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giovedì 3 aprile 2014

Tamazgha! Se la "primavera" è berbera...

Il 2011 passerà alla storia come l'anno delle "rivoluzioni arabe". Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, l'espressione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei risultati ottenuti), poiché disconosce l'apporto della componente berbera, negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati maghrebini post-coloniali.

(Marocco, Ait Benhaddou. Foto Jacopo Granci)



[Galatea] Negli ultimi tre anni infatti le bandiere giallo-verde-blu, simbolo di una comunità variegata - ma sempre più coesa e solidale - che si estende dalla costa atlantica all'oasi egiziana di Siwa, hanno sventolato a Tripoli, Tunisi, Tizi Ouzou, nelle principali città del Marocco come nelle aree dell'interno. Sintomo che, oltre al contenuto sociale e politico delle sollevazioni, le "primavere" sono servite anche a rilanciare la battaglia per la diversità culturale. A fondere rivendicazioni rimaste fino a quel momento distanti, almeno in apparenza.

E' questo il caso del regno marocchino, dove i militanti amazigh - termine preferito a "berberi", ritenuto esogeno e a connotazione spregiativa - hanno partecipato in massa alle manifestazioni indette dal Movimento 20 febbraio contro l'autoritarismo e la corruzione del makhzen (struttura di potere piramidale con vertice nel sovrano). La portata inedita e destabilizzante delle mobilitazioni, oltre alle minacce di uno scenario regionale in fermento, hanno costretto Rabat a fare concessioni, tra cui la modifica della costituzione che ora attribuisce al tamazight - lingua berbera, parlata da circa il 40% della popolazione e declinata in differenti varianti regionali - lo status di idioma ufficiale al fianco dell'arabo.

"Il riconoscimento costituzionale è un passo in avanti, ma non una vittoria", chiarisce subito Mounir Kejji, militante della prima ora. "La sua attuazione, ossia il bilinguismo nelle amministrazioni e la generalizzazione dell'insegnamento, resta vincolata a provvedimenti legislativi che da tre anni attendono di essere discussi in parlamento. Intanto all'anagrafe i nomi amazigh continuano ad essere proibiti, i tribunali parlano una lingua sconosciuta in cui molti di noi non possono difendersi e l'accoglienza ospedaliera, già carente di suo, è un optional per arabofoni". Più che un traguardo - dunque - si tratta di una sfida, che aspetta ancora riscontri concreti. Per questo, sebbene ignorate dai riflettori internazionali, le proteste nel regno non si sono mai fermate, neanche dopo l'adozione della nuova carta nel luglio 2011.


"Mai più piangerò in silenzio"
"Ci siamo messi in marcia e non smetteremo di camminare", cantano per le strade di Rabat e Casablanca i giovani - per lo più studenti universitari - della tawada, la "marcia" appunto. Un'iniziativa sconosciuta fino a poco tempo fa, con cui gli attivisti berberi stanno cercando di mettere pressione affinché il loro riconoscimento non resti lettera morta.
"Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi" un altro degli slogan intonato dai dimostranti. Il riferimento è ai manuali scolastici, che iniziano la narrazione del paese con l'arrivo delle popolazioni arabe dal Golfo, nel VII secolo d. C., e con la conversione degli autoctoni all'islam. Della civiltà nordafricana antecedente all'era musulmana, essenzialmente berbero-giudaica, non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il "tempo dell'ignoranza". Nessuna traccia nemmeno dell'accanita resistenza che le popolazioni berbere dell'Alto Atlante, del Saghru e del Rif opposero all'avanzata coloniale francese e spagnola, dopo che il sultano dell'epoca aveva già accettato il Protettorato. Una pagina su cui le autorità hanno deciso di soprassedere.
"Al liceo studiavamo testi dove i berberi erano descritti come selvaggi analfabeti, usciti dalla preistoria solo grazie alla conquista araba e all'arrivo di Allah. Non ci sono riferimenti ad eroi come Massinissa e Giugurta, che seppero tener testa all'impero romano, o alla regina Kahina, che resistette alle prime invasioni provenienti dalla penisola arabica" racconta Tarek, dottorando in Lettere a Rabat. "Non basta ora un articolo nella costituzione, che purtroppo conta ben poco nel nostro paese, per farci star zitti".
Secondo Tarek il governo a maggioranza islamista, storicamente ostile all'affermazione della berberità, sta facendo di tutto per bloccare il processo di ufficializzazione e rimettere in discussione le conquiste ottenute fino ad ora. Vale a dire il timido ingresso del tamazight nei programmi di istruzione e la scelta dei caratteri tifinagh per la standardizzazione grafica di una lingua trasmessa essenzialmente in modo orale. "Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati, sono parte integrante della nostra identità", puntualizza il professor Ahmed Assid, responsabile dell'Observatoire amazigh des droits et des libertés, tra le organizzazioni più combattive.
Nel 1994, dopo aver esposto uno striscione in tifinagh durante una manifestazione, il maestro elementare Ali Iken e altri membri di una piccola associazione di provincia furono condannati al carcere per "attacco ai fondamenti dello Stato". Il caso suscitò indignazione ben al di là dei confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.
Nello stesso periodo il poeta e cantautore Moha Mallal scriveva "Mai più piangerò in silenzio" per affermare che la sua lingua non era né morta né dimenticata, mentre un'altra figura di spicco dell'intellighenzia amazigh - Sdqi Azayku - completava la sua seconda raccolta di poesie "Le cicatrici", restituendo in versi la profonda alienazione nel ritrovarsi "straniero in patria". Lo stesso Azayku, all'inizio degli anni '80, era finito in arresto per aver divulgato un articolo in cui sottolineava le radici berbere e africane di Tamazgha, la terra maghrebina.
Da allora il fermento culturale - che ha accompagnato la nascita e il consolidamento dei gruppi militanti - si è molto intensificato, riuscendo ad erodere lo stereotipo della berberità come vuota tradizione folklorica, adatta soltanto per turismo e musei. La poesia impegnata di Sdqi Azayku ha aperto nuovi orizzonti letterari per gli autori berberofoni e in campo musicale, dopo alcune esperienze d'avanguardia, è nata ormai una nuova generazione di artisti che fa della canzone uno strumento di denuncia e sensibilizzazione.
Anche Ali Iken, oggi sessantenne, scrive romanzi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poemi e miti) perché venga fissato nella memoria collettiva. Ma i fantasmi della prigionia non lo abbandonano. "All'epoca eravamo ancora pochi. Combattere il culto dell'arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e le stagioni del contrabbando. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l'esperienza dei cabili, pionieri di cui cercavamo di seguire le orme. Adesso, anche qui, i militanti sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Ciò significa che la nostra lotta, sotterranea e quasi clandestina, non è stata vana".



Marocco
La question berbère è apparsa nel dibattito politico marocchino solo negli ultimi vent'anni, mentre prima l'esistenza di una diversità culturale era considerata tabù, bandita tanto dai principali partiti di opposizione (nazionalisti e socialisti, legati al panarabismo di Nasser) che dalla monarchia. Come gli altri paesi dell'area, al momento dell'indipendenza Rabat ha forgiato la propria impronta sull'uniformità arabo-musulmana. La dinamica è affine, che si tratti di Marocco, Algeria o Libia: temendo che l'eterogeneità linguistica e di valori potesse dividere e destabilizzare i nascenti apparati di potere, la leadership politica ha provveduto alla sua emarginazione o ad una strumentale sottomissione (esempio: la creazione del partito filo-monarchico Mouvement Populaire).
Nel caso marocchino sono stati due i fattori determinanti. Da un lato il movimento nazionale, l'élite post-indipendenza, ha associato la questione berbera ad una pura strategia di dominio coloniale, messa in atto dai francesi per facilitare il controllo sul territorio (considerazione valida anche per il contesto algerino). Emblematico - a questo proposito - l'esempio del leader socialista Mehdi Ben Barka, che a fine anni '50 affermava: "Non esistono berberi. Quelli che chiamate berberi sono arabi poveri e analfabeti". Dall'altra parte invece, la presenza di una monarchia di "genealogia divina" (la dinastia alawita ostenta ancora oggi la sua discendenza dal profeta Maometto) ha reso inscindibile la gestione del potere politico dal ricorso alla religione, e di conseguenza alla sua lingua di riferimento, l'arabo, ritenuta sacra poiché strumento di espressione di Allah (caso simile a quello della Libia di Gheddafi).
Disconosciuti, relegati ai margini o strumentalizzati, l'esistenza dei berberi è rimasta pertanto un'evidenza. Se non dal punto di vista etnico e in modo sempre più sfumato sul piano dell'appartenenza territoriale - a seguito delle migrazioni interne - la loro presenza è innegabile sul piano linguistico, culturale e su quello delle pratiche del diritto consuetudinario (spesso in contrasto con quello musulmano). Di conseguenza, anche l'attivismo amazigh possiede radici solide e profonde, sebbene in Marocco sia rimasto ad uno stadio embrionale per tutto il periodo degli "anni di piombo", riuscendo poi ad approfittare delle aperture del regime inserendo la question berbère nel piano di riforme annunciato dal nuovo sovrano Mohammed VI (salito al trono nel 1999).
Già prima della modifica costituzionale del 2011, infatti, la negoziazione tra le autorità e le organizzazioni più rappresentative del movimento aveva portato alla creazione di un Istituto per la cultura amazigh e all'avvio dell'insegnamento della lingua. Dal 2003, tuttavia, solo il 2% delle scuole elementari è stato in grado di offrire corsi agli alunni, un dato che - sommato alle ridotte competenze dell'Istituto - sembrava poter affossare il dinamismo della rivendicazione.
E' in questa fase di stallo che l'arrivo della "primavera" ha saputo offrire nuova linfa ed entusiasmo, mentre la congiunzione con le altre componenti del "20 febbraio" sotto il vessillo del cambiamento democratico ha fornito alla causa identitaria maggior peso politico. Tanto che oggi il movimento amazigh sta vivendo un processo di ringiovanimento ed espansione della sua base sociale: oltre alle storiche associazioni, la presa di coscienza sembra riflettersi persino nelle popolazioni semianalfabete del paese profondo, non più disposte a piegare la testa di fronte alla sopraffazione. Un aspetto che fa dell'attivismo berbero un paesaggio multiforme di resistenza al regime, capace di alternare l'attività di lobbying sulle istituzioni a vere e proprie ondate di rivolta.



Algeria
Differente è la situazione in Algeria, epicentro delle prime rivendicazioni identitarie di massa, ma soltanto sfiorata dalle sollevazioni di tre anni fa. Anche in questo caso, sebbene costituisca un quarto del totale e abbia fornito elementi di primo piano nella guerra di liberazione, la popolazione berbera ha subito una dura politica di esclusione dopo la prima ribellione in Cabilia del 1963. La valenza dello scontro, in quel caso, era più politica che identitaria: la rivalità tra il Fronte di liberazione nazionale - futuro partito unico - e il Fronte delle forze socialiste, poi messo al bando, ben ancorato nella regione. Ma tanto è bastato a formalizzare la scomunica della componente berbera, liquidata come una minaccia separatista all'unità del paese e un tradimento alla memoria dei martiri dell'indipendenza.
Rispetto al contesto marocchino, la diversità linguistica e culturale algerina è più localizzata, forte di un'appartenenza territoriale definita (oltre alla Cabilia, l'Aurès e le oasi mozabite e tuareg) e di un maggior radicamento comunitario. Anche per questo la resistenza all'uniformità araba e alla chiusura del regime è stata precoce. Se i primi volti noti della militanza amazigh - gli scrittori Mouloud Mammeri e Kateb Yacine o i cantanti Idir e Ferhat Mehenni - venivano perseguitati o costretti all'esilio, la "primavera berbera" del 1980 è riuscita ad incrinare il muro eretto dal presidente Houari Boumedienne, dando il via ad una più vasta espressione del dissenso che di lì a poco avrebbe portato alle aperture del biennio '88-'89.
"Le contraddizioni in Algeria sono antiche e violente - afferma Salem Chaker, professore all'Institut national des langues et cultures orientales (INALCO) e tra i principali rappresentanti della diaspora intellettuale amazigh in Francia -. Il paese è ancora traumatizzato dalla brutalità vissuta negli anni '90, mentre in Cabilia la sollevazione del 1980 ha inaugurato un ciclo di rivolte represse nel sangue. La popolazione è stanca, frustrata, ma resta un vulcano non ancora spento". Una chiara percezione si era già avuta nel 2001, durante i mesi del printemps noir: oltre cento morti nella regione ribelle e più di un milione di abitanti in marcia, da Tizi Ouzu ad Algeri, in segno di protesta. Anche qui per calmare le acque e frazionare la contestazione, il governo si era visto costretto a fare alcune concessioni (tamazight lingua nazionale nella costituzione e avvio dei programmi di insegnamento). Ma nei fatti il riconoscimento linguistico è lacunoso e la situazione in Cabilia è ancora lontano dal ritorno alla normalità.
Oltre all'esodo e allo stato di abbandono economico, in atto da decenni, la popolazione locale denuncia l'opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza, giustificato - agli occhi delle autorità - dalla sopravvivenza di sacche terroristiche sul territorio. Sebbene il movimento, prima declinato in comitati e assemblee locali permanenti su modello delle vecchie tajmaat di villaggio, sembra ormai essersi dissolto, il distacco dalla gestione del governo resta flagrante: gli appuntamenti elettorali continuano ad essere boicottati e ad ogni commemorazione (1980, 2001, omicidio del cantante Lounès Matoub) le reti di attivisti sfidano il divieto di manifestare, e la conseguente repressione, tingendo Tizi Ouzu del tricolore berbero.

Tunisia e Libia
Nella fase attuale di post-primavera, le maggiori evoluzioni in termini di riconfigurazione identitaria potrebbero invece provenire dai paesi in cui le sollevazioni popolari hanno causato il crollo dei vecchi regimi. In Tunisia, dove la lingua amazigh ha patito di più lo sradicamento rispetto agli altri contesti (appena 150 mila berberofoni su una popolazione totale di 10 milioni), le nuove generazioni stanno cercando di riappropriarsi di questa risorsa in nome della lotta per una società plurale. "Prima della rivoluzione non potevamo esprimerci. La nostra lingua era appena bisbigliata, perfino tra le mura domestiche", racconta l'avvocato Ali al-Walhazi, fondatore della prima associazione amazigh tunisina. Dalla caduta del dittatore Ben Ali, i festival e le organizzazioni culturali attive in ogni angolo del paese si contano a decine, decise a rivalutare una berberità a lungo associata ai concetti di arretratezza e "volgare tradizionalismo". L'obiettivo è "la riscoperta di un patrimonio millenario e il suo riconoscimento ufficiale come una delle fonti dell'identità nazionale".
Ben più incandescente appare la situazione nella Libia del dopo Gheddafi, dove la minoranza amazigh (circa il 10% della popolazione, prevalentemente distribuita tra Tripolitania e Fezzan) si è subito autorganizzata - data anche la debolezza intrinseca delle nuove autorità - inaugurando scuole, stazioni radio e webtv. La caduta di un regime che si vantava di aver estirpato "l'eterodossia berbera" è stata accolta con entusiasmo e speranza dagli abitanti di Zwara, dell'Adrar n Infusen e delle oasi del sud, in fermento ben prima del 17 febbraio 2011 e poi attivi nell'avanzata del fronte occidentale contro il dittatore. Prima della sollevazione, la maggior parte dei non-arabi era oggetto delle politiche discriminatorie del Colonnello: oltre all'apartheid linguistica (la percentuale di berberofoni si è notevolmente ridotta negli ultimi 40 anni), la negazione dei diritti di cittadinanza. "Siamo stati estromessi dagli incarichi statali, privati dei documenti di identità necessari ad ottenere contratti di lavoro, borse di studio, ricoveri in ospedale o prestiti bancari" riferisce Fathi Ben Khalifa, oppositore a lungo in esilio, ora presidente del Congrès mondial amazigh, ong che raggruppa le principali associazioni culturali nordafricane e della diaspora.
Nonostante l'alto prezzo pagato sotto Gheddafi e durante i mesi del confronto armato, le comunità berbere - tuareg in testa - si dichiarano oggi insoddisfatte dell'operato del governo Zeidan, tanto che i loro rappresentanti si sono dimessi dal Parlamento. Sebbene il ministro dell'educazione abbia optato per l'insegnamento obbligatorio del tamazight nelle regioni berberofone, la dichiarazione costituzionale e il sistema di votazione scelto per la futura adozione del testo - a maggioranza semplice - non offrono garanzie affinché la lingua amazigh assuma lo status di idioma ufficiale. Senza contare che una parte della minoranza, non ancora "regolarizzata", non ha potuto partecipare alle elezioni del 2012.
Le relazioni con Tripoli restano tese e le voci berbere, che non vogliono andare in contro ad una nuova esclusione, rischiano di perdersi o di confondersi nel mezzo di un quadro nazionale scosso da pulsioni autonomiste (Cirenaica), focolai fondamentalisti e dalle violenze di milizie fuori controllo. "Gli abitanti di Nalut stanno arrivando allo scontro con le bande al soldo delle istituzioni locali, nel tentativo di recuperare i terreni espropriati durante il passato regime; a Sabha e Murzuq le tribù tuareg sono confinate in quartieri-ghetto e continuano ad essere trattate con sospetto e razzismo", confida Ben Khalifa. "Alcuni, accusandoli di aver fatto parte dell'esercito della Jamahiriyya, sostengono addirittura che dovrebbero essere espulsi dalla Libia. La situazione potrebbe degenerare: i tuareg e le altre comunità della zona, anziché essere una risorsa per stabilizzare una frontiera estremamente permeabile e combattere l'afflusso di armi ed estremisti, potrebbero decidere di sganciarsi come successo in Mali con la Repubblica dell'Azawad. L'esecutivo si sta comportando in modo miope".



La terra e le sue risorse
Le primavere del 2011 - oltre ad aver liberato la parola in sistemi che hanno fatto della paura uno strumento di controllo - hanno messo anche in risalto la carica sociale e politica assunta dall'attivismo berbero, non più confinato alla sola battaglia linguistica e culturale. Lo slogan unitario - "dignità, libertà, giustizia" - con cui si sono riempite le piazze maghrebine ne fornisce una lucida testimonianza.
Di questo aspetto si era già avuto sentore nell'ultimo decennio, ad esempio con la pubblicazione del Manifesto amazigh marocchino e della Piattaforma d'El-Kseur durante la sollevazione cabila del 2001, in cui gli autori decisero di presentarsi semplicemente come "movimento cittadino". Se le rivendicazioni identitarie permangono, questi documenti esprimono al contempo un'aspirazione universale e democratica attaccandosi a problematiche "trasversali", quali la gestione dispotica del potere, la mancanza di investimenti e di strategie di sviluppo, la cooptazione dei rappresentanti politici e il disinteresse delle elite verso generazioni dimenticate.
"Lottare per la causa amazigh significa cantare nella mia lingua ma anche denunciare la povertà e lo sradicamento della mia gente", afferma il poeta e musicista Moha Mallal, cresciuto in un villaggio del Sud-est, tra le zone più colpite dalla defezione governativa. "E' un'esigenza naturale per chi continua a vivere sulla propria pelle l'assenza dello Stato. Non c'è desiderio di separazione - come alcuni vorrebbero far credere, per calunniarci - semmai la richiesta di un'inclusione che non è mai avvenuta".
Per l'artista la mancanza di sviluppo sofferta dalla regione, che detiene uno dei più alti tassi di disoccupazione nazionale, risponderebbe ad una precisa volontà politica. "E' la punizione inflitta ad una popolazione ribelle, che non ha mai accettato le imposizioni del makhzen e che poi ha resistito con fierezza all'occupazione straniera. Ma i francesi, almeno, qualcosa hanno fatto dopo la conquista. Le scuole e le strade che abbiamo risalgono alla loro epoca. Poi più niente". Come Mallal la pensano molti giovani del posto, riuniti in un movimento battezzato ironicamente ait ghighouch, "i datteri marci". Le loro iniziative - sit-in, scioperi, blocco delle vie di comunicazione - raccolgono un sostegno sempre più ampio: la prova, dopo l'appello al boicottaggio delle ultime elezioni, l'affluenza in alcune circoscrizioni della regione ha di poco superato lo 0%.
Se l'associazionismo e l'attivismo nelle facoltà hanno fin qui rappresentato la dimensione urbana e intellettuale del movimento amazigh, la question berbère in Marocco sta facendo breccia nelle periferie rurali e montane del regno, oltrepassando i confini linguistici e le rivalità tribali su cui per anni aveva fatto leva il regime. In questi contesti è la solidarietà e la volontà di riscatto a guidare singoli militanti o piccoli coordinamenti informali, che spesso riuniscono donne, anziani e ragazzi. Le priorità: denunciare la hogra (sentimento di impotenza) e difendere le risorse del territorio. Come a Imider (Galatea n. 4, 2013), dove gli abitanti stanno protestando da due anni contro una holding - di proprietà del sovrano - che estrae argento dalle alture circostanti, prosciugando le falde e inquinando i terreni. Oppure a Bouarfa dove il degrado dei servizi, seguito alla chiusura delle miniere di rame e manganese, ha innescato una dura campagna di disobbedienza civile guidata da berberisti e sindacati, che è riuscita ad ottenere l'esenzione - per gli abitanti - dal pagamento delle bollette di luce e acqua.
Quella che sta andando in scena nelle aree interne del paese è una battaglia silenziosa. La battaglia per l'accesso alla terra, confiscata alle collettività locali durante il Protettorato e trasferita nelle mani delle nuove autorità al momento dell'indipendenza. Che si tratti di zone di estrazione mineraria, sorgenti, terreni fertili o lotti situati nelle vicinanze di centri abitati - poi dichiarati edificabili -, il copione è più o meno lo stesso. Le terre collettive, un tempo a disposizione della comunità e regolate dal diritto consuetudinario, sono ora "tutelate" dalle delegazioni ministeriali, che ne gestiscono la vendita o lo sfruttamento.
Lo schema non risparmia le foreste e i pascoli dell'Atlante, e ancor meno i suoi preziosi boschi di cedro, attorno a cui si è concentrata una fitta rete di ingiustizie. Secondo Aziz Akkaoui, impegnato nella difesa dei diritti umani, "siamo di fronte ad una guerra a bassa intensità, combattuta a colpi di asce, spoliazioni e commercio clandestino. Le vittime sono le conifere, minacciate di sparizione dal taglio selvaggio, e la popolazione, che ancora oggi muore a causa del freddo e della malnutrizione". La situazione nei dintorni di Khenifra è a dir poco esplosiva: gli abitanti dei douar manifestano con sempre più frequenza davanti ai palazzi delle istituzioni, tanto che nei mesi scorsi le autorità hanno deciso di ricorrere all'intervento delle forze militari. Ad Anfgou invece, piccola borgata berbera incastonata nelle pendici del Medio Atlante, gli ultimi inverni si sono portati via decine di bambini, morti assiderati.
"Da anni osserviamo sfilare camion carichi di tronchi e di carbone, diretti non si sa dove. Se invece siamo noi a tagliare il legname, per costruire case decenti o per riscaldarci, rischiamo di farci arrestare o sparare dalla forestale", continua Akkaoui. Lo Stato, per legge, dovrebbe reinvestire il 75% dei ricavi sul territorio. Ma gli abitanti affermano di non averne mai beneficiato. "Basta guardare in giro, non c'è nulla - conferma l'attivista -. Qui si vive nella miseria mentre la foresta e i suoi introiti si dissolvono senza lasciare traccia. Dove vanno a finire i soldi della vendita dei cedri? Dove sono gli organismi di controllo? Perché mancano le infrastrutture di base, a volte perfino l'elettricità, se i nostri comuni sono ricchi?". Domande che restano senza risposta. Affermazioni che spiegano l'ampiezza di un malessere che sta trovando nel fermento identitario una nuova cassa di risonanza.

Democrazia amazigh?
"Quella amazigh non è solo una battaglia culturale ma anche politica - conferma il professor Ahmed Assid -. Le nostre rivendicazioni mettono in discussione le fondamenta stesse dello Stato marocchino, che ha fatto del binomio sacralità della lingua araba - sacralità del potere la sua ragion d'essere". La richiesta di una costituzione laica e di un'effettiva separazione dei poteri è stata una delle basi che ha portato all'avvicinamento tra le organizzazioni berbere e i dissidenti di sinistra durante le proteste del 2011. Seppur con scarsi risultati, dal momento che la modifica costituzionale ha confermato il sovrano come vertice politico e religioso del paese.
"La berberità non si limita all'aspetto linguistico, è un sistema di valori", continua Assid, portavoce autorevole del movimento. "Valori intrinsecamente laici, se consideriamo che le tribù rimaste fuori dal controllo del sultano fino alla conquista francese hanno sempre distinto le questioni celesti dagli affari terrestri. In altre parole, l'imam e qualunque altro rappresentante religioso non partecipavano alle assemblee di villaggio, riservate ai delegati delle famiglie, ma rimanevano nelle moschee. Gli abitanti richiedevano il loro intervento esclusivamente per ragioni spirituali".
La rivisitazione delle norme consuetudinarie - che hanno retto per secoli le amministrazioni locali nelle regioni dell'Atlante, nel Rif o in Cabilia - è diventata ormai un punto di riferimento ideologico per gli attivisti, che associano la loro lotta a quella più generale verso il riconoscimento dei diritti universali. "Libertà di coscienza, uguaglianza di genere, abolizione della pena di morte sono concetti storicamente presenti nella nostra cultura e per noi è naturale difenderli. L'azerf amazigh, tra l'altro, ha sempre escluso punizioni corporali, al contrario della legge coranica che era applicata nei territori del makhzen".
Non sorprende, dunque, vedere oggi le popolazioni amazigh di Libia opporsi tenacemente all'affermazione della shari'a quale fonte della legislazione (secondo quanto previsto dalla dichiarazione costituzionale del 2012). Tanto più che, "come i mozabiti in Algeria, la maggioranza dei berberi libici sono ibaditi, una corrente minoritaria eterodossa, distinta da sunniti e sciiti. Questa specificità spinge le comunità su posizioni dichiaratamente laiche, unica garanzia ai loro occhi per il rispetto del pluralismo religioso", ribadisce Salem Chaker.
E' proprio ad un simile "bagaglio di esperienze ancestrali" - secondo lo studioso cabilo e molte altre voci in seno all'internazionale amazigh - che i paesi del Maghreb dovrebbero far appello per superare i fallimenti e le politiche repressive sperimentati nei decenni passati. "Il modello panarabista, dominante durante la fase post-indipendenza, è condannato da tempo. La parentesi islamista, nonostante le recenti vittorie elettorali, non sembra destinata ad un epilogo migliore, anche in mancanza di una risposta sul piano socio-economico. L'alternativa berbera, invece, potrebbe essere la chiave giusta per aprire la strada ad una 'democrazia maghrebina' fondata sul rispetto dei diritti e della diversità".
Riuscirà quest'alternativa ad approfittare dei mutamenti e dei contrasti in corso nella regione nordafricana per recuperare lo spazio e la visibilità a lungo negata? Di certo quella che è stata una "cultura confinata ai margini dell'illegalità" - la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri - ha ormai acquisito spessore e consapevolezza e sembra aver intrapreso un nuovo cammino.



Bandiera berbera
La storia della bandiera berbera è ben più recente del popolo che rappresenta. Risultato del consolidamento, su scala internazionale, della rivendicazione identitaria nordafricana, è stata ufficialmente adottata dal primo Congrès mondial amazigh riunito nel 1998 nelle isole Canarie. I suoi colori rappresentano i differenti paesaggi in cui vivono le popolazioni berberofone: il blu è il colore del Mediterraneo e dell'oceano Atlantico, il verde quello dei boschi delle montagne e il giallo quello del deserto. La figura posta al centro del vessillo è un "aza", la lettera zeta dell'alfabeto tifinagh, che nell'iconografia militante simboleggia l'amazigh stesso, ossia "l'uomo libero", mentre il colore rosso evoca il legame di appartenenza alla terra che unisce le diverse comunità di Tamazgha.



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