Arrêt sur image

giovedì 24 dicembre 2009

Sbattere due volte contro lo stesso ostacolo

(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 422, 19-25 dicembre 2009)

Il “caso Aminatou Haidar” rappresenta un passo in dietro nel progetto marocchino di promuovere l’autonomia nel Sahara.

Nel 1991 il simbolo dei prigionieri politici di tutta l’Africa, dopo la liberazione di Nelson Mandela, era Abraham Serfaty. Incluso nel Guinness dei “regimi repressori”, Hassan II era presentato al grande pubblico come un tiranno perverso. Era questa l’immagine che ne offriva il libro-denuncia di Gilles Perrault, Notre ami le Roi, un’opera scritta grazie alle ricerche condotte dalla moglie di Serfaty, Christine Daure. Il libro descrive, tra i tanti orrori, il calvario subito dai gruppi di sinistra finiti in carcere negli anni settanta per aver contestato la marocchinità del Sahara Occidentale e per aver difeso il diritto del suo popolo all’autodeterminazione. Questo gruppo, di cui Serfaty rimaneva l’ultimo testimone ancora in carcere, una volta fuori di prigione ha cambiato progressivamente guida e si è integrato nella vita politica ordinaria. La maggior parte dei suoi militanti aveva purgato le proprie colpe e, in alcuni casi, aveva rivolto una domanda di grazia reale, il ché implicava la ritrattazione della passata attività e il riconoscimento degli errori commessi. La detenzione a cui era ancora costretto Abraham Serfaty infastidiva sempre più Hassan II, che si sforzava di contrastare l’idea diffusa da Perrault. Il monarca, infatti, si era subito attivato per favorire la creazione di un Consiglio consultivo dei diritti dell’uomo, con l’obiettivo di migliorare l’immagine del regime. Ma i suoi sforzi risultavano vani fintanto che Serfaty rimaneva il più vecchio prigioniero politico del continente.



Il passo falso del regime
Hassan II, tuttavia, aveva assunto al suo servizio un ottimo prestigiatore in materia di falsificazione della realtà: Driss Basri, che aveva accumulato una grande esperienza durante gli anni in cui era ministro dell’Interno e dell’Informazione. Trovare una soluzione per far uscire di prigione un Serfaty recalcitrante e indomito, condannato all’ergastolo, non era facile. Era impossibile convincerlo a firmare un documento dove rinunciasse pubblicamente alle sue idee. Bisognava inventarsi una formula immaginaria, che permettesse di liberarlo senza che ciò costringesse Hassan II ad abbandonare i suoi principi. Basri alla fine l’ha trovata, frugando nel mare dell’assurdo. In maniera arbitraria ha attribuito a Serfaty la nazionalità brasiliana, quella con cui suo padre era entrato in Marocco. Quindi, in quanto cittadino straniero, l’oppositore è stato esiliato in Francia. Ma una tale assurdità doveva presto trovare una conclusione. Alcune settimane dopo la morte di Hassan II, Serfaty è rientrato in Marocco. Mohammed VI gli ha concesso la grazia e l’ha nominato consigliere in uno dei suoi ministeri.

Cambiamento di strategia
Nel passo falso compiuto da Mohammed VI con Aminatou Haidar, sembra che il Marocco non si sia reso conto delle contraddizioni in cui è incappato. Questa misura presuppone non solamente una violazione della legge marocchina sulla nazionalità, di cui un cittadino non può essere privato, ma costituisce anche un passo indietro nel quadro del progetto marocchino di voler concedere una autonomia più larga al Sahara Occidentale. Il problema dell’autodeterminazione di questo popolo non potrà mai essere risolto fintanto che il Marocco continuerà a negare l’esistenza dell’identità saharaoui. Al contrario, dovrebbe prima di tutto riconoscere l’esistenza di tale identità, e il suo diritto ad esistere. La pretesa che questa possa essere compatibile con la nazionalità marocchina dipende dalla definizione che si intende dare al concetto stesso di nazionalità. Se lo si vuole concepire come un qualcosa di rigido o come la somma delle differenti identità che si sono sviluppate nel corso della storia del paese. Un discorso differente, invece, è sapere se i Saharaoui accetterebbero la suddetta compatibilità. E per far sì che l’accettino, il Marocco deve rendersi conto che c’è una sola soluzione possibile: trasformarsi in una democrazia credibile. Il caso di Aminatou Haidar dimostra che il Marocco non ha ancora imparato la lezione.
Il discorso pronunciato dal re Mohammed VI al momento della commemorazione della Marcia verde, il 6 novembre scorso, presentando il falso dilemma “patriottismo o tradimento”, cerca di impedire ogni dissidenza che rischi di minacciare il “fronte interno”, tanto mitizzato, schierato in modo unanime a sostegno dell’appartenenza del Sahara al Marocco. Un fronte che, durante l’ultimo decennio, si è visto incrinato a causa delle visite effettuate dai giornalisti marocchini nei campi di Tindouf e da qualche timida voce, che ha cercato di opporsi ai discorsi ufficiali lasciando intendere che i Saharaoui avrebbero bisogno, prima di tutto, del riconoscimento della loro dignità come popolo e della loro specificità: nella lingua, nella cultura, nell’identità e nella storia.
Il caso di Aminatou Haidar sembra essere una conseguenza della nuova politica che Rabat, a quanto, vuole pare imporre ad ogni costo. Ma, invece, che rafforzare la pretesa unanimità nazionale suscitata dalla questione del Sahara, questa vicenda divide ancor più il “fronte interno”. Un recente editoriale del settimanale marocchino Le Journal Hebdomadaire ha descritto l’atteggiamento delle autorità come un atto “illegale, immorale e stupido”.
Quali sono i fattori che hanno spinto il re ad operare questo cambiamento di strategia, questo ritorno al passato? La visita ai campi di Tindouf dei sette attivisti saharaoui che al loro ritorno sono stati arrestati con l’accusa di collaborazione militare con il nemico? Al momento di un viaggio a Laayoune, nel giugno scorso, prima del fallimento dei candidati “ufficiali” alle elezioni municipali, ho sentito dire dalle autorità in loco che la politica di “apertura” condotta negli ultimi anni non aveva dato risultati, se non l’avvio di una nuova Intifada nel 2005, e che era giunto il momento di far rispettare il principio di autorità. In realtà, la politica marocchina nel Sahara è fallita per l’emergere di un contro-potere nel territorio, frutto della radicalizzazione dell’azione tribale e della sua manipolazione ad opera di alcune figure, che hanno acquisito una forza e un potere maggiore di quello che Rabat voleva. Forse le autorità hanno intenzione di rettificare qualcosa? La ristrutturazione annunciata dal re relativa al CORCAS (Consiglio consultivo per il Sahara) potrebbe essere il primo risultato, con l’obiettivo di porre un freno al potere accumulato da alcune famiglie saharaoui. Altri provvedimenti, come la nomina di un Saharaoui a capo della seconda camera del Parlamento, peraltro segretario generale del PAM (una creazione politica del regime), si iscrivono in questa direzione, anche se nei fatti poco contribuiranno a cambiare l’immagine del Marocco all’estero: un’autocrazia che non riesce a nascondere il suo vero volto. Non possiamo nemmeno ignorare le conseguenze che il caso Aminatou Haidar ha generato all’interno della politica spagnola. Al di là del tipo di soluzione a cui si potrebbe giungere in queste ore, si è venuto a creare un problema di fondo per la diplomazia spagnola, che tra qualche settimana si troverà a rivestire la presidenza dell’UE: offrire al Marocco uno status di partner privilegiato può ancora essere considerata una mossa saggia, dal momento che il suo sistema politico non si preoccupa di uniformarsi ai canoni base dell’Europa, quali la libertà di stampa o il rispetto dei diritti dell’uomo?

Bernabé Lopez Garcia
(Professore di Storia contemporanea dell’Islam
all’Università Autonoma di Madrid e
membro del Comitato Averroé)

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