Perché
tutto rimanga com'è bisogna che "niente" cambi. Non è una svista, ma
la riedizione dell'adagio gattopardesco in salsa algerina. Mentre il Presidente
in carica si avvia al trionfo elettorale, per le strade cresce il dissenso.
Fine
della suspense, o almeno così sembra. All'età di 77 anni, in carica dal 1999,
Abdelaziz Bouteflika (già ministro degli Esteri nel primo governo Ben Bella e
poi con Boumedienne, 1963-1979) ha presentato la sua ri-candidatura alla Presidenza
del paese, in vista delle elezioni che si terranno il prossimo 17 aprile.
Lo
ha annunciato il primo ministro Abdelmalek Sellal e lo ha confermato lo stesso
Bouteflika il 3 marzo scorso, adempiendo alle formalità burocratiche previste
dalla costituzione sotto i riflettori della televisione nazionale. La stessa
costituzione che era stata modificata nel 2008 per permettere al Presidente di
ovviare al limite di due mandati e di trionfare senza rivali nello scrutinio
dell'anno successivo.
Eppure
le precarie condizioni di salute - complicate dall'ischemia della primavera
scorsa, che lo ha costretto per quasi tre mesi al ricovero in Francia - lasciavano
presagire ad un possibile ritiro del Presidente dalla scena pubblica, come del
resto la lunga riserva sulla candidatura sciolta soltanto a poche ore dal
limite fissato dalla corte costituzionale per il deposito dei dossier.
Quella
del 3 marzo, fra l'altro, è stata la prima apparizione in pubblico di
Bouteflika da oltre un anno a questa parte, ma le parole pronunciate durante la
diretta video - di pochi secondi - sono sembrate a dir poco incomprensibili per
i telespettatori.
Pur
malato e indebolito, probabilmente non più in grado di adempiere alle sue
funzioni - e l'Algeria, ricordiamolo, ha un'organizzazione di governo
spiccatamente presidenziale - l'attuale Capo di Stato si presenta pertanto, per
la quarta volta consecutiva, come favorito all'imminente appuntamento con le
urne. Come è possibile?
La natura del regime
"Il
regime algerino può essere concepito come un cartello economico - spiega il
professor Thomas Serres (Università di Saint-Etienne),
profondo conoscitore del paese - ossia un insieme di attori che controllano un
ampio settore (lo Stato) e si accordano per spartirne i benefici, che siano
materiali o simbolici". In altre parole, la rendita degli idrocarburi (98%
delle esportazioni) o i posti di rappresentanza nelle istituzioni, che fungono
da paravento democratico.
Questi
attori, continua l'accademico, appartengono ad orizzonti diversi (militari,
tecnocrati e personaggi politici) e non hanno bisogno di condividere in toto
gli orientamenti del governo, su cui si consumano spesso divergenze, scontri
individuali o legati a cerchie di potere (comunemente definite "clan"
dalla stessa opinione pubblica algerina).
"La sola che conta,
alla fine, è il mantenimento dello statu quo e la continuazione dell'accesso ai
benefici che i rispettivi ruoli comportano".
Uno
statu quo ristabilito a caro prezzo per la popolazione - dopo la 'deriva
democratica' che aveva portato il Fis alla vittoria delle elezioni (1990, 1991)
e il colpo di mano militare che ha sprofondato il paese nella spirale di
violenze del 'decennio nero' - proprio grazie al consenso raggiunto nelle alte
sfere attorno alla figura di Bouteflika.
La
conferma della natura opaca di un regime - di cui "è difficile definire i
contorni" - arriva dalla ricercatrice franco-algerina Karima Direche
(direttrice dell'Institut de recherche sur le Maghreb contemporain - Irmc - di
Tunisi).
"E'
arduo azzardarsi in un'interpretazione delle dinamiche di potere, ma di certo
il capo dello Stato non è il solo a prendere le decisioni. Fa parte di una più
vasta oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi
della politica algerina fin dal colpo di stato del 1965 - spiega l'accademica -.
L'esercito costituisce la spina dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale
nella cooptazione delle elite e dei partiti incaricati dell'amministrazione di
governo".
Ed è proprio
all'interno degli apparati militari che sembra consumarsi, in questi ultimi
mesi, un acceso confronto tra i vertici dello Stato maggiore e la Drs - gli
influenti servizi segreti guidati dal generale "Toufik" Mediene - in
cui l'entourage presidenziale rivestirebbe una mera funzione di contorno e
bilanciamento.
E'
in questa ottica che - secondo gli analisti di Algeria Watch - deve essere
letto il duro attacco sferrato dal segretario del Fln Amar Saadani (primo
partito in Parlamento e formazione di riferimento di Bouteflika, di cui è
presidente onorario) contro Toufik, ad inizio febbraio scorso. Saadani ha
pubblicamente dichiarato che i servizi "oltrepassano le loro
prerogative" interferendo nel lavoro della giustizia, dei media e dei rappresentanti
politici. Un affondo che si aggiunge al siluramento di alcuni importanti
generali vicino al capo dell'intelligence.
L'obiettivo
primario della contesa è il riequilibrio delle influenze sui centri di potere
decisionale (e sulla conseguente spartizione della rendita economica), a lungo nettamente
proteso a favore della Drs rispetto ad uno Stato maggiore a competenze ridotte.
Una situazione che va
avanti dalla metà degli anni novanta, ossia dal momento in cui i servizi sono
intervenuti in prima linea per condurre la "guerra sporca contro il
terrorismo". La loro egemonia, tuttavia, sembra essersi incrinata dopo lo
choc subito con il sequestro-massacro di In Amenas - operazione interamente
gestita dalla Drs - nel gennaio 2013.
Il
secondo motivo della disputa, legato al primo ma più a corto termine, è la
necessità - per i diversi clan che si muovono dietro le quinte - di trovare un
nuovo compromesso duraturo, data la consistenza delle prerogative
costituzionali attribuite al capo dello Stato, in vista del post-Bouteflika. Le
elezioni del prossimo aprile sembravano poter fornire l'occasione adatta,
complice anche la malattia del Presidente, per investire una nuova figura in
grado di raccogliere il consenso delle varie parti che compongono il
"potere reale".
La "tregua"
La
ricandidatura presentata in extremis da Abdelaziz Bouteflika è però il segnale,
secondo gli osservatori, che l'accordo sul "successore" non è stato
raggiunto. Così, in mancanza di un nuovo consenso, si è preferito conservare il
vecchio pur di evitare profonde lacerazioni interne, che alla vigilia di
un'elezione presidenziale avrebbero portato conseguenze nefaste per la
stabilità del sistema.
Il quarto mandato
rappresenta dunque una "tregua" - per usare un'espressione del
politologo Mohammed Hachemaoui (Iremam) - nel confronto tra Drs e Stato
maggiore, una soluzione tampone per difetto di alternative.
Del
resto la lunga parentesi Bouteflika (15 anni), fatta eccezione per qualche
marcata inimicizia o l'eccessiva golosità di alcuni suoi accoliti (ad esempio i
ministri dell'Energia e della Giustizia, coinvolti in uno scandalo di
corruzione assieme all'italiana Saipem-Eni), è riuscita a farsi apprezzare come
co-gestionaria del potere tanto in patria che all'estero.
Il
Presidente è comunemente riconosciuto come l'uomo della pacificazione, che ha
traghettato l'Algeria fuori dalla scia di sangue della "guerra
civile". Ha aperto i mercati petroliferi agli investimenti stranieri, pur
conservando il controllo degli sfruttamenti (legge del 51%), ed ha moltiplicato
le interazioni con le cancellerie occidentali, che hanno tutto l'interesse nel preservare
un clima di stabilità all'interno del paese.
I giochi, quindi,
sembrano chiusi in partenza.
La
riconduzione di Bouteflika alla testa del governo, nonostante il logoramento
fisico e le sue assenze prolungate e ripetute dalla scena pubblica, è ormai
considerata la miglior garanzia per cautelare lo statu quo. Allo stesso tempo,
questa scelta dimostra che il sistema algerino può funzionare bene anche senza
la presenza di un capo di Stato al pieno delle sue capacità. Come dire che una
controfigura rodata - e spalleggiata da personaggi ambiziosi, quali Said
Bouteflika, fratello e segretario del Presidente - è più che sufficiente.
Inoltre gli altri
candidati all'appuntamento elettorale non appaiono in grado di reggere il
confronto con le urne.
I
vari Moussa Touati, Louisa Hannoune o Ali Fawzi Rebaine, alla testa di piccoli
partiti dell'opposizione parlamentare, sono destinati a rivestire il semplice ruolo
di figuranti - già devotamente assunto in passato - per dare legittimità alla
competizione. Ali Benfils invece, tra i rivali di certo il più esperto degli
ingranaggi del potere (ex primo ministro di Bouteflika ed ex segretario del
Fln), è pur sempre visto come un uomo di apparato e non possiede le carte per
catalizzare un eventuale voto di protesta. Quanto al volto nuovo Yasmina
Khadra, il romanziere si è ritirato dalla corsa non essendo riuscito a presentare
le 60 mila firme di appoggio richieste dal codice elettorale.
Tutto questo senza fare
i conti con l'intrusione dei servizi nella consultazione.
Se
infatti il giornalista Hacen Ouali ricorda che "la natura autoritaria del
regime algerino fa sì che le elezioni siano il risultato di un accomodamento
deciso in anticipo e avallato da uno scrutinio pilotato", Mohammed
Hachemaoui è ancora più preciso nella sua lettura: "il posizionamento a
favore del quarto mandato di due potenti apparati notoriamente manovrati dalla
Drs - l'Ugta (centrale sindacale) e il Rnd (secondo partito di maggioranza, dal
1997 nell'esecutivo) - significa che la partita è chiusa con il beneplacito dei
servizi, a dispetto di chi continua a credere alla guerra di clan tra il
generale Toufik e Bouteflika".
La contestazione
Diverso
è il clima che si respira per le strade, dove la candidatura del Presidente
malato è vissuta come un insulto da larghe frange della popolazione. Pur
consapevoli della chiusura del panorama politico - dove le opposizioni
democratiche e i movimenti dissidenti sono stati via via neutralizzati, quando
non fagocitati dal sistema - gli algerini si sentono oltraggiati dalla sola idea
di dover votare qualcuno che non ha i mezzi per dirigere il paese.
Proteste spontanee,
sotto lo slogan barakat
("basta"), sono andate in scena in numerose città del paese - capitale
compresa - sebbene la polizia si sia dimostrata efficace nel placare le
manifestazioni, procedendo con fermi e arresti sommari (non solo dei
dimostranti, ma anche dei giornalisti che tentano di coprire gli eventi).
Su
internet intanto si scatena la frustrazione e l'amaro sarcasmo degli utenti che
si oppongono al quarto mandato, mentre alcune formazioni politiche unite a
personalità di spicco della società civile hanno formato un "coordinamento
nazionale per il boicottaggio" che annuncia nuove mobilitazioni per i
giorni a venire.
Di
fronte al palesarsi del dissenso c'è già chi richiama lo scenario delle
storiche contestazioni del 1988, le quali - nonostante la dura repressione
subita - portarono alle prime aperture democratiche e alla fine del partito
unico (Fln). I rappresentanti del governo, invece, demonizzano il movimento
nascente come un "tentativo di destabilizzazione manipolato
dall'esterno".
Proprio
la paura del caos, del ritorno all'insicurezza e il pesante trauma ereditato
dalla guerra civile avevano consentito alle autorità di arginare le rivolte di
inizio 2011, grazie anche ad una tempestiva redistribuzione della rendita
petrolifera (aumenti salariali, prestiti a fondo perduto per i giovani, aumento
del budget destinato agli enti locali..).
Fino a dove, in questa
fase, saranno disposti ad arrivare gli algerini? I timori degli uni e gli
interessi degli altri torneranno a prevalere, frenando la spinta verso il
cambiamento, o si giungerà al punto di non ritorno?
Difficile
prevederlo. Tuttavia, se le mobilitazioni dovessero continuare e crescere in
intensità non sarebbe solo il quarto mandato Bouteflika ad essere messo in
discussione, ma l'intero apparato di potere, dimostratosi ancora una volta
troppo distante dai bisogni e dalle aspirazioni dei cittadini.
Per
la popolazione in strada significherebbe oltrepassare l'abituale rivendicazione
socio-economica - tollerata poiché comunque fondata sul riconoscimento e la
perpetuazione delle strutture esistenti - e alzare il livello dello scontro. Con
la consapevolezza di doversi confrontare alla reazione di un regime
estremamente vorace e geloso di preservare le sue prerogative. A qualunque
costo.
La
storia recente - colpo di Stato del 1992, omicidio Boudiaf, fallimento degli
accordi di Sant'Egidio, oltre 200 mila morti durante gli anni '90 e quasi 20 mila
persone tuttora "scomparse" - è lì a ricordarlo.
(Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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