CASABLANCA - In boulevard des FAR c’è poco traffico. E’ piuttosto insolito vista l’ora, le cinque del pomeriggio. Scendo dal Petit Taxi e affretto il passo verso il Café des Habous, dall’altra parte della strada. Seduto a tavolino, lungo il marciapiede invaso dalle auto parcheggiate in maniera selvaggia, c’è Aziz El Yaakoubi che mi aspetta. Aziz è un giornalista del Journal Hebdomadaire, o meglio lo era, dato che dopo la chiusura del settimanale è disoccupato. Oltre ad essere uno straordinario professionista, rimane un amico, con il quale ho condiviso molte delle mie serate casablancaises.
Davanti a due café noir dall’aroma incerto e troppo zuccherati superiamo velocemente i saluti e le domande di rito per affrontare il tema del nostro incontro. Prima di iniziare il suo racconto però, Aziz tira fuori dallo zaino l’ultimo numero del Journal apparso in edicola il 23 gennaio scorso. Quando il tribunale ha posto i sigilli alla redazione ed ha decretato la morte della rivista, mi trovavo in Italia, troppo lontano da kiosques e terrassiers. Così me ne ha conservata una copia. Un ricordo, un ultimo regalo per consegnare alla memoria l’epilogo di un’esperienza incredibile. “Mercoledì mattina (il 27 gennaio, nda) ero in redazione quando si sono presentati gli ufficiali giudiziari. Hanno parlato con Issam Bargach, il direttore, e poi sono partiti. Dopo una mezz’ora sono ricomparsi, ci hanno fatto uscire dai locali ed hanno cambiato la serratura della porta d’ingresso”, mi comunica Aziz. Che poi prosegue: “sapevamo che la nostra fine era vicina. Conoscevamo la situazione finanziaria del giornale, i debiti, le condanne, i risarcimenti dovuti e tutto il resto, ma quello che è successo è un’esecuzione in piena regola. Senza alcuna possibilità di appello. Va ben al di là delle nostre più cupe previsioni”. Le Journal non ha più alcuna speranza di rinascere. La società editrice, Trimedia, dopo il sequestro è finita nelle mani dello Stato, che non ha nessuna intenzione di servirsene per portare avanti la pubblicazione. “Questo è un aspetto importante, che deve far riflettere – mi fa notare Aziz - la sentenza del tribunale ha colpito gli azionisti, Aboubakr Jamai e Fadel Iraqi, ma non l’equipe. Lo Stato ha nominato un curatore dei pochi beni rimasti a Trimedia e sarebbe suo interesse, almeno seguendo una logica puramente economica, riprendere il lavoro per cercare di risanare il bilancio della società”. Dato che la gran parte dei debiti maturati riguardano le stesse casse dello Stato. Ma la logica economica ha poco a che vedere con quanto accaduto. Il regime ha cercato e ottenuto un facile pretesto per mettere a tacere un giornale scomodo. Una voce critica che negli ultimi mesi non ha mai smesso di denunciare la morsa repressiva stretta attorno al Sahara Occidentale, le continue violazioni della libertà di espressione e l’atteggiamento assunto dal governo nella vicenda Aminatou Haidar. Il denaro perduto e i lavoratori buttati in strada sono solo dettagli ininfluenti che non interessano al Palazzo, consapevole ormai di aver raggiunto l’obiettivo.
C’è profonda amarezza nella voce di Aziz. Le parole stentano ad uscirgli di bocca. Poi all’improvviso mi guarda negli occhi e ricomincia a parlare con tono sicuro. “Mercoledì scorso (3 febbraio, nda) alla conferenza stampa c’erano proprio tutti. Le associazioni per i diritti dell’uomo, i sindacati, i giornalisti, alcuni esponenti politici, perfino gli islamisti. Tutti presenti per rendere omaggio a Le Journal Hebdomadaire. La sede del PSU (Partito socialista unificato) traboccava di gente”. Dopo la conferenza Jamai ha lasciato il Paese. Ali Amar, co-fondatore e azionista del Journal fino al 2008, ha fatto lo stesso. Entrambi rischiano di finire in carcere per insolvenza verso lo Stato. I loro beni sono finiti sotto sequestro e i conti bancari congelati.
Sollevo lo sguardo e mi soffermo sulle ultime finestre del palazzo che sorge poco distante dal bar dove siamo seduti. La Tours des Habous. Ricordo il primo giorno che sono entrato là dentro, ad inizio novembre. L’ascensore si è fermato al quindicesimo piano. Raccolta la sacca da terra, ho sistemato qualche idea in testa e poi ho varcato la soglia della redazione. Ero arrivato fin lì per intervistare proprio Aboubakr Jamai, editorialista e storico fondatore del settimanale. Da quel giorno non ne sono mai veramente uscito. Quei volti incollati ai computer, i bicchieri del caffè sparsi sui tavoli illuminati dalla luce dei neon, le sigarette assaporate in compagnia vicino alla finestra che domina il porto. Sono rimasto legato in maniera indissolubile ai fautori di quello spazio di libertà chiamato Le Journal. Li ho conosciuti tutti, uno ad uno. Prima Aboubakr, poi Aziz, Letitia, Hicham e infine Christophe. Per me, aspirante giornalista in cerca di modelli ed esempi da seguire, lavorare al loro fianco, ascoltare i loro consigli e partecipare alle loro inchieste è stato un privilegio insperato. Un sogno, durato appena tre mesi, che mai nessuno riuscirà cancellare. Non ci riusciranno i sigilli degli ufficiali giudiziari, non ci riusciranno le ordinanze emesse dal tribunale e non ci riuscirà il regime, che ha fatto di tutto per mettere a tacere chi ha sempre avuto la forza e il coraggio di metterlo in discussione.
Di seguito l’editoriale di Ahmed R. Benchemsi, pubblicato da Tel Quel, n. 410, 6-12 febbraio 2010.
(La traduzione è a cura di Ossin, L’Osservatorio internazionale per i diritti)
E’ con tristezza ed emozione che vediamo scomparire il nostro confratello. Con lui se ne va una parte di noi.
Le Journal Hebdomadaire non c’è più. La sua ricca e lunga storia (12 anni) è finita improvvisamente, brutalmente. Mercoledì 27 gennaio 2010 verso le 18.30, gli ufficiali giudiziari si sono presentati, carte alla mano, per apporre i sigilli ai locali e sequestrare tutti i beni, impedendo di fatto la ripresa delle pubblicazioni. Le Journal viene così punito per non aver pagato una parte dei suoi debiti alla sicurezza sociale. Ma fin d’ora la procedura sembra essere zeppa di vizi di forma: il sequestro dei beni di una società (Trimedia) al posto di un’altra (Media Trust), giudizio di prima istanza, dunque non esecutivo senza appello, eseguito 5 anni dopo i fatti (!), ecc.
E’ vero che, vizi di forma o meno, i fondatori di Le Journal non negano di avere accumulato nel corso degli anni pesanti debiti verso il fisco e la Cassa nazionale della sicurezza sociale (CNSS). Spiegano però che questo è stato il risultato del severo boicottaggio pubblicitario durato dieci anni, che li ha privati delle risorse finanziarie. Se il boicottaggio è certo, la spiegazione è sufficiente? Non spetta a noi dirlo. Ma d’altra parte, da quando in qua lo Stato chiude delle imprese a causa degli arretrati dovuti ad altre imprese? Perché Trimedia è stata posta in liquidazione mentre stava, per ammissione della stessa CNSS, regolando i suoi conti. Sorvolando questo punto di diritto, l’avvocato dei creditori ha dichiarato che “Le Journal può riprendere le pubblicazioni, se paga tutti i suoi debiti”. Metodo curioso! L’interesse dello Stato sarebbe quello di recuperare i crediti non soddisfatti mantenendo in vita i debitori in difficoltà. Non di eliminarli, e poi augurarsi ipocritamente che resuscitino… Tutto ciò per dire quanto segue: non c’è dubbio che a decretare la fine del Journal è stata la sua linea editoriale – e in special modo gli editoriali del suo fondatore Aboubakr Jamai, ritornato da poco in Marocco, ma che non si è mai allontanato da una linea di feroce opposizione alla deriva autocratica e/o oligarchica nella quale il paese sta precipitando. In qualsiasi modo sia avvenuta, la chiusura di Le Jorunal Hebdomadaire è soprattutto una decisione politica. L’evidenza salta agli occhi ed è una conferma di più, se ve ne fosse stato bisogno, che le analisi di Aboubakr Jamai erano giuste.
Le Journal e Tel Quel sono stati a lungo concorrenti. Le loro linee editoriali erano diverse, quantunque complementari. La transizione democratica “alla marocchina”? Le Journal non vi ha praticamente mai creduto, e l’ha sempre affermato con forza (era sua libertà e suo diritto). Noi di Tel Quel abbiamo considerato inutilmente “estrema” la forma in cui si è espresso il nostro confratello. Ma il nostro disaccordo editoriale riguardava solo la forma. Al fondo eravamo d’accordo, soprattutto negli ultimi tempi, nell’analisi fondamentale: il nostro paese sta vivendo una pericolosa regressione.
La libertà di espressione in Marocco? E’ esistita nel 1999, quando è salito al trono Mohammed VI, non tanto perché la monarchia l’ha concessa ai giornalisti, quanto perché questi ultimi se la sono presa, in un clima politico caratterizzato da una certa apertura. Ma quando il potere centrale si è sentito più sicuro, questa apertura si è ridotta di anno in anno. Oggi è appesa ad un filo, sempre più teso. L’omicidio del Journal è l’ultima manifestazione di un degrado generale che, alla fine, ci minaccia tutti.
Bisogna rendere un omaggio sincero e fornire appoggio a Le Journal. Questo settimanale coraggioso e indipendente ha incontestabilmente giocato il ruolo di pioniere della libertà di espressione nel Marocco della “nuova era”. Già negli ultimi anni di Hassan II, oltrepassava le “linee rosse”, allargando lo spazio del dicibile fino all’inimmaginabile. In sintonia con lui, un gruppo di altre testate ha continuato, nel corso degli anni 2000, a dissodare il terreno delle libertà di espressione. A loro rischio e poi, sempre di più, a loro pericolo. E’ con tristezza e emozione che vediamo oggi scomparire Le Journal. Con lui se ne va una parte di noi.
In questo ultimo omaggio al Journal ho voluto inserire la traduzione di due articoli pubblicati dalla stampa francese. Il primo, apparso su Le Nouvel Observateur, è in realtà un estratto dell’intervista rilasciata da Aboubakr Jamai al settimanale transalpino. Il secondo, pubblicato da Libération, ripercorre brevemente la storia della rivista marocchina attraverso le testimonianze di un suo assoluto protagonista, Ali Amar.
Perché siamo morti
Aboubakr Jamai, fondatore del Journal Hebdomadaire, risponde alle domande di Le Nouvel Observateur.
N. O.: Perché il regime marocchino ha deciso di farla finita con Le Journal Hebdomadaire proprio in questo momento?
Aboubakr Jamaï: Il regime ha esitato a lungo prima di chiudere il nostro giornale. Incarnavamo le speranze di cambiamento suscitate dall’arrivo al potere di Mohammed VI. Dal dicembre del 2000, data della nostra prima condanna, siamo stati vittime delle pressioni delle autorità, siamo stati privati della pubblicità e asfissiati economicamente. Ma adesso le autorità si sono sentite autorizzate a farla finita. Senza dubbio poiché siamo uno dei pochi giornali a non aver mai risparmiato il regime dalle accuse, in particolare sul tema del Sahara Occidentale e sulle iniziative finanziarie condotte dal re. Abbiamo sostenuto l’azione di Aminatou Haidar, militante indipendentista del Sahara Occidentale, e abbiamo denunciato la “monarchizzazione” dell’economia marocchina. I consiglieri di Palazzo stanno utilizzando lo Stato per arricchirsi, cacciando le imprese straniere che investono nel nostro Paese, come Auchan e Telefonica.
N. O.: Ha intenzione di fondare un nuovo giornale?
A. Jamaï: No. Mi fermo qui. Il clima si è fatto troppo violento. Io ormai sono segnato ed ho già fatto un torto ai miei confratelli. A causa dei miei processi e dei soldi che devo alle casse dello Stato (in quanto azionista della società che gestiva il giornale, ndt), sono stato costretto all’esilio in Spagna. Forse avremmo dovuto smettere già nel 2000. I giorni della libertà di espressione erano contati. Ma noi ci credevamo davvero… sognavamo di passare da Pinochet a Montesquieu. Che disfatta! Perfino la Banca Mondiale si è stupita nel constatare la regressione compiuta dal Marocco in tutti gli indici della “good gouvernance” dal 1998 al 2005. Per quanto riguarda le libertà pubbliche poi, siamo finiti a rimpiangere gli ultimi anni di regno di Hassan II.
Marocco. Le Journal Hebdomadaire getta la spugna
Messo in ginocchio dai debiti, la storica testata marocchina è stata costretta alla chiusura dalla giustizia. Il risultato di una strategia che l’ha condotta “all’asfissia finanziaria”, secondo uno dei fondatori.
“Una morte programmata”. Per Ali Amar, uno dei fondatori del Journal Hebdomadaire, il sequestro dei beni e dei locali del giornale marocchino, avvenuta giovedì scorso, non è che il compimento di un processo di “asfissia finanziaria” condotto dal regime di Mohammed VI. Il 25 gennaio il tribunale di Casablanca ha ordinato la “liquidazione giudiziaria” di Media Trust, la società editrice del Journal fino al 2003. Il provvedimento ha colpito anche Trimedia, da quel momento al timone del settimanale, che viene considerata una semplice estensione di Media Trust. La decisione, resa subito esecutiva, impedisce a Le Journal di comparire nelle edicole. La spiegazione sembrerebbe semplice: il mancato pagamento di ingenti debiti (5 milioni di dirham, ossia circa 450 mila euro) contratti da Media Trust verso la Cassa di previdenza sociale e il fisco marocchino. Ali Amar non nega “l’indebitamento colossale”. Ma assicura che tale risultato “non è il frutto di una cattiva gestione finanziaria, piuttosto la conseguenza di un accanimento giudiziario”. Una posizione condivisa da Soazig Dollet, responsabile di Reporters sans frontières, che ha espresso il suo sostegno al settimanale marocchino.
La conquista della libertà durante l’interregno
Le Journal vede la luce nel 1997. “L’inizio di un’era ricordata come la primavera marocchina”, sottolinea Ali Amar. In un’epoca di cambiamento, segnata dalla morte di Hassan II e l’ascesa al trono del figlio Mohammed VI (1999), i giornali marocchini ne approfittano “per prendersi delle libertà fino ad allora mai conosciute”. Le Journal, spinto dai suoi fondatori Ali Amar, Aboubakr Jamai e Hassan Mansouri, diventa la pubblicazione più indipendente del Paese. Attacca Driss Basri, ministro dell’Interno con Hassan II, e offre la parola a Mohamed Abdelaziz, leader del Fronte Polisario.
Nel dicembre 2000 Le Journal viene chiuso su decreto del Primo ministro Youssoufi, salvo poi rinascere nel gennaio 2001 con un nuovo nome: Le Journal Hebdomadaire. Un anno più tardi si becca una condanna (in appello) di 500 mila dirham per diffamazione, dopo aver denunciato le attività immobiliari di Mohamed Benaissa, ministro degli Esteri. Trimedia riesce ad ottenere un pagamento dilazionato dei debiti nel 2007, ma il passivo di Media Trust continua a pesare e la società non riesce a provvedere al pagamento delle imposte.
Boicottaggio pubblicitario
Nel 2007 il settimanale subisce una nuova condanna, in seguito al processo intentato da Claude Moniquet. Le Journal Hebdomadaire deve pagare un risarcimento di 3 milioni di dirham al Centro europeo di ricerca strategica. Ma i problemi non si fermano qui, poiché nella primavera del 2009 “il segretario particolare del re, Mounir Majidi, ha chiesto ai principali inserzionisti pubblicitari del Paese di boicottare Le Journal”, precisa Soazig Dollet. Privato di un introito finanziario notevole, il giornale non riesce ad andare avanti, sebbene continui a pubblicare i suoi articoli senza fare alcuna concessione al regime, specie per quel che riguarda il Sahara Occidentale e la vicenda Aminatou Haidar.
“Il potere ha vinto e Le Journal ha perso”, riassume la responsabile di RSF, che fa il conto degli ultimi titoli indipendenti presenti ancora nel regno alawita: “nella stampa francofona resta solo Tel Quel, già vittima delle ire del Palazzo l’estate scorsa, quando ha cercato di pubblicare un sondaggio sui primi dieci anni di regno di Mohammed VI. Tra la stampa arabofona ci sono Akhbar Al Youm e Al Jarida Al Oula, anche loro pesantemente vessati dalla giustizia marocchina”. “Lo spazio delle libertà si è ridotto in modo evidente nel corso del 2009. Nelle scorse settimane sono stati arrestati perfino due blogger”, aggiunge Soazig Dollet. Dal canto suo, Ali Amar sottolinea che “il Palazzo non ha mai veramente accettato la libertà dei media”. Secondo il suo punto di vista “l’attuale irrigidimento che ha colpito la stampa indipendente avanza di pari passo all’irrigidimento politico”, divenuto palpabile durante l’esplosione della vicenda Haidar.
Sylvain Mouillard
1 commento:
Anche quando sei con il morale a terra, così sembra, il tuo modo di scrivere riesce ad essere semplice e nello stesso tempo elegante.
Bravo
AGO.
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