Nel
sud del paese, incastonati sui fianchi del monte Sirwa, i contadini si dedicano
da tempo immemore alla coltivazione dello zafferano. Spezia pregiata, oggi ambita
sui mercati europei, difficilmente assicura - però - una vita decorosa a chi
continua a tramandare una tradizione ancestrale.
(Foto Jacopo Granci) |
La
statale n. 10 è un serpente sinuoso che si lascia alle spalle le spiagge
affollate di Agadir per addentrarsi nella piana rurale del Souss. Oltrepassate
le serre e le distese di agrumeti che circondano Taroudant, un tempo capitale
spirituale della regione ed ora opaca cornice ai magnati dell'agrobusiness, la
lingua d'asfalto piega verso nord-est, quasi ad appoggiarsi sulle aspre pendici
dell'Alto Atlante che restringono progressivamente la vallata.
A
dominare il paesaggio ormai brullo, tra posti di blocco della polizia e camion
stracarichi che sfrecciano ben oltre la velocità consentita, sono gli arbusti
nodosi di argan e i greggi di capre
ammassati ai lati della strada. Tronchi bassi, rami spinosi, che con il loro
cappello verde assomigliano a creature di una galassia lontana.
L'argan in effetti è un albero "magico" nella mitologia
berbera, presente nelle saghe popolari e venerato da alcuni culti preislamici per
la sua capacità di resistere alla siccità. La sua presenza continua ad essere
preziosa, oggi, grazie all'uso alimentare e cosmetico che viene fatto dei suoi
frutti, sempre più richiesto nei mercati europei.
Dopo
le dighe di Aoulouz e il guado su quel che resta del fiume Souss, fertile
emissario ridotto ad un letto arido e sassoso, lo scenario cambia. Il serpente
prende quota, si inerpica e abbandona la lunga pianura. L'argan, affiancato da mandorli, eucalipti e sporadici fichi d'india,
accompagna il sentiero fino all'oasi pedemontana di Taliouine.
Poi
si ferma.
I resti dell'imponente agadir (silos) in pietra che sovrasta il
villaggio sembrano tracciare un confine immaginario e invalicabile. A Taliouine,
infatti, si cambia terroir. Qui inizia
il regno dello zafferano.
Spezia
pregiata, conosciuta fin dall'antichità in tutto il bacino del Mediterraneo e
in terra indo-persiana, lo zaʻfrān
(termine che nella lingua locale richiama la parola "giallo", come il
colore sprigionato dai carpelli del suo fiore) ha scelto questo luogo impervio
e di difficile accesso per prosperare e legarsi alle tradizioni di una
popolazione che da secoli lo coltiva e ne trae benefici. O almeno così
dovrebbe.
Qualcosa che stona
Il
Marocco è uno dei maggiori produttori mondiali assieme all'Iran, l'India, la
Grecia e la Spagna. Si narra che proprio le truppe arabo-berbere, con la
conquista dell'Andalusia, abbiano esportato questa coltura sul suolo iberico.
Leggende posticce aggiungono che perfino alcune stanze dell'Alhambra sarebbero
state decorate con una tintura ricavata dai pistilli vermiglio originari del
sud del Marocco.
Epopee
a parte, con le sue 3 tonnellate annue il regno maghrebino rimane lontano dalla
performance iraniana - che da sola copre circa l'80% del mercato internazionale
- ma può fare affidamento sull'ottima qualità del prodotto, certificata da
istanze indipendenti (tra cui Slow Food Italia) che non esitano a compararlo al
tanto stimato zafferano del Kashmir.
L'aumento della
produzione e una più accurata strategia di marketing, come il rilascio di
marchi registrati, sono tra le priorità dichiarate dal governo di Rabat per lo
sviluppo del settore, votato essenzialmente all'esportazione (98%). Anche
l'allestimento di un Festival in loco dedicato "all'oro rosso" rientra
tra gli impulsi statali alla visibilità del terroir.
Siamo
ad inizio novembre e a Taliouine è il momento della raccolta degli stimmi. Dopo
il periodo estivo di stasi vegetativa, i bulbi hanno ormai ripreso l'attività e
per alcune settimane offrono i loro delicati fiori violetti, prima di rientrare
nel letargo invernale e poi passare alla fase riproduttiva, in primavera.
E'
anche il momento tanto atteso del Festival dello zaʻfrān e il paese è montato a festa tra bandiere nazionali, tendoni
espositivi, turisti curiosi e visite delle autorità. Ma nel corredo da parata
c'è qualcosa che stona. Dello zafferano, all'interno della fiera, quasi non c'è
traccia e ancor meno dei contadini che lo producono.
Perché?
Dove sono? "Più su, oltre Taliouine. Le coltivazioni iniziano sopra i mille
metri d'altitudine. Sui fianchi del monte Sirwa ci sono i fellah e le piantagioni", riferisce un funzionario comunale.
Dietro la vetrina luccicante si profila una realtà meno idilliaca.
Lo zafferano non basta
I
primi sprazzi di luce fendono il terreno rossastro mentre una brezza rigida,
dal sapore notturno, spazza l'altopiano. Tre ragazze - dorsi chini, corpi
piegati a compasso - si muovono con fare esperto tra i solchi, ancora umidi di
rugiada, dove spuntano i germogli color malva.
"Bisogna
cogliere i boccioli all'alba, prima che si schiudano e che i raggi del sole
corrompano le proprietà degli stimmi" spiega Lahcen - il padre - mostrando
i fiori già raccolti nella sua sacca di juta. Per ottenere 1 kg di spezia pura,
considerando la mondatura e l'essiccamento dei pistilli, ne servono circa 230
mila. La metà del suo raccolto stagionale.
Un ettaro di terreno,
in condizioni di buona irrigazione, può arrivare ad offrire quasi 8 kg di
zafferano. Ma le dimensioni medie degli appezzamenti sono abbondantemente
inferiori. Spesso le terre sono di proprietà collettiva e vengono ripartite tra
le famiglie della comunità.
Lahcen
si ritiene abbastanza fortunato: ha una parcella di mezzo ettaro, una parte
riservata ai bulbi e l'altra coltivata a cereali. "In ogni caso lo
zafferano - da solo - non basta per sopravvivere. Qui i prezzi non sono come in
Europa.. Tutti cercano di portare avanti altre attività: sempre in ambito
agricolo, se la pioggia ci assiste, oppure piccoli allevamenti".
Già, a quale prezzo i
contadini marocchini vendono il loro "oro rosso"? "Dipende dai
periodi, generalmente tra i 15 e i 18 dirham al grammo [1,4 - 1,7 euro]"
risponde il fellah. Un decimo del
costo nel mercato italiano.
Sono
le 6 e mezza e a Tassousfi, villaggio di qualche centinaia di anime cresciuto
attorno ad un antico marabut
(santuario), il bagliore del giorno comincia ad accendere i colori del
paesaggio. Un acquarello. Sotto l'azzurro del cielo, le vette aguzze e nere
dell'Alto Atlante intersecano i rilievi più dolci e giallastri dell'Anti
Atlante. Punto di incontro tra le due catene è il massiccio vulcanico del Sirwa,
la vera patria dello zafferano e dei suoi custodi, la tribù berbera dei
Souktana, di cui Lahcen rivendica con fierezza l'appartenenza.
Le
sue figlie, intanto, hanno terminato la prima parte del lavoro e radunano i
fiori in attesa di estrarne gli stimmi. È arrivato il momento del the, insaporito
- come da tradizione - con la spezia locale. "Il vero zaʻfrān ha un retrogusto amaro - commenta il contadino con aria
disillusa - come la vita che si fa da queste parti. In molti hanno deciso di
partire. Anche mio figlio. Ora è in Belgio, ha un impiego fisso e di tanto in
tanto ci manda dei soldi".
Il governo fa
promesse..
Non
è un caso che la regione di Taliouine abbia conosciuto nei decenni scorsi un
esodo rurale massiccio, tra i più elevati del regno. Se il tasso di crescita
nazionale si è attestato attorno al 4%, stando almeno alle cifre diffuse
dall'Ocp (l'Istat locale), nel territorio di Souktana difficilmente ha sfiorato
l'1%. Un dato che trova conferma nell'indice di povertà, bloccato al 34%, ossia
il triplo della media del paese. Anche le infrastrutture di base, ad esempio
acqua potabile ed elettricità, sono arrivate solo di recente, spesso grazie a
progetti di cooperazione.
In alcuni dei douar più remoti della zona la
popolazione è ancora oggi composta quasi esclusivamente da donne, che rivestono
il ruolo di capofamiglia e rappresentano la principale forza-lavoro. La
raccolta dello zafferano non fa eccezione.
Ad
Ait Issa, qualche chilometro dopo Tassousfi, i campi che circondano il
caseggiato sono presi a carico da una neo-nata associazione femminile. "Il
governo fa promesse ma non ci aiuta. A parte la fornitura gratuita dei bulbi
non abbiamo visto niente" assicura Malika, autoproclamatasi portavoce del
gruppo.
"Il
piano ministeriale per lo sviluppo della filiera prevede la presa a carico
dell'approvvigionamento idrico, ma qui hanno mandato dei privati per scavare il
pozzo che ora si rifanno sulle utenze" rincalza Hassan, il marito di
Malika. "L'acqua la paghiamo 30 dirham l'ora, perché abbiamo la terra
vicino alle pompe, altrimenti il prezzo è più alto e le prospettive di guadagno
si riducono".
Allineate una a fianco
all'altra, con i loro cestini e le mani basse a sfiorare il terreno, le donne
avanzano in sincronia intonando canti propiziatori. A circondarle, un manto
color ruggine punteggiato di gemme violacee.
Nonostante
la fatica e le incertezze della situazione, il tempo del raccolto è vissuto
come un periodo lieto, una celebrazione collettiva che ancora riesce ad unire
le comunità e i villaggi arroccati sul monte Sirwa. I vestiti delle contadine
sono curati, i foulard rifiniti e in armonia con le tonalità dell'ambiente.
"In
passato il pigmento di zaʻfrān
era sempre presente nel nostro quotidiano. Veniva utilizzato per decorare gli
abiti, ornava il volto e il corpo delle spose per proteggerle dai jnoun [gli spiriti malvagi] e ci si
coloravano perfino i tappeti intrecciati a mano", racconta Malika. "Ora
non possiamo più permettercelo, le quotazioni sul mercato sono alte e la spezia
non può essere sprecata, anche se a noi viene pagata una miseria".
Arrivate
all'ultimo solco le donne interrompono la sinfonia, radunano i fiori e si
spostano vociando verso un appezzamento poco distante. "Andiamo a dare una
mano ai vicini" butta lì la contadina mentre si affretta per raggiungere
le altre. La solidarietà, almeno quella, non è ancora diventata un valore di
mercato.
Gli intermediari
L'ascesa
del Sirwa continua e, tornante dopo tornante, le perplessità faticano a trovare
una spiegazione. Lo zafferano di Taliouine se ne va quasi tutto all'estero,
dove il suo prezzo è almeno dieci se non venti volte maggiore di quello
percepito dai fellah. Chi approfitta di
questo rincaro?
"Gli
intermediari, i grossisti delle grandi città che inviano qui i loro emissari.
Si tratta di un'entità grigia di cui si fatica a tracciare i contorni",
risponde sicuro Haj Khemiss, ex funzionario riconvertito all'economia solidale.
"Il problema più grande è la carenza di canali di vendita ufficiali, che
possano assicurare un prezzo equo ai produttori. Alcune organizzazioni di fair trade si stanno interessando alla
nostra regione, ma le quantità che trattano sono irrisorie come pure i proventi
che arrivano dai circuiti del turismo sostenibile".
E lo Stato in tutto
questo? "Si sta muovendo, senza particolare successo. Le certificazioni di
qualità sono costose e facilmente raggirabili finché il prodotto continua a
passare nelle mani dei mediatori".
Anche
le cooperative, a cui sono destinati gli incentivi (bulbi, imballaggi..), hanno
poca presa sul mercato e i contadini che ne fanno parte - stando alle
testimonianze ricevute - sono comunque costretti ad affidare la gran parte del
raccolto all'economia informale, che specula sul loro isolamento. "Per
uscire da questo far west ci vorrebbe
una politica di sostegno pubblico sul prezzo della materia grezza - commenta
Haj Khemiss - Solo pochi dirham al grammo, centesimi di euro, quassù farebbero
la differenza".
L'emarginazione aumenta
l'impotenza
Il
sole ha compiuto la sua volta e va ad infilarsi lentamente dietro al costone di
roccia su cui si intravedono terrazzamenti e piccole porte ben sistemate, quasi
a proteggere l'accesso all'intimità della montagna. Sono le grotte che danno riparo
ai pastori in transumanza.
Immersi
nel silenzio, alcuni scoiattoli di Berberia - sopravvissuti al bracconaggio che
ne ha falcidiato la popolazione - sembrano rincorrere gli ultimi riflessi di
luce e con essi il tepore della giornata che se ne sta andando. Poco distante una
costruzione secolare, cesellata sulla pietra della parete, osserva prudente la
borgata spenta che sorge ai suoi piedi.
A
prima vista si direbbe un castello, il rimando è fiabesco. In realtà si tratta
di un ighrem, un deposito fortificato
con cui gli abitanti del posto proteggevano i loro beni - bestiame e
vettovaglie - in caso di pericolo. Il villaggio sottostante, invece, si chiama
Ifri, parola che in berbero significa appunto "roccia". E la sua
quotidianità, per quanto autentica e sotto certi aspetti eroica, ha ben poco
della favola incantata.
A questa altitudine
infatti le porzioni di superficie coltivabile si riducono a minuscoli
fazzoletti, intervallati da qualche albero da frutto. I bambini, numerosi,
hanno interrotto la scuola e aiutano i genitori nei campi e nelle incombenze
domestiche.
Sono
loro, ciabatte ai piedi e mani sporche di terra, a fare il quadro della
situazione. Ogni famiglia, alla fine della stagione, ricava dallo zafferano al
massimo 3 mila dirham (meno di 300 euro), a cui vanno sottratte le spese ordinarie:
irrigazione, trasporto e la decima per la moschea e l'imam.
Anche
qui le pompe per il pozzo ce le hanno portate i privati, mentre l'acqua
potabile non è ancora arrivata. Gli stimmi vengono raccolti tutti assieme e poi
venduti al suk settimanale di
Taliouine, a 12 dh il grammo. E' il prezzo più basso. Il riscontro,
inequivocabile: più cresce il livello di emarginazione, più aumenta l'impotenza
nella contrattazione. E la voglia di lasciar perdere, di tentare altre strade.
Eppure gli abitanti di
Ifri, come le altre diecimila anime che compongono i resti della tribù Souktana,
sono legati dal doppio filo della storia alla coltivazione del tubero e
all'utilizzo dei suoi pistilli. Amuleto contro il malocchio, ma anche infuso
dalle apprezzabili proprietà curative.
Un'anziana
donna racconta che lo zaʻfrān veniva
correntemente impiegato per lenire i dolori dell'influenza, del parto e dello
sviluppo della dentatura. "Era anche applicato sulle cicatrici dei
neo-circoncisi e poteva servire da antidoto a certi veleni animali. Ancora oggi
lascio da parte qualche fiore, per ogni evenienza. L'ospedale più vicino è a
più di cento chilometri e da queste parti i dispensari dei villaggi non
abbondano certo di medicine".
L'oscurità ha ormai
avvolto completamente il paesello. Più a valle le luci della sera restano dei
puntini sbiaditi, lontani. Non ci sono musiche né danze a disturbare la quiete
di Ifri. Il festival, quassù, non è arrivato e la gente non ha nessuna
intenzione di scendere a Taliouine.
"Servono
i soldi per lo spostamento, se considero tutta la famiglia è quasi una giornata
di lavoro", ammette sconsolato Ahmed, che precisa: "se penso poi alle
migliaia di dirham spese per organizzare l'evento, che porta al massimo qualche
decina di turisti, mi sale la rabbia. Il festival non è per noi, ma per tutti
quelli che continuano a sfruttare le nostre risorse". Non ha tutti i
torti, Ahmed. Dire che i contadini del Sirwa non traggono i benefici sperati
dell'oro rosso che da tempo immemore maneggiano con esperienza è uno stridente
eufemismo.
(Foto Jacopo Granci) |
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