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lunedì 7 dicembre 2009

Il discorso e il metodo

(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 420, 5-11 dicembre 2009)

Lotta anti-terrorismo. Sparizioni, torture, violazioni della procedura penale: la gestione marocchina della lotta contro il terrorismo è ancora sotto accusa da parte delle associazioni locali e internazionali dei diritti dell’uomo.



Mercoledì 2 dicembre l’OMDH (Organizzazione Marocchina per i Diritti dell’Uomo) ha organizzato una conferenza stampa a Rabat dove ha presentato un rapporto in merito alla sentenza dei sei detenuti coinvolti nell’affaire Belliraj. L’associazione ha enumerato le molteplici “irregolarità” rilevate al momento del processo: sentenze basate esclusivamente sui verbali raccolti dalla polizia, rifiuto di ascoltare in aula i testimoni chiamati dalla difesa, domande di accertamento dei casi di tortura senza esito. L’OMDH ha sottolineato le “condizioni dubbiose” in cui si è svolta tutta l’inchiesta.
Il Marocco, spinto dall’Europa e dagli Stati Uniti, prosegue instancabilmente nella sua lotta contro il “pericolo terrorista”. Dopo i numerosi arresti eseguiti l’indomani degli attentati di Casablanca del 2003, le autorità non hanno rinunciato ad una serrata caccia ai complici, nel timore che possano verificarsi nuovi sanguinosi eventi all’interno del regno. Sono passati ormai sei anni. Dal 2007 il Marocco non ha più subito attentati. Negli ultimi mesi, tuttavia, il ministro dell’Interno ha annunciato lo smantellamento di più reti coinvolte nel reclutamento di volontari per il jihad all’estero, in Iraq o in Afghanistan. I metodi utilizzati dallo Stato marocchino nelle azioni “anti-terrorismo” non sembrano essere cambiati.

24 “scomparsi” in settembre
Alla fine di settembre il dipartimento di Chakib Bemoussa ha annunciato l’arresto di 24 persone sospettate di appartenere ad una rete di reclutamento per operazioni suicide all’estero. Qualche settimana prima, nove famiglie si erano presentate nelle sezioni locali dell’AMDH (Associazione Marocchina per i Diritti dell’Uomo) di Taza, Guercif e Salé per denunciarne la scomparsa. “E questi sono solo i casi di cui siamo stati informati. Molte famiglie, per paura, si rifiutano di parlare con noi”, ha spiegato Abdelilah Benabdeslam, vice-presidente dell’AMDH.
Una delle famiglie ha accettato di raccontare quanto accaduto al proprio figlio, Mehdi, attualmente detenuto nel carcere di Salé, in attesa di un eventuale processo. Studente all’istituto alberghiero di Rabat, questo ragazzo di 19 anni è scomparso il 5 settembre scorso, mentre si stava recando alla moschea del quartiere, a Salé Tabriquet. “Siamo andati al commissariato, abbiamo fatto il giro degli ospedali, perfino degli obitori, ma di lui nessuna traccia. E’ stato terribile, non sapevamo dove fosse e se stesse bene o meno”, hanno spiegato i genitori. Dopo un mese hanno ricevuto una telefonata. “Era Mehdi, ci ha detto che si trovava alla prigione di Salé e che avevamo il permesso di fargli visita. Le autorità non ci hanno mai avvertito del suo arresto. La polizia non è neanche venuta a casa per frugare tra le sue cose”. Mehdi ha passato circa un mese, tra settembre e ottobre, “negli uffici della DST (i servizi segreti marocchini, ndt) di Temara, dove è stato sottoposto a torture morali e fisiche”. I genitori hanno tenuto a precisare di non essere contrari all’applicazione della giustizia, “ma se le autorità hanno qualcosa da recriminare a nostro figlio esistono pur sempre delle leggi e delle procedure che devono essere rispettate”.

Temara, un passaggio obbligato?
Sei abitanti di Taza ed uno di Guercif sono “scomparsi” più o meno nello stesso periodo, prima di ritrovarsi assieme, anche loro, nella prigione di Salé. “La maggior parte delle persone fermate passa ancora da Temara”, afferma Abderrahim Mouhtad, presidente dell’associazione Annassir, che si occupa del sostegno ai prigionieri islamisti. Il Marocco, dal canto suo, continua a negare l’esistenza di un centro di detenzione segreta nei locali della DST. “Questi arresti sono illegali, gli agenti della DST non svolgono alcun ruolo, stando alla legge, nell’iter giudiziario. Non tocca a loro arrestare i sospetti ed interrogarli”, precisa Abdelilah Benabdeslam. “Bisogna finirla con l’impunità. Ogni volta che chiediamo l’apertura di un’inchiesta per far luce sui responsabili degli arresti e delle torture ci oppongono un rifiuto”. Questo genere di “rapimenti” non è una novità, è una pratica che va avanti dal 1956, dal momento dell’indipendenza, spiega l’attivista per i diritti umani. Prima le sparizioni forzate potevano durare un tempo indefinito. Molti casi d’altronde non sono ancora stati risolti, a quattro anni di distanza dalla conclusione dei lavori dell’IER (Istanza di Equità e Riconciliazione) e dalla pubblicazione del suo rapporto. “Ora le sparizioni non vanno oltre qualche mese, è questo l’unico cambiamento”.
Il Codice di procedura penale obbliga la polizia ad informare le famiglie in caso di arresto di un sospettato. Ma le detenzioni arbitrarie dei presunti terroristi non sono riconosciute dallo Stato marocchino, così gli arresti, nel momento in cui vengono ufficializzati, portano la data del giorno in cui i sospettati sono “riapparsi”, o in prigione o in qualche ufficio della polizia giudiziaria. Il caso di Abdelkrim Hakkou è particolarmente emblematico. Insegnante di 31 anni, originario di Ain Taoujdate, un piccolo borgo situato tra Fes e Meknes, è scomparso il 16 maggio 2008. Anche in questo caso i parenti hanno segnalato l’accaduto alle autorità locali e alla scuola dove insegnava. Hanno inviato lettere al procuratore generale di Rabat e al Ministero della Giustizia, senza risultati. Abdelkrim Hakkou “è riapparso” il 2 luglio, dopo due mesi e mezzo, nei locali della polizia giudiziaria di Casablanca. Ufficialmente, l’arresto è stato registrato in questa data. “Abbiamo chiesto alle autorità di spiegarci i motivi dell’arresto, se è possibili utilizzare questo termine, e le condizioni esatte nelle quali è avvenuto, ma non ci hanno mai risposto”, denuncia il fratello di Abdelkrim. Secondo la sua testimonianza, il sequestro è avvenuto nel pomeriggio del 16 maggio 2008, mentre l’insegnante stava andando a scuola in bicicletta. “Una macchina bianca l’ha raggiunto e si è fermata al suo fianco. Quattro uomini in tenuta civile l’hanno fatto salire all’interno dell’auto, spiegandogli di voler parlare con lui solo qualche momento. All’altezza del pedaggio di Salé è stato bendato fino all’arrivo nel luogo di detenzione. Non ha potuto chiudere occhio per dieci giorni consecutivi. Gli inquisitori si davano il cambio giorno e notte per interrogarlo, impedendogli di dormire. Piovevano colpi, botte. E’ stato torturato. Poi, quindici giorni prima del trasferimento, hanno cessato il trattamento perché potesse recuperare almeno un po’”.
Durante la sua detenzione “ufficiale” nei locali di Maarif, non ha dovuto fare altro che firmare il verbale stabilito durante i precedenti interrogatori. In prigione da un anno e mezzo, Abdelkrim attende ancora l’esito del suo processo. E’ ufficialmente accusato, assieme ad altri 35 detenuti, di aver organizzato il reclutamento di jihadisti e di aver fornito aiuto ad un gruppo terrorista. “Il suo dossier è vuoto. Oltre al verbale che è stato costretto a firmare non c’è niente”, si lamenta il fratello. “La serie di domande e risposte contenuta nel verbale è la stessa identica per tutti gli accusati, cambiano soltanto i nomi e gli indirizzi”. La prossima udienza del processo è prevista per il 10 dicembre, data in cui viene celebrata la Giornata mondiale dei diritti dell’uomo.
Denunciata fin dal 2003 dalle associazioni nazionali ed internazionali per la difesa dei diritti umani, l’illegalità delle procedure di arresto e di detenzione rimane una prassi consolidata. La Convenzione internazionale contro le sparizioni forzate è stata firmata con grandi celebrazioni dallo Stato marocchino nel 2007. “Ma a quell’episodio non ha fatto seguito nessuna ratifica e le sue disposizioni non sono ancora applicate”, spiega Abdelilah Benabdeslam. L’OMDH, da parte sua, continua a reclamare la ratifica del protocollo addizionale relativo alla Convenzione internazionale contro la tortura. Il prossimo 18 dicembre l’associazione annuncerà pubblicamente la costituzione di un gruppo di lavoro incaricato di redigere “un documento di riferimento” sulle strategie nazionali per la lotta contro la tortura.


TEMARA. “UNA PRIGIONE AMERICANA”?
Come interpretare i problemi di applicazione del diritto nella gestione marocchina della lotta anti-terrorista? Oltre al radicamento profondo di certi “metodi” all’interno dell’apparato repressivo marocchino, le associazioni puntano il dito sulla sollecitudine mostrata da Rabat nel soddisfare le esigenze degli Stati Uniti e dell’Europa. Gli islamisti vanno ancora più lontano. A loro avviso, le violazioni commesse dalle autorità marocchine rispondono ad un obiettivo chiaro: fare a Temara quello che le legislazioni occidentali non permettono in Europa o sul suolo americano. “E’ un atteggiamento ipocrita. Il Marocco esegue ordini in sub-appalto per conto degli Stati Uniti – afferma Fatiha Hassani, vedova di Karim El Mejjati – io stessa sono stata sequestrata in maniera illegale e trasportata in un volo della CIA. Mio figlio ed io abbiamo passato nove mesi nel centro segreto di detenzione a Temara”. Il caso di Mohamed Binyan “ci dà un’idea di quello che succede nelle prigioni americane – continua la signora Hassani – in qualunque parte del mondo si trovino”. Il cittadino britannico, rilasciato da Guantanamo all’inizio del 2009, afferma di essere transitato nel carcere di Temara, dove sarebbe stato torturato da agenti marocchini sotto la supervisione di agenti dei servizi segreti stranieri, tra cui l’M15 britannico. Sulla vicenda è in corso un’inchiesta della magistratura inglese ed alcune informazioni sono già accessibili. Il seguito dell’inchiesta potrebbe condurre gli investigatori britannici a visitare il centro della DST a Temara. Una visita che è stata sistematicamente rifiutata alle ONG, malgrado le loro ripetute richieste.

Christophe Guguen

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