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domenica 27 dicembre 2009

Il silenzio che uccide

CASABLANCA - L’ingiustizia provoca sofferenza. Ma la sofferenza diventa ancora più grande, e perfino insopportabile, se l’ingiustizia è accompagnata dal silenzio e dall’indifferenza. A questo proposito, vorrei rivolgere una domanda ai miei concittadini e vorrei chiedere loro scusa in anticipo se, nel farlo, disturberò quel clima di “letizia” che, come d’incanto, sembra calare dal cielo durante questo “gioioso” periodo di feste. Quanti di voi hanno mai sentito parlare di Abu Elkassim Britel? Quanti di voi conoscono la storia di questo quarantenne di origine marocchina, divenuto cittadino italiano e poi abbandonato, o peggio scaricato, dallo Stato che lo aveva accolto? Pochi, immagino, e del resto anche io la ignoravo prima del mio arrivo in Marocco, circa tre mesi fa.



Quella di Kassim Britel è una storia fatta di arresti illegali, di torture e di processi iniqui. E’ una storia fatta di “consegne speciali” operate dalla CIA con il beneplacito, forse, dei nostri stessi servizi segreti. Ma è una storia fatta anche di silenzio, il silenzio con cui le autorità italiane hanno lasciato che tutto questo accadesse, il silenzio che continuano a mostrare di fronte ad un uomo, ripeto un cittadino italiano, che da otto anni subisce trattamenti degradanti e vede violati i suoi diritti di essere umano. Un silenzio che in questi giorni rischia di uccidere Kassim ben più dello sciopero della fame che sta portando avanti da oltre un mese nella prigione di Oukacha, tra l’indifferenza dell’opinione pubblica.
Cercherò qui di ripercorrere, per sommi capi, la sua vicenda. Kassim Britel, arrivato in Italia nel 1989, dopo dieci anni ha acquisito la cittadinanza italiana. Viene sequestrato illegalmente nel marzo del 2002 in Pakistan, poiché sospettato di appartenere ad una rete terroristica. Dopo due mesi di “interrogatori” viene consegnato alla CIA. A nulla è valsa la richiesta di aiuto e protezione presentata all’Ambasciatore italiano in loco. Con un aereo americano è trasportato in Marocco, suo paese di origine, dove non rientrava da oltre cinque anni. Uno dei tanti casi accertati per cui la Jeppersen Dataplan (una consociata della Boeing) è finita sotto accusa nei tribunali americani, nel quadro dell’inchiesta sulle extraordinary rendidtions effettuate dalla CIA. Kassim viene trattenuto e torturato per otto mesi nella prigione segreta di Temara, dove la DST (servizi segreti marocchini) opera impunemente dall’avvio della “guerra al terrorismo”. Rilasciato nel febbraio del 2003 senza nessuna accusa, è arrestato di nuovo il 16 maggio dello stesso anno, mentre cercava di rientrare in Italia. Immediatamente ricondotto a Temara, ha passato lì altri quattro mesi di interrogatori e torture, durante le quali è costretto a firmare una confessione, per porre fine ai maltrattamenti. Questo il solo elemento in mano al giudice al momento del processo, una confessione estorta sotto tortura. Nessuna prova, nessun elemento giuridico rilevante a suo carico. Risultato: una condanna a 15 anni di carcere, ridotta a 9 anni in appello.
Quello che è successo in Marocco, dopo gli attentati di Casablanca (16 maggio 2003), resta una delle pagine più nere che il paese ha conosciuto dalla fine degli “anni di piombo” e dalla morte di Hassan II. Le autorità hanno iniziato una vera e propria “caccia all’islamista”, che ha portato a decine di sparizioni e a centinaia di arresti arbitrari, trasformati rapidamente in condanne decennali, attraverso dei processi che ben poco hanno a che fare con il rispetto della legalità e con l’indipendenza del potere giudiziario, di fatto inesistente. Un ampio dossier delle violazioni commesse dalla polizia e dai servizi del Regno è stato raccolto dall’Associazione marocchina per i diritti dell’uomo e dall’associazione Ennassir (in arabo “l’aiuto”). Tra i casi più gravi figura quello del cittadino italiano Kassim Britel.
Anche in Italia, sul caso Britel, era partita una indagine della magistratura, archiviata nel settembre 2006 per la totale mancanza di elementi che collegassero Kassim ad una qualsiasi attività terroristica o comunque criminale. Della vicenda si sono occupate alcune delle ONG più conosciute, come Amnesty International, Human Rights Watch e la Federazione Internazionale per i Diritti dell’Uomo, che hanno denunciato gli abusi subiti da Kassim e il comportamento in merito del nostro governo, oltre a quello del governo marocchino, americano e pakistano. Ma le autorità del nostro paese non hanno fatto nulla di concreto per ottenere la sua liberazione, per riportarlo a casa. Neanche dopo il pronunciamento della giustizia italiana. I grandi media hanno continuato ad ignorare la sua esistenza, le sue proteste e le sue richieste di aiuto.
Poche settimane fa a Casablanca ho conosciuto Khadija (Anna, prima dell’ingresso nella Umma islamica), la moglie di Kassim. A questa donna, che con grande forza e ostinazione non ha mai rinunciato a lottare e a chiedere che al marito sia resa giustizia, facendo fronte tanto alle assurde pretese dei carcerieri marocchini quanto al disinteresse complice della classe politica italiana, va la mia stima più sincera. Il mio pensiero invece va a Kassim, chiuso nella sua minuscola cella della prigione di Oukacha, lontano solo pochi chilometri dalla camera in cui sto scrivendo questa lettera. Da trentaquattro giorni ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il peggioramento delle sue condizioni di detenzione, di per sé proibitive, inflittogli a fine novembre. Il suo stato di salute, già allo stremo dopo la violenza delle torture e otto anni di carcere, si è aggravato pesantemente nelle ultime ore. Quel che resta della sua vita è più che mai in pericolo, mentre l’opinione pubblica, ancora una volta, rimane all’oscuro della vicenda. Ma a provocare la sua morte non sarebbe il rifiuto dell’alimentazione o gli “acciacchi” ormai indelebili dovuti alla prigionia, bensì il silenzio con cui l’Italia risponde ai suoi appelli, alle sue dimostrazioni, ai suoi scioperi, la sola arma rimasta a sua disposizione. Un silenzio divenuto nel tempo sempre più assordante.
La triste sorte toccata ad un concittadino di origine straniera, per di più di fede musulmana, forse non fa notizia, e di certo non rientra negli interessi dell’attuale classe politica, ma merita almeno il rispetto e l’attenzione, quando non l’aperto sostegno, che ogni uomo dovrebbe mostrare nei confronti di un essere umano privato ingiustamente dei propri diritti.

Jacopo Granci

1 commento:

sam ha detto...

ciao jacopo, con rammarico confesso di non conoscere questa oscura e riprovevole vicenda, ma il mio pensiero (che speravo non condiviso) ha preceduto la conclusione del tuo articolo.
questa sera ho letto articoli e reportage bellissimi e indignanti al tempo stesso.
ora ho capito che ci fai laggiù.
un saluto
samantha
p.s
non è che per forza ci voglia un motivo, comunque.