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mercoledì 9 febbraio 2011

Ritorno a Sidi Bouzid, epicentro della rivolta tunisina (e araba)

E’ passato un mese dalla fuga di Ben Ali e dalla conquista di Cartagine. Quasi due dall’inizio del sollevamento, divampato nelle remote (e fino a quel momento sconosciute) regioni dell’interno, mentre la transizione democratica fatica a muovere i primi passi. Ritorno da dove tutto è cominciato…





La lunga lingua di asfalto che taglia a metà un paesaggio dall’aspetto lunare, piatto e arido, si interrompe poco prima dell’ingresso in città. La strada scompare in un sentiero disseminato di buche e pietre, che fa sobbalzare l’auto per un paio di chilometri, fino al cuore del centro abitato. “Alza la testa, sei a Sidi Bouzid!”, c’è scritto a fianco al monumento posto al centro della piazza 7 novembre, ribattezzata dagli abitanti “piazza Mohamed Bouazizi”. La foto del martire ricopre la scultura informe, eretta dal passato regime per celebrare l’ascesa al potere di Ben Ali. Cacciato il dittatore, nuovi eroi si innalzano alla memoria della Tunisia rivoluzionaria. Primo fra tutti il giovane ambulante di ventisei anni che il 17 dicembre scorso si è dato fuoco di fronte alla sede del governatore regionale, a pochi passi dalla piazza. Al gesto di Mohamed Bouazizi è seguito qualche giorno dopo il suicidio di Neji Felhi, gettatosi sui cavi dell’alta tensione al grido “basta miseria e disoccupazione”. Due episodi che hanno sollevato il coperchio di un sistema corrotto e repressivo. Due episodi che hanno infiammato Sidi Bouzid e i villaggi circostanti, scatenando la rivolta di una popolazione marginalizzata, consumata dalla hogra e stanca degli abusi delle autorità.

“Siamo tristi e allo stesso tempo fieri”
La casa di Mohamed Bouazizi è nascosta tra i vicoli sterrati della Cité Ennour-ouest. Minuscole baracche in argilla, appiccicate l’una all’altra, si susseguono anonime nel quartiere popolare, labirinto fangoso alla periferia occidentale della città. Dietro alla piccola porta di metallo, la famiglia Bouazizi è raccolta attorno al dolore della madre Manoubia. La donna giace distesa su un materasso appoggiato per terra. Rannicchiata, il volto è quasi nascosto sotto la spessa coperta di lana. Si intravedono appena gli occhi, di un azzurro pallido, e una mano che strige debolmente un sebha (una sorta di rosario) di legno. “E’ molto malata, dalla morte di mio fratello non è più uscita di casa”, spiega Basmah, quindici anni. Oltre a lei, nel salotto mal illuminato, ci sono Samia e Leila, sorelle minori di Mohamed, e il piccolo Zyad, otto anni. Samia ha i capelli raccolti sotto l’hijab nero, che risalta il taglio orientale dei suoi occhi e i bei lineamenti del viso, intaccato nella guancia destra da una profonda cicatrice. E’ lei a prendere la parola: “viviamo uno stato di confusione emotiva. Siamo tristi e allo stesso tempo fieri. Mio fratello non c’è più, ma il suo gesto ha cambiato le sorti del nostro paese”. La morte del giovane ambulante sembra aver lasciato un vuoto incolmabile nella famiglia Bouazizi. “Era allegro e gentile. In città tutti gli volevano bene”, continua Samia, diciannovenne, all’ultimo anno di liceo dove sta seguendo un corso di italiano. “In classe era brillante, parlava bene francese, ma finite le superiori aveva deciso di mollare gli studi per aiutarci. Ci comprava da mangiare e pagava la scuola, si preoccupava per la nostra istruzione. Era stato lui ad insegnarci a leggere da bambini”. Con il suo lavoro, nelle giornate migliori, Mohamed riusciva a guadagnare dai quindici ai venti dinari (otto-dieci euro). Acquistava le verdure all’alba e poi le rivendeva per strada con il suo carretto. “Aveva presentato molte domande di assunzione nelle amministrazioni e negli uffici pubblici, senza mai ottenere una risposta. Così ha iniziato a lavorare al mercato”.

Il 17 dicembre scorso Mohamed Bouazizi si è visto sequestrare la merce e la bilancia da tre agenti della polizia municipale. Tra loro una donna, Fayda Hamdi, che lo ha insultato e schiaffeggiato, prima che i suoi colleghi finissero il lavoro a suon di botte. “Quella della licenza era solo una scusa. Quasi nessuno ce l’ha. Volevano estorcergli denaro”, tiene a precisare Samia. Per riavere la merce e la bilancia Mohamed avrebbe dovuto pagare trenta dinari, il guadagno di due giorni. Era questa la mazzetta corrente con cui i poliziotti arrotondavano lo stipendio nella Tunisia del “miracolo economico”, tanto osannata da Ben Ali e dai suoi sostenitori occidentali. Mohamed non ha ceduto al ricatto. Ha protestato, ha cercato di recuperare la merce, poi ha chiesto udienza al governatore, invano. Spinto dalla disperazione e dalla vergogna per l’insulto subito, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco.
Mohamed Bouazizi è morto all’ospedale di Tunisi il 3 gennaio, dopo diciassette giorni di agonia, a causa delle gravi ustioni riportate su tutto il corpo. In quel momento la rivolta scatenata a Sidi Bouzid dal suo gesto aveva già contagiato l’intero paese e si stava trasformando in rivoluzione. Mohamed ne è subito divenuto il simbolo, martire di una nuova Tunisia che sta cercando di chiudere i conti con la gestione autoritaria e mafiosa del vecchio regime. “Non parlava mai di politica, non era un militante, ma amava la libertà e credeva nel rispetto”, ricorda la sorella Leila, ventiquattro anni e una laurea ottenuta da pochi mesi all’università di Monastir. “Appena la mamma si sentirà meglio partirò per la capitale in cerca di lavoro. Qui non c’è posto per me. Rimarrei ad ingrossare le fila dei disoccupati, come ha fatto a lungo mio fratello”.

Sviluppo a due velocità
Sidi Bouzid, cittadina di cinquantamila abitanti situata 265 km a sud di Tunisi, è da sempre terra di emigranti. Le misere condizioni di vita e le scarse prospettive di impiego hanno spinto migliaia di giovani a cercare fortuna altrove, in Europa quando era possibile, nelle città della costa o perfino nella vicina Algeria. Negli ultimi anni la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili, ben lontani dalle cifre ufficiali riconosciute dagli organismi internazionali. “La media nazionale si aggira attorno al 14%, ma qui da noi il tasso di disoccupazione è almeno il doppio. Se prendiamo in considerazione solo la fascia dei laureati, supera abbondantemente il 60%”, afferma l’avvocato Allem Hachi, che prosegue la sua analisi sorseggiando una tazza di café au lait ormai decisamente fredda: “le generazioni più giovani sono tutte ampiamente scolarizzate. Oltre ai licei, recentemente, sono state aperte due facoltà: Agraria e Conservazione dei beni culturali. Ma il decentramento delle università non è stato accompagnato dalla redistribuzione dei capitali e dei progetti di investimento”.
Il modello di sviluppo tunisino ha condannato le città dell’interno ad una condizione di marginalità economica e sociale. I centri costieri e i porti del Sahel (Hammamet, Sousse, Sfax), dove si concentrano il turismo e le attività commerciali, assorbono da soli il 90% degli investimenti nazionali. Il paese sembra muoversi a due velocità, nella completa assenza di una perequazione dei proventi. A Sidi Bouzid, come nelle vicine Kasserine e Thala, si sopravvive di agricoltura e allevamento, un’economia di sussistenza priva del tessuto industriale e terziario. “La risorsa principale è l’olio di oliva, ma mancano dei veri impianti di trasformazione. Ci serviamo ancora di piccoli frantoi artigianali”, dichiara un contadino sulla cinquantina di nome Mounir, proprietario di una vecchia macina fuori città. I tre laboratori tessili presenti a Sidi Bouzid danno lavoro a qualche centinaia di ragazze, ma i guadagni restano modesti. “Alla fine del mese le operaie ricevono centocinquanta dinari (ottanta euro circa), mentre le stagiste difficilmente arrivano a cento. I più fortunati sono i dipendenti della Shtaif, una fabbrica tedesca di giocattoli di pezza. A loro è riconosciuto almeno il salario minimo garantito (duecentoventi dinari)”, afferma con evidente ironia l’avvocato Hachi. Per tutti, laureati e non, resta il sogno di un’assunzione negli uffici pubblici cittadini, una speranza illusoria dal momento che quei posti sono stati assegnati per decenni su base clientelare, sotto la costante supervisione delle autorità locali. Secondo le statistiche 2009 fornite dall’ufficio del lavoro, su 3899 domande di impiego presentate 3864 sono rimaste senza risposta.
All’esterno del Café Libya, nel sentiero sterrato che si avvia verso il centro del paese, un mucchio di bottiglie è stato ammassato lungo il bordo della carreggiata. Sull’etichetta c’è il marchio Celtia, la birra tunisina ex proprietà della famiglia Trabelsi. Se a Sidi Bouzid le fabbriche scarseggiano, non si può dire altrettanto dei bar in possesso della licenza per la vendita di alcolici. “Ce ne sono almeno quattro, senza contare il mercato nero, una concentrazione sorprendente per una remota cittadina di passaggio”, conferma Allem Hachi. La città, infatti, è appena sfiorata dalle comitive di turisti in transito verso le rovine romane di Sbeitla e i palmeti di Tozeur. Anche i due alberghi, se si eccettua l’invasione di giornalisti delle ultime settimane, sono perennemente vuoti. Per l’avvocato Hachi, l’eccezionale diffusione delle bevande alcoliche è un ulteriore sintomo del disagio patito nella regione, oltre che un tentativo di anestetizzare la rabbia e la frustrazione dei giovani del posto. Tentativo fallito, come hanno dimostrato gli eventi recenti.

Le manifestazioni continuano
Nella ex piazza 7 novembre, accanto alla scultura su cui troneggia la foto di Mohamed Bouazizi, è stata montata una piccola tenda da campo. Sul cartello appeso all’ingresso c’è scritto “Comitato di resistenza popolare”. Uno dei presenti, bandiera tunisina legata sulle spalle, spiega: “siamo qui dal 14 gennaio, non è il momento di fermare la protesta. C’è ancora molto da fare ed ogni giorno scendiamo in strada per ricordare ai partiti e al nuovo governo che non riusciranno a rubare la nostra rivoluzione”.
A Sidi Bouzid le manifestazioni continuano. Verso mezzogiorno, sulla strada principale che attraversa tutta la città da nord a sud, si sono radunate quasi cinquemila persone. Abbassate le saracinesche dei negozi, chiuse le porte dei café e dei ristoranti. I militari osservano la marea umana che inonda le vie del centro senza accennare la minima reazione. “Oggi c’è molta più gente degli altri giorni perché il sindacato ha indetto uno sciopero”, si avvicina spontaneamente Ahmed, un maestro elementare iscritto all’Unione regionale del lavoratori. Difficile credergli, dal momento che in paese la classe operaia è praticamente assente e gli insegnanti sono gli unici a far parte di un sindacato che aveva chinato fin troppo la testa durante il regime Ben Ali.
Sciopero o no, la manifestazione ha tutta l’aria della protesta spontanea, proprio come le rivolte di fine dicembre. Dietro agli striscioni non ci sono solo ragazzi, ma anche donne e bambini, intere famiglie. Perfino i “barbuti” sfilano accanto alle magliette del “Che” per chiedere la dissoluzione dell’RCD (il partito-stato dell’ex presidente), la partenza del primo ministro Ghannouchi e l’epurazione dall’amministrazione locale di tutti quadri compromessi con il vecchio sistema, in primis il governatore. Un uomo sulla trentina brandisce un foglio su cui ha scritto a penna un elenco dei corrotti: “il primo della lista ha fatto assumere le sue due figlie in una scuola senza che avessero il certificato di abilitazione all’insegnamento!”. La città non si fida delle promesse fatte dal governo di transizione. Con l’avanzare del corteo si moltiplicano le rivendicazioni. “Hanno annunciato un nuovo piano di investimenti per la nostra regione. Io ho portato mio padre all’ospedale qualche giorno fa e l’ho dovuto lasciare su un letto sporco e senza coperte”, ricorda Selim, venticinque anni e un fazzoletto rosso legato al braccio.

La marea transita di fronte alla sede locale dell’RCD. Due soldati e un rotolo di filo spinato ne impediscono l’accesso. Un manifestante chiarisce: “è l’unico edificio di tutta la città che è stato preso d’assalto durante i giorni del sollevamento”. Il cortile è deserto e i segni della devastazione sono ancora evidenti. Poco più avanti, raggiunto il palazzo del governatore, la marcia si arresta e una foto di Mohamed Bouazizi viene issata sul cancello sbarrato. E’ in questo punto che si è immolato il giovane shahid, dando fuoco ad una miccia che ancora sta infiammando il mondo arabo dall’Algeria allo Yemen. Qualcuno grida: “è una vergogna, le autorità non ne vogliono sapere di concedere indennizzi alla famiglia. Non hanno fatto neanche una telefonata. In più la poliziotta che lo ha umiliato, schiaffeggiandolo e insultando la memoria di suo padre, non è stata né accusata né processata. L’hanno semplicemente trasferita”. Dopo un minuto di silenzio che ha ammutolito l’intera Sidi Bouzid, il corteo riparte lentamente tra i cori e gli youyou delle donne. La folla colorata di manifesti e bandiere si riversa di nuovo nel viale alberato, sfiorando inconsciamente una fermata dell’autobus chiamata Al Hurria, “La libertà”. L’immagine più bella in questo ritorno alle origini della rivoluzione…

3 commenti:

Anonimo ha detto...

bello, tanti auguri ai cittadini di Sidi Bouzid e al popolo tunisino.

Anonimo ha detto...

Complimenti grenc... un abrazo fuerte

Anonimo ha detto...

grazie al tuo gesto il mondo arabo e libero .