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giovedì 12 novembre 2009

Voci d'Algeria. Waciny Laredj (1)

Domenica 22 marzo, aeroporto Marco Polo, sono le 19:37 e il volo proveniente da Parigi sta atterrando, con un sorprendente anticipo di ben 13 minuti sull’orario previsto. L’attesa ormai è finita e ben presto conoscerò Waciny Laredj. Sono molto curioso ed anche un po’ emozionato. Ho appena finito di leggere l’unico tra i suoi romanzi fino ad ora tradotto in italiano, Don Chisciotte ad Algeri, una lettura che mi ha lasciato semplicemente senza parole, devo ammetterlo. Non conoscevo nulla di questo scrittore fino a pochi giorni fa, né le sue opere né la sua vita, nemmeno la sua esistenza, devo confessarlo, ma dopo essermi lasciato trasportare dalle sue parole, dai suoi racconti, per le strade di un’Algeri ancora fresca nella mia memoria, sento che una inesplicabile familiarità mi lega già a questo personaggio.



Mi installo di fronte all’uscita degli ARRIVI INTERNAZIONALI, sicuro di riconoscerlo tra la folla di turisti che si agitano e schiamazzano mentre superano i resti di quella che fino a pochi anni fa era la dogana. Mille voci, risate e richiami festosi di uomini e donne, pronti a godere in pochi minuti delle meraviglie di Venezia, cercano di attirare la mia attenzione, forse incuriositi dal cartello che brandisco a due mani e che espongo fiero davanti a me “Algérie aujourd’hui, colloque Merifor”. Ma non mi lascio distrarre, so che monsieur Laredj potrebbe comparire da un momento all’altro e voglio essere pronto a raccogliere il suo sguardo.

Vi chiederete il perché della mia presenza all’aeroporto Marco Polo, in questa fredda serata di fine marzo, vi chiederete per quale ragione stia aspettando con tanto entusiasmo un romanziere algerino pressoché sconosciuto nel nostro Paese. Sono interrogativi legittimi, a cui è doveroso dare una risposta. L’Università Ca’ Foscari di Venezia, assieme a Merifor (Centro di ricerca e formazione mediterraneo), ha organizzato il convegno “Algeria oggi, vincoli e cambiamenti”, che si terrà il 23 ed il 24 marzo nell’Auditorium Santa Margherita, a Venezia. Waciny Laredj è uno degli ospiti, chiamato ad esporre sulla genesi e le prospettive del romanzo algerino. Un giovane amante della letteratura maghrebina come me non poteva dunque lasciarsi sfuggire un’occasione del genere. Dopo aver letto Don Chisciotte ad Algeri, soprattutto, ho sentito il bisogno sincero ed impellente di conoscerlo, di parlare con lui. Le poche notizie biografiche che sono riuscito a rimediare e le interviste rilasciate da Laredj ai quotidiani algerini e francesi sono sufficienti a dipingere di fronte ai miei occhi l’immagine di un uomo forgiato ad una vita difficile e allo stesso tempo straordinaria. Eccomi qui, perciò, a fare gli onori di casa, agitato come un bambino al suo primo giorno di scuola.

I passeggeri del volo proveniente da Parigi stanno lentamente defluendo all’esterno dell’aeroporto, alla ricerca di un taxi o dell’autobus che li condurrà tra i ponti e i canali di una Venezia ormai scura e silenziosa. Le porte degli ARRIVI INTERNAZIONALI si sono richiuse, ma del mio ospite ancora nessuna traccia. Un sentimento di angoscia e delusione comincia ad invadermi… Avrà perduto l’aereo? Sarà successo qualcosa, magari di grave? Problemi burocratici? Ma no, dovrebbe avere il passaporto francese. Nella mia testa si ammassano confusamente dubbi e paure. Ormai del volo Air France 722700 non resta più nessuno.

Guardo con ostinazione la foto di Laredj che ho tra le mani, e cerco di ripercorrere con la memoria il flusso umano che mi ha travolto pochi minuti fa: cerco di recuperare i volti anonimi che mi sono sfilati davanti, magari era lì in mezzo e non me ne sono accorto. Getto lo sguardo velocemente a destra e a sinistra, scruto le poche persone rimaste ancora nel Gate, ma niente, la mia ricerca tardiva non ha successo. Sconsolato, decido di ritornare sui miei passi, a meditare sul mio fallimento, quando ecco che inaspettatamente le porte si riaprono e di fronte a me si materializza una figura imponente che trascina con aria serena e imperturbabile il suo minuscolo trolley. E’ lui, non posso sbagliarmi! I nostri sguardi si incrociano e sui suoi lineamenti severi si schiude un sorriso delicato: sicuramente deve aver letto il cartello che continuo, ostinato, ad esibire. Dal cappello calzato con eleganza scendono sulle le spalle dei ricci scomposti, quasi completamente canuti, segno inequivocabile della chioma rigogliosa di un tempo ormai lontano. Monsieur Laredj indossa un lungo cappotto scuro, semplice, come semplice è la sciarpa rossa, dal colore intenso, avvolta intorno al collo. Il sigaro spento, tenuto stretto delicatamente tra le labbra, tradisce un desiderio voluttuoso che troverà a breve appagamento.

Dopo un saluto caloroso, seppur cordiale, le presentazioni ed i convenevoli di rito, dirigo il mio ospite verso il parcheggio dei taxi e contratto velocemente un prezzo ragionevole per il rientro a Venezia. La vettura bianca si muove lentamente su una strada quasi deserta ed io ho tutto il tempo di intrattenere monsieur Laredj con domande sempre più incalzanti. Mi risponde con cortesia, cerca di saziare la mia curiosità, affascinato dal mio entusiasmo. Una volta arrivati in Piazzale Roma, alla fine della lunga lingua di asfalto che collega la laguna veneziana con la terraferma, lascio il mio nuovo mentore nelle mani della delegazione ufficiale dell’Università. Prima di congedarsi promette di trovare il tempo, l’indomani, per un’intervista. Una strizzatina d’occhio d’intesa e una stretta di mano formale suggellano il patto. Con un sorriso ebete stampato sul viso, mi incammino a passo veloce verso Zattere. Attendo il vaporetto immerso in una fitta nebbia padano-adriatica. La Giudecca mi osserva silenziosa ed io riesco appena a scorgere i riflessi dei lampioni che illuminano le fondamenta.


Venezia, 23/03/2009


Jacopo Granci: Ci troviamo in compagnia di Waciny Laredj, scrittore prolifico, giornalista e professore universitario a Parigi ed Algeri, esponente di spicco della classe intellettuale algerina post-indipendenza. Signor Laredj, quali scrittori e quali opere letterarie hanno contribuito alla sua formazione, così poliedrica, e quali hanno condizionato il suo cammino, conducendolo fino al cuore pulsante della realtà letteraria algerina contemporanea?


Waciny Laredj: Prima di tutto vi ringrazio del vostro invito (il voi è rivolto all’Università Ca’ Foscari e a Merifor). Devo dire che la mia formazione può essere definita “atipica”; dapprima ho vissuto in un piccolo villaggio nella regione di Tlemcen, dove non potevo studiare la lingua araba. Il francese era la lingua nazionale e l’utilizzo dell’arabo era vietato dalla legge; solo l’apprendimento della lingua francese era possibile e c’erano infatti scuole francesi, miste, volte a questo compito. Tuttavia ho avuto la fortuna di trascorrere i primi anni della mia vita accanto a mia nonna, una donna fiera delle proprie origini arabe, oltre che di quelle andaluse. Ha fatto in modo, a tutti i costi, che io imparassi la lingua araba. L’unica possibilità era frequentare la scuola coranica. Al suo interno ho imparato sì il corano, ho conosciuto sì la religione islamica, ma soprattutto ho imparato a scrivere e leggere (in lingua araba). Per mia nonna, a cui ero molto legato, questo traguardo era davvero importante e quindi ho deciso di seguire i corsi della madrasa. Ciò mi ha permesso di avere una formazione più ricca, dal momento che al mattino frequentavo la scuola coranica, dove apprendevo l’arabo, e al pomeriggio la scuola francese, come la maggioranza degli altri miei coetanei. Ho potuto così progredire parallelamente all’interno delle due culture, quella araba, la cultura a cui appartengo, e quella universale, grazie all’opera della scuola francese. Negli anni in cui sono stato costretto a portare avanti i due studi parallelamente non mi rendevo conto dell’importanza che avrebbe avuto una tale decisione per il mio futuro, importanza che ho compreso a pieno qualche decennio dopo. Posso confermarlo qui, ora, con la più assoluta certezza.

In questa sorta di primo viaggio iniziatico, in questa prima immersione in un contesto plurilinguistico e dunque pluriculturale, ho avuto subito un incontro folgorante con due opere letterarie che hanno segnato profondamente il mio cammino. Il primo testo era Le mille e una notte, scovato all’interno della scuola coranica, per sbaglio, tanto che all’inizio lo avevo scambiato per il Corano, anche se poi, proseguendone la lettura, ho capito che si trattava di tutt’altra cosa. E’ stato un incontro formidabile, che mi ha offerto la possibilità di scoprire un’altra lingua araba, in confronto a quella del Corano. Infatti, pur essendo utilizzato lo stesso strumento linguistico, le tematiche affrontate erano ben differenti e di conseguenza il modo di servirsi della lingua. L’altro testo con cui ho avuto l’onore ed il privilegio di imbattermi fin dalla tenera età è Don Chisciotte della Mancha. L’ho letto nella traduzione francese, per questo parlavo prima di accesso alla cultura universale. Un passaggio fondamentale, che mi ha lasciato una grande forza intellettuale. Cervantes era per me  una base e un punto di riferimento, in cui potevo ritrovare contemporaneamente la cultura araba e la cultura spagnola, quindi il mio background.

E’ molto semplice. Se ci rifacciamo alla storia scopriamo che Cervantes, all’inizio del XVI secolo, mentre faceva il suo viaggio di ritorno dall’Italia verso la Spagna, fu intercettato dai Corsari del Dey. Questi lo condussero forzatamente ad Algeri, dove lo scrittore rimase cinque anni della sua vita, come prigioniero. Gli fu concessa, tuttavia, una certa libertà di movimento, che gli permise di viaggiare e scoprire Algeri a poco a poco. Quando Cervantes tornò in Spagna scrisse un gran testo, il “Don Chisciotte”, dove ci sono tre o quattro capitoli interamente consacrati ad Algeri. E’ possibile vedere l’immagine della città nelle sue parole, ben inteso l’Algeri del XVI secolo. Tale scoperta mi ha dato la forza per aprirmi verso questa cultura, arrivando a poco a poco perfino ad apprendere lo spagnolo. Ma soprattutto mi ha gratificato. Avevo coronato il desiderio di mia nonna: imparare la lingua araba, oltre a quella francese, pur non perdendo l’attaccamento alle mie molteplici origini, tra cui l’araba e l’andalusa.

Il “Don Chisciotte”, ripeto, mi ha rinviato direttamente alle mie origini, oltre che al patrimonio letterario mondiale, universale, accessibile in quegli anni (per un algerino) solo attraverso la conoscenza della lingua e della cultura francese. Questa lingua mi ha permesso di cogliere quanto di buono c’era nella sua cultura ma, allo stesso tempo, anche tutto quello che di negativo veniva ereditato e trasmesso attraverso essa. Bisogna sempre riconoscere e saper cogliere, in questi casi, quello che di buono c’è in un patrimonio culturale altro dal nostro.


J. G. : Cosa significa per lei scrivere romanzi, produrre letteratura, in altre parole, come valuta il suo ruolo di scrittore, da quali esigenze muove il suo lavoro e quali obiettivi tenta di raggiungere attraverso di esso? Per esempio nel caso di una tra le sue ultime opere, Le livre de l’Emir?


W. L. : Prima di tutto si scrive perché si ha voglia di scrivere. Si scrive perché si prova piacere nel descrivere e nel raccontare, ma ciò che è formidabile resta il fatto che attraverso la scrittura possiamo inserirci in un immaginario. Può capitare che lo troviamo di fronte a noi, come se già lo conoscessimo, ma molte volte siamo noi stessi a costruirlo. Le faccio un esempio: l’immaginario storico. Io ho lavorato molto su questo aspetto. Per esempio ho scritto un romanzo dal titolo La milleseptième nuit, che riprende le vicende narrate in Le mille e una notte. Io ho fatto le Mille e una notte e una settimana, ho aggiunto sei giorni, e in questi sei giorni io ho rielaborato la storia dal mio punto di vista. Ho rielaborato l’intero immaginario arabo-musulmano alla mia maniera, una maniera molto poetica ma allo stesso tempo molto aggressiva. Le spiego.

Prendiamo per esempio il caso del personaggio centrale di Le mille e una notte, Sherazad. Un certo genere di orientalismo affermava che Sherazad fosse la rappresentazione dell’immaginario femminile che si è battuta per mille e una notte contro la figura di Shahiriyar, che identificherebbe secondo questa interpretazione la rappresentazione dell’immaginario maschile. Sto parlando di un certo tipo di orientalismo, un orientalismo da “bazar”, non un orientalismo veramente sostenuto a livello culturale, non un orientalismo intellettuale, inteso come un approccio culturale mirato alla condivisione e allo scambio. Dopo aver letto e riletto Le mille e una notte, questo la stupirà un po’, non ho ritrovato questo immaginario rivoluzionario in Sherazad, anzi io penso che Sherazad non sia altro che la rappresentazione femminile di un dittatore, maschio, che si chiama Shahiriyar. Ha riprodotto il suo immaginario e i suoi stessi discorsi, non si è mai opposta veramente a lui. Se lei pensa a Le mille e una notte, dall’inizio alla fine non si discosta mai veramente dal pensiero di Shahiriyar. Perciò ho aggirato il testo e ho dato spazio ad un altro personaggio, Duniazad, la sorella di Sherazad, e che in Le mille e una notte era rimasto su un piano secondario, dal momento che non aveva un vero ruolo narrativo all’interno del romanzo. Poneva semplicemente delle domande e per me colui che si pone delle domande è colui che si interroga, è colui che dubita e vuole capire. Colui che è disposto ad aprirsi verso altre cose rispetto a quelle conosciute fino a quel momento. Perciò mi sono detto: “perché non dare la parola a Duniazad?”.

Nella mia rivisitazione è Duniazad che parla e che rimette in discussione tutto quello che era stato detto nel romanzo. Analizza in modo critico quel periodo dell’era arabo-musulmana, il periodo del IX-X secolo d. C., punta il dito su tutte le tirannie che esistevano in quel tempo e tutte le ingiustizie che venivano commesse. Ho voluto dare spazio, attraverso la voce di Duniazad, alle grandi battaglie per la giustizia sociale, alla rivoluzione dei neri che erano fatti schiavi dagli arabi, insomma, ho cercato di inquadrare e di mettere in luce il panorama arabo-musulmano di quell’epoca attraverso i molteplici conflitti che aveva generato e non attraverso un’immagine idilliaca e del tutto fittizia.

Per me la scrittura è questo, è il piacere di intaccare una memoria, un immaginario, già sedimentato e ritenuto intangibile, e di fornire l’occasione di espanderla e contaminarla con un’altra memoria, un altro immaginario più giusto e, dal mio punto di vista, più bello.

E’ questo il caso del mio ultimo romanzo, che lei ha citato poc’anzi, Le livre de l’Emir o Kitab al-Amir. Avevo talmente paura di scrivere questo romanzo. Non era una paura politica, dal momento che sapevo che con questo libro non avrei comunque scalfito la rappresentazione ideologica dell’Emiro alimentata astutamente per decenni dalle autorità. Una rappresentazione che fa di Abdelkader il simbolo politico e religioso da cui ha preso il via la storia dello Stato algerino e dell’ideologia nazionalista. Il simbolo, poi, della lotta di liberazione. Non volevo vedere e sottolineare questo aspetto, perché non mi interessava l’immagine ideologica e politica prodotta dalle istituzioni, diciamo pure prefabbricata. Ho voluto così mostrare un altro aspetto dell’Emiro.

Abdelkader resta per me l’uomo che promosse il dialogo tra civiltà e culture, l’Emiro mosso da una consapevolezza interiore che gli permise, durante un periodo di guerra feroce, di avere la forza di pensare ad altre soluzioni più umane e più avanzate rispetto alla guerra stessa. L’uomo che non ebbe paura di contrastare le soluzioni proposte sia dai vertici francesi sia dai capi religiosi dell’epoca: infatti, pur essendo un fervente musulmano si scontrò più volte con la volontà degli ulama, e con quella dei capi tribù, ma anche con i rappresentanti del culto cristiano, e poi con i vertici della chiesa algerina, che si dimostrò, soprattutto all’inizio, una Chiesa tipicamente coloniale. Del resto furono gli stessi coloni ad imporla nel territorio con la forza, nonostante esistesse già una tradizione cristiana ben prima dell’arrivo dei Francesi, che tuttavia aveva quasi cessato di esistere.

Ho dato poi la parola ad un altro personaggio molto importante, monsignor Dupuch. Fu il primo Vescovo di Algeri che si installò in città a seguito della colonizzazione, mi sembra di ricordare nel 1836 o forse nel 1837. Dupuch riuscì a tessere una solida relazione con l’Emiro Abdelkader e fu lui stesso a difendere l’Emiro Abdelkader di fronte a Napolaone III, dicendogli “voi non conoscete affatto quest’uomo e non sapete cosa rappresenta: al di là della guerra e delle battaglie combattute contro di noi, l’Emiro è un intellettuale, un pensatore acuto e un uomo di pace”. Monsignor Dupuch scrisse anche un libro molto bello, dal titolo Abdelkader au Chateau d’Amboise, in cui descrisse la figura dell’Emiro. Quando Dupuch lesse alcuni passi del libro direttamente all’Emiro, gli si rivolse in questi termini: “ecco cosa ho scritto su di lei, e questa invece è una lettera che invierò a Napoleone III per convincerlo a riconsiderare la vostra posizione attuale”. Il titolo del libro fece bonariamente sorridere l’Emiro il quale, rivolgendosi al Vescovo, a sua volta affermò: “mhm, Abdelkader au Chateau d’Amboise, magari si trattasse veramente di un castello…”, infatti si trattava di una prigione, di una vera e propria fortezza.

Per me sono questi gli aspetti importanti, è qui che vedo la forza della scrittura, nel dire tutto quello che non si ha avuto ancora il coraggio di dire sul piano dell’analisi storica. Certo, so che può dare fastidio a qualcuno.

Quando ho cominciato a scriverlo avevo paura. Non delle istituzioni bensì dei lettori stessi. Per prima cosa il romanzo storico è già in sé una lettura difficile ed impegnativa, dunque, se consideravo il pubblico, ero sicuro di perdere buona parte dei miei lettori già in partenza. Il secondo problema era confrontarsi con quella categoria di lettori che già aveva in testa un immaginario precostruito dell’Emiro, un immaginario quasi sacralizzato che li portava ad affermare: “ecco una persona straordinaria, che può aver fatto degli errori, ma li ha commessi sicuramente in buona fede” (intendendo per errori i tentativi di dialogo con i coloni francesi e la chiesa cattolica). Ero consapevole di tutte queste difficoltà, ma alla fine il risultato si è rivelato totalmente differente rispetto a quelle che erano le aspettative. Mi immaginavo un cammino difficile e invece è stato il libro più letto tra i miei pubblicati, quello che ha ottenuto il più grande numero di premi. E’ sorprendente anche per me. Non pensavo potesse suscitare tutto questo interesse nel pubblico, per me era importante soprattutto scriverlo, bisognava distruggere un mito e ricostruirlo su altre basi, che non erano assolutamente quelle religiose e quelle etniche.


J. G. : Questo frangente della vita dell’Emiro Abdelkader è quasi completamente sconosciuto al contesto culturale e storico occidentale; per recuperarne tutti i passaggi immagino che abbia fatto un lavoro di ricerca vasto e faticoso, un lavoro quasi da storico.


W. L. : Esatto. Ho dovuto vestire sia panni dello scrittore che quelli dello storico, seppur in maniera provvisoria, dal momento che per scrivere un romanzo storico bisogna almeno conoscere bene i fatti. Sinceramente la grande difficoltà nel portare avanti questa opera è stata data dal fatto che non riuscivo ad ottenere un numero di informazioni sufficienti basandomi solamente sul lavoro già svolto dagli storici. E’ strano ma ogni volta che si arriva, sia nel caso degli storici francesi sia in quello degli storici algerini (ho recuperato qualche documento perfino negli Stati Uniti), a trattare questa relazione di amicizia tra l’Emiro e Monsignor Dupuch, il Vescovo di Algeri, non si trova scritto più di una sola riga, dove viene narrato brevemente l’incontro tra i due personaggi per risolvere semplici questioni di prigionieri. Si tratta comunque di piccoli accenni, privi fra l’altro di riscontro. Ho dovuto io stesso iniziare una nuova ricerca storica, grazie alla quale ho trovato documenti sulla vita di Monsignor Dupuch, ancora pressoché sconosciuta, mentre nel caso dell’Emiro la documentazione a mia disposizione era già fin troppo vasta.

Per tratteggiare il mio Dupuch, infatti, dovevo per prima cosa conoscere la sua vita. Non è mai stata scritta una vera biografia su di lui, ma esiste un documento quasi biografico, scritto per mano di un amico dello stesso Vescovo, nel quale vengono forniti innumerevoli dettagli sulla sua vita, anche per ciò che riguarda l’incontro con l’Emiro, descritto in modo particolareggiato. Nel libro sono riportate le lettere inviate dall’Emiro a Monsignor Dupuch e viceversa.

La ricerca dei dati, delle informazioni e la rielaborazione del contesto su cui avrei poi inserito la storia ha richiesto quattro anni di lavoro, quattro anni di ricerche, di letture e di stesura per terminare quella che è in realtà solamente la prima parte dell’opera. In Kitab al-Amir ho parlato dei diciassette anni di combattimento in territorio algerino, dall’inizio della colonizzazione fino all’arresto dell’Emiro, del suo rilascio e poi del suo trasferimento a Smirne, nell’attuale Turchia. La seconda parte dovrebbe iniziare con il soggiorno dell’Emiro in Turchia, poi con il suo primo spostamento a Damasco e poi ancora con il trasferimento in Libano, anzi prima in Libano e dopo a Damasco, fino alla sua morte. Ma questo è un cantiere aperto a cui sto lavorando già da due o tre anni, bisognerà continuare le ricerche e il lavoro di documentazione, e solo in seguito potrò iniziare la stesura del romanzo.

(continua...) 

1 commento:

Unknown ha detto...

...la scrittura è questo, è il piacere di intaccare una memoria, un immaginario, già sedimentato e ritenuto intangibile, e di fornire l’occasione di espanderla e contaminarla con un’altra memoria...

bellissimo...