Il
2011 passerà alla storia come l'anno delle "rivoluzioni arabe". Ma,
nel caso dei paesi del Nord Africa, l'espressione appare incompleta (oltre che
discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l'apporto della
componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini
post-coloniali.
(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci) |
[Galatea] Negli
ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata
- ma sempre più coesa e solidale - che si estende dalla costa atlantica
all'oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle
principali città del Marocco come nelle aree dell'interno. Sintomo che, oltre
al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le "primavere"
sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A
fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in
apparenza.
E'
questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh - termine
preferito a "berberi", ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa
- hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20
febbraio contro l'autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La
portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di
uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni,
tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight - lingua berbera, parlata da
circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali -
lo status di idioma ufficiale al fianco dell'arabo.
"Il
riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria", chiarisce
subito Mounir Kejji, militante della prima ora. "La sua attuazione, ossia
il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell'insegnamento,
resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere
discussi in parlamento. Intanto all'anagrafe i nomi amazigh continuano ad
essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi
non possono difendersi e l'accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un
optional per arabofoni". Più che un traguardo - dunque - si tratta di una
sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai
riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate,
neanche dopo l'adozione della nuova carta nel luglio 2011.
"Mai più piangerò
in silenzio"
"Ci
siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare", cantano per le
strade di Rabat e Casablanca i giovani - per lo più studenti universitari -
della tawada, la "marcia"
appunto. Un'iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti
berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento
non resti lettera morta.
"Correggete
i libri di storia, noi non siamo arabi" un altro degli slogan intonato dai
dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione
del paese con l'arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C.,
e con la conversione degli autoctoni all'islam. Della civiltà nordafricana
antecedente all'era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi
nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il "tempo dell'ignoranza".
Nessuna traccia nemmeno dell'accanita resistenza che le popolazioni berbere
dell'Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all'avanzata coloniale
francese e spagnola, dopo che il sultano dell'epoca aveva già accettato il
Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.
"Al
liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti,
usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all'arrivo di Allah.
Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener
testa all'impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime
invasioni provenienti dalla penisola arabica" racconta Tarek, dottorando
in Lettere a Rabat. "Non basta ora un articolo nella costituzione, che
purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti".
Secondo
Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all'affermazione
della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di
ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora.
Vale a dire il timido ingresso del tamazight
nei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente
in modo orale. "Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le
lettere arabe, ma il tifinagh non è
soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante
della nostra identità", puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile
dell'Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più
combattive.
Nel
1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinagh
durante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di
una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per "attacco
ai fondamenti dello Stato". Il caso suscitò indignazione ben al di là dei
confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di
amnistia.
Nello
stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva "Mai più piangerò in silenzio" per affermare che la sua
lingua non era né morta né dimenticata, mentre un'altra figura di spicco dell'intellighenzia amazigh - Sdqi Azayku - completava
la sua seconda raccolta di poesie "Le
cicatrici", restituendo in versi la profonda alienazione nel
ritrovarsi "straniero in patria". Lo stesso Azayku, all'inizio degli
anni '80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava
le radici berbere e africane di Tamazgha,
la terra maghrebina.
Da
allora il fermento culturale - che ha accompagnato la nascita e il
consolidamento dei gruppi militanti - si è molto intensificato, riuscendo ad
erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta
soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto
nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune
esperienze d'avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa
della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.
Anche
Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica
alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti)
perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia
non lo abbandonano. "All'epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto
dell'arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i
viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri,
audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l'esperienza dei cabili,
pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti
sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che
la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana".
Marocco
La
question berbère è apparsa nel dibattito
politico marocchino solo negli ultimi vent'anni, mentre prima l'esistenza di
una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali
partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di
Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell'area, al momento
dell'indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull'uniformità
arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o
Libia: temendo che l'eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e
destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha
provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio:
la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).
Nel
caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento
nazionale, l'élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura
strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il
controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino).
Emblematico - a questo proposito - l'esempio del leader socialista Mehdi Ben
Barka, che a fine anni '50 affermava: "Non esistono berberi. Quelli che
chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti". Dall'altra parte invece,
la presenza di una monarchia di "genealogia divina" (la dinastia
alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso
inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di
conseguenza alla sua lingua di riferimento, l'arabo, ritenuta sacra poiché
strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di
Gheddafi).
Disconosciuti,
relegati ai margini o strumentalizzati, l'esistenza dei berberi è rimasta
pertanto un'evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più
sfumato sul piano dell'appartenenza territoriale - a seguito delle migrazioni
interne - la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su
quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con
quello musulmano). Di conseguenza, anche l'attivismo amazigh possiede radici
solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per
tutto il periodo degli "anni di piombo", riuscendo poi ad approfittare
delle aperture del regime inserendo la question
berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito
al trono nel 1999).
Già
prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le
autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato
alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all'avvio
dell'insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole
elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che - sommato
alle ridotte competenze dell'Istituto - sembrava poter affossare il dinamismo della
rivendicazione.
E'
in questa fase di stallo che l'arrivo della "primavera" ha saputo
offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre
componenti del "20 febbraio" sotto il vessillo del cambiamento
democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che
oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed
espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa
di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del
paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione.
Un aspetto che fa dell'attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza
al regime, capace di alternare l'attività di lobbying sulle istituzioni a vere
e proprie ondate di rivolta.
Algeria
Differente
è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di
massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo
caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di
primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una
dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La
valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità
tra il Fronte di liberazione nazionale - futuro partito unico - e il Fronte delle
forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è
bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come
una minaccia separatista all'unità del paese e un tradimento alla memoria dei
martiri dell'indipendenza.
Rispetto
al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata,
forte di un'appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l'Aurès e
le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per
questo la resistenza all'uniformità araba e alla chiusura del regime è stata
precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh - gli scrittori Mouloud
Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni - venivano
perseguitati o costretti all'esilio, la "primavera berbera" del 1980 è
riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando
il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe
portato alle aperture del biennio '88-'89.
"Le
contraddizioni in Algeria sono antiche e violente - afferma Salem Chaker, professore
all'Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i
principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il
paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni '90, mentre in
Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel
sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora
spento". Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi
del printemps noir: oltre cento morti
nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu
ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la
contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella
costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il
riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano
dal ritorno alla normalità.
Oltre
all'esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la
popolazione locale denuncia l'opprimente dispiegamento delle forze di
sicurezza, giustificato - agli occhi delle autorità - dalla sopravvivenza di
sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in
comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai
essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli
appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni
commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di
attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione,
tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.
Tunisia e Libia
Nella
fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione
identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni
popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh
ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila
berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno
cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una
società plurale. "Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La
nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche",
racconta l'avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh
tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni
culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a
rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e
"volgare tradizionalismo". L'obiettivo è "la riscoperta di un
patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti
dell'identità nazionale".
Ben
più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza
amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania
e Fezzan) si è subito autorganizzata - data anche la debolezza intrinseca delle
nuove autorità - inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un
regime che si vantava di aver estirpato "l'eterodossia berbera" è
stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell'Adrar n
Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi
nell'avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della
sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche
discriminatorie del Colonnello: oltre all'apartheid linguistica (la percentuale
di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione
dei diritti di cittadinanza. "Siamo stati estromessi dagli incarichi
statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di
lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari"
riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del
Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali
nordafricane e della diaspora.
Nonostante
l'alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le
comunità berbere - tuareg in testa - si dichiarano oggi insoddisfatte
dell'operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono
dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell'educazione abbia optato per
l'insegnamento obbligatorio del tamazight
nelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di
votazione scelto per la futura adozione del testo - a maggioranza semplice -
non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma
ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora
"regolarizzata", non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.
Le
relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare
in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel
mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica),
focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. "Gli
abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle
istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante
il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto
e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo", confida Ben
Khalifa. "Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell'esercito della
Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia.
La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché
essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e
combattere l'afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come
successo in Mali con la Repubblica dell'Azawad. L'esecutivo si sta comportando
in modo miope".
La terra e le sue
risorse
Le
primavere del 2011 - oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno
fatto della paura uno strumento di controllo - hanno messo anche in risalto la
carica sociale e politica assunta dall'attivismo berbero, non più confinato
alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario -
"dignità, libertà, giustizia" - con cui si sono riempite le piazze
maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.
Di
questo aspetto si era già avuto sentore nell'ultimo decennio, ad esempio con la
pubblicazione del Manifesto amazigh
marocchino e della Piattaforma d'El-Kseur
durante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di
presentarsi semplicemente come "movimento cittadino". Se le
rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un'aspirazione
universale e democratica attaccandosi a problematiche "trasversali",
quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di
strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il
disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.
"Lottare
per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la
povertà e lo sradicamento della mia gente", afferma il poeta e musicista
Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite
dalla defezione governativa. "E' un'esigenza naturale per chi continua a
vivere sulla propria pelle l'assenza dello Stato. Non c'è desiderio di
separazione - come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci - semmai la
richiesta di un'inclusione che non è mai avvenuta".
Per
l'artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei
più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa
volontà politica. "E' la punizione inflitta ad una popolazione ribelle,
che non ha mai accettato le imposizioni del makhzen
e che poi ha resistito con fierezza all'occupazione straniera. Ma i francesi,
almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che
abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente". Come Mallal la pensano
molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, "i datteri
marci". Le loro iniziative - sit-in, scioperi, blocco delle vie di
comunicazione - raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo
l'appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l'affluenza in alcune
circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.
Se
l'associazionismo e l'attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la
dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo
breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini
linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime.
In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli
militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne,
anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del
territorio. Come a Imider (Galatea n.
4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding -
di proprietà del sovrano - che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando
le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi,
seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna
di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad
ottenere l'esenzione - per gli abitanti - dal pagamento delle bollette di luce
e acqua.
Quella
che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia
silenziosa. La battaglia per l'accesso alla terra, confiscata alle collettività
locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al
momento dell'indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria,
sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati -
poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre
collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto
consuetudinario, sono ora "tutelate" dalle delegazioni ministeriali,
che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.
Lo
schema non risparmia le foreste e i pascoli dell'Atlante, e ancor meno i suoi
preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di
ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, "siamo
di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce,
spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di
sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a
causa del freddo e della malnutrizione". La situazione nei dintorni di
Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle
istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere
all'intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera
incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati
via decine di bambini, morti assiderati.
"Da
anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si
sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti
o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale",
continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi
sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. "Basta
guardare in giro, non c'è nulla - conferma l'attivista -. Qui si vive nella
miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare
traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli
organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte
perfino l'elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?". Domande che
restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l'ampiezza di un malessere che
sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.
Democrazia amazigh?
"Quella
amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica - conferma il
professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le
fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità
della lingua araba - sacralità del potere la sua ragion d'essere". La
richiesta di una costituzione laica e di un'effettiva separazione dei poteri è
stata una delle basi che ha portato all'avvicinamento tra le organizzazioni
berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con
scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il
sovrano come vertice politico e religioso del paese.
"La
berberità non si limita all'aspetto linguistico, è un sistema di valori",
continua Assid, portavoce autorevole del movimento. "Valori
intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo
del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni
celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l'imam e qualunque altro
rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio,
riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti
richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali".
La
rivisitazione delle norme consuetudinarie - che hanno retto per secoli le
amministrazioni locali nelle regioni dell'Atlante, nel Rif o in Cabilia - è
diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che
associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei
diritti universali. "Libertà di coscienza, uguaglianza di genere,
abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra
cultura e per noi è naturale difenderli. L'azerf
amazigh, tra l'altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della
legge coranica che era applicata nei territori del makhzen".
Non
sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi
tenacemente all'affermazione della shari'a
quale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione
costituzionale del 2012). Tanto più che, "come i mozabiti in Algeria, la
maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria
eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità
su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il
rispetto del pluralismo religioso", ribadisce Salem Chaker.
E'
proprio ad un simile "bagaglio di esperienze ancestrali" - secondo lo
studioso cabilo e molte altre voci in seno all'internazionale amazigh - che i
paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le
politiche repressive sperimentati nei decenni passati. "Il modello
panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da
tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non
sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul
piano socio-economico. L'alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave
giusta per aprire la strada ad una 'democrazia maghrebina' fondata sul rispetto
dei diritti e della diversità".
Riuscirà
quest'alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella
regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata?
Di certo quella che è stata una "cultura confinata ai margini
dell'illegalità" - la definizione è dello scrittore algerino Mouloud
Mammeri - ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso
un nuovo cammino.
Bandiera berbera
La
storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta.
Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione
identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès
mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori
rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone:
il blu è il colore del Mediterraneo e dell'oceano Atlantico, il verde quello
dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al
centro del vessillo è un "aza", la lettera zeta dell'alfabeto tifinagh, che nell'iconografia militante
simboleggia l'amazigh stesso, ossia "l'uomo libero", mentre il colore
rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità
di Tamazgha.
Nessun commento:
Posta un commento