L'Egitto
soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l'esercito
costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti.
Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.
(Immagine Francesco La Pia) |
"C'è
un'unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e
indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari
accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor
più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera
efficace".
Sono
le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo
democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008).
Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile
e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e
militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva
provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle
istituzioni elette.
Se una simile affermazione fosse
ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità
sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta:
reprimere l'idea e i suoi sostenitori.
Aspetto
curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa
situazione delle compagini comuniste dell'America Latina o dell'Europa
meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa
la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le
classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro
esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni
militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro
supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti
indichino l'esatto contrario.
La crisi tra civili e militari nel
mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione
moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949,
seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato
l'avvio di una "tendenza regionale", la cui comune finalità è stata
la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre,
di natura politica o legale.
L'Egitto
ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954,
che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi,
fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto
contaminato il resto dell'area, favorendo l'instaurazione delle
"repubbliche dei generali": Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962,
Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.
Le "rivoluzioni arabe"
hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri
paesi. Lo slogan "pane, libertà, dignità e giustizia" è così entrato
- direttamente e indirettamente - in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle
istituzioni armate. Dall'altra parte, l'idea di un "controllo delle forze
armate ad opera di civili eletti democraticamente" era non soltanto
estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura
- secondo la loro interpretazione - da una "mancanza di spirito
patriottico" e costituiva un "tradimento" del paese.
Per
fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti
egiziani - che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti - creato
con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali
ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non
ricorrere né alle armi né all'esercito per fomentare scontri interni (in caso
di disfatta alle consultazioni).
Quando
questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate
(SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa -
mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere
nelle mani dei civili - il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere,
mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza.
L'episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani
ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in
verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.
Repubbliche popolari o di generali?
Come
negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto
risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio
1952. Tra questa data e il novembre 1954, l'Egitto era un paese diviso,
pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia
parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle
caserme. Un'altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte
e la promessa di terre, pane e stabilità.
Nel
novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle
sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo
parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso,
capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all'interno della giunta
militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto
alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le
terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da
pagare è stato però l'instaurazione di una "repubblica di generali":
un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le
altre, comprese quelle elette.
La rivoluzione del gennaio 2011 ha
sfidato a più riprese questo statu quo
ereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono
confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo
incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l'Egitto tra il
febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza,
il controllo democratico dell'esercito, la sua supervisione da parte di
istituzioni civili, l'obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la
trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed
estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare
o disinnescare.
Le petizioni e i timori dei
generali
Dopo
aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre
punti: diritto di veto sulle questioni di "alta politica",
l'intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo,
e l'immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione.
Prerogative che, stando alla richiesta dell'esercito, dovevano essere sancite
per via costituzionale.
Tali
pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale
del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un
controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto
il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una
sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge
elettorale "incostituzionale"). Il provvedimento, che trasferiva il
potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima
della data prevista per l'insediamento del primo presidente civile eletto
democraticamente in Egitto.
Altra questione è l'impero
economico dei militari. L'esercito beneficia di diritti doganali e tassi di
cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del
diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso
costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un
notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero
finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia
egiziana.
Per
cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti
dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi
ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall'esercito.
Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr - membro dello SCAF incaricato
delle questioni finanziarie - ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco
perentorio: "[l'impero economico militare] è frutto del nostro sudore e
lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di
indebolire lo status delle forze armate".
Nonostante il suo potere, il
Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la
pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento.
Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle
decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti
di pressione da parte dei manifestanti: l'allontanamento di Mubarak, l'inizio
del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel
giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).
La
coesione interna dell'esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di
influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa
coesione ed evitare contrasti o defezioni - come sembrava potesse accadere
durante le proteste di Tahrir - la soluzione è stata la fabbricazione di
"demoni" esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la
"guerra sporca" combattuta in Algeria durante gli anni '90. I
manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e
ufficiali. Così nell'ottobre 2011, ad esempio, l'esercito ha adottato misure
severe contro un raduno di protesta che condannava l'incendio di una chiesa.
Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e
circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un
soldato in barella che gridava: "i cristiani, maledetti, volevano
ucciderci!".
La
diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e
l'escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011
rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del
luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi
"demoni".
Tentativi presidenziali
Dopo
l'elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli
progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel
paese. Nell'agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l'annesso
costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente
ha poi dimesso i generali che l'avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il
suo secondo, il generale Sami Anane.
Queste misure però avevano un
prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo
approvato a fine 2012 dal 63% dell'elettorato egiziano, le relazioni tra civili
e militari erano lontane dall'essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva
obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa
nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari
(art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le
questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica
estera.
"Se
aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei", ammoniva il
generale Mamduh Shahin, rappresentante dell'esercito all'Assemblea costituente,
rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato
dalla polizia. Quest'ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel
Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.
Colpo di Stato 2013: ritorno al
1954 o qualcosa di peggio?
Le
esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle
istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico.
Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989,
Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a
condurre l'Egitto verso scenari funesti. L'esito non è certo, ma è chiaro che
la dinamica democratica è destinata a subire l'ennesimo contraccolpo. I
provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser
(1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente
dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi,
l'intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa - lo scorso agosto - ha
fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.
Il
colpo di Stato presuppone l'ennesima affermazione della supremazia relazionale dei
militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono
ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia,
Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera
politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione
né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.
La
lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere
veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e
l'impunità, senza un controllo efficace sull'esercito e sulle forze di
sicurezza da parte di organi civili. E' questo l'unico indicatore in grado di
prospettare un reale cambiamento in Egitto.
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