circolo di iniziati. E' qui che gli altolocati
"amici del Marocco" ricevono le loro gratificazioni o vengono a
trascorrere le loro pensioni dorate.
Ma
l'afflusso non si limita solo ad affarismo, disegni politici o vacanze da sogno.
Marrakech assume i toni, purtroppo, della nuova Sodoma, la città in cui tutti
gli eccessi - non solo i piaceri - sono concessi. I casi recensiti -
sfruttamento della prostituzione, pedofilia - sono numerosi, come pure i
reportage in materia. Casi che spesso coinvolgono personaggi di rilievo e che,
nonostante il clamore mediatico, rimangono impuniti.
Lei
ha parlato più volte di "amici del Marocco", lobby franco-marocchine,
reti clientelari. Quali sono queste reti e qual è il loro peso?
Si
parla molto del peso delle lobby israeliane nella politica internazionale
statunitense, nelle decisioni adottate dal Congresso e nell'elezione dei
presidenti. Ebbene, la lobby più potente insediatasi a bordo Senna è quella
franco-marocchina, che non ha nulla da invidiare ai colleghi d'oltre oceano.
Si
tratta di una rete radicata su piani e livelli differenti, e anche qui è quasi
impossibile tracciare un quadro dai contorni completi. All'interno vi sono
figure di primo piano nate e/o cresciute in Marocco, con cui conservano legami di
intimità e che hanno un attaccamento sincero, probabilmente naif, a questa
terra. Ci sono poi i club ufficiali di "amicizia Francia-Marocco" -
molto affollati quelli all'Assemblea nazionale e al Senato - vere e proprie
macchine di propaganda che sostengono attivamente la retorica ufficiale del
regime. Organizzano incontri, conferenze e cerimonie, supportate
dall'ambasciata marocchina a Parigi, per promuovere l'immagine del regno e la
posizione di Rabat sul dossier Sahara Occidentale.
Ma
il corteggiamento, che sfiora la bassa compravendita di coscienze, non riguarda
solo la scena politica. Professori universitari, giornalisti, personaggi della
cultura, vedette dello spettacolo, si contano a decine le figure insignite del
Wissam alawita (la più alta distinzione, per i servizi offerti, concessa dal
Marocco) o altro genere di ricompense. Ci sono poi i finanziamenti elargiti a
centri di ricerca e fantomatici think tank, che emettono a comando pareri e
analisi gradite..la lista è lunga.
In
che modo la crisi economica marocchina e la vittoria alle ultime elezioni del
partito islamico PJD incideranno sul futuro dell'asse Parigi-Marrakech?
Il
Marocco si trova davanti ad una crisi economica strutturale, questo significa
che prima o poi sarà obbligato a rivedere le condizioni "speciali" in
cui maturano i partenariati, ad aprire veramente il suo sistema economico alla
competitività e a rivedere le scelte strategiche. Ad esempio la politica dei
grandi cantieri, le 'grandi cattedrali nel deserto' che tanto stanno fruttando
all'industria pesante francese. La 'riserva protetta' potrebbe gradualmente
estinguersi, tanto che la Spagna ha già superato la Francia nel 2012 per volume
di scambi (esclusivamente) commerciali.
La
vittoria del PJD alle elezioni, invece, non avrà incidenze in sé, visto il peso
marginale che il Parlamento e gli attori della rappresentanza politica hanno in
questo genere di relazioni. Il primo esempio è ancora una volta il TGV,
giudicato inutile e non prioritario da alcuni esponenti del PJD prima
dell'accesso al governo, ma mai rimesso in discussione al momento
dell'approvazione del budget di spesa.
C'erano
state inquietudini a Parigi subito dopo il voto, come nel caso marocchino per
l'elezione di Hollande, ma la parabola del PJD offriva da sola sufficienti
garanzie. Certo è un partito islamista, ha idee conservatrici, ma come attore
politico è una pura creazione del makhzen
(regime, nda) sotto Hassan II.
La
speranza invece - nutrita da quei cittadini che l'hanno votato - che riuscisse
ad apportare una moralizzazione e un senso dell'etica nella vita pubblica
(quindi anche politica ed economica), è morte ancor prima che venisse formato
il governo. E' morta quando il sovrano ha formalizzato l'esistenza di un
gabinetto reale - in cui ad ogni ministro corrisponde più o meno un consigliere
monarchico - che riveste le vere funzioni esecutive del paese, mentre gli
strumenti rappresentativi servono solo da cassa di risonanza per le decisioni
prese altrove.
Nessun commento:
Posta un commento