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venerdì 7 febbraio 2014

Egitto: esercito vs eletti

L'Egitto soffre di una eterna crisi relazionale tra civili e militari. Nel paese, l'esercito costituisce un impero economico indipendente e conserva prerogative importanti. Il colpo di Stato del luglio scorso è servito a ricordarcelo.

(Immagine Francesco La Pia)


Traduzione dell'articolo di Omar Ashour per Afkar/Idées n. 39, autunno 2013, pp. 30-32.

"C'è un'unica soluzione stabile e durevole, una sola condizione imprescindibile e indispensabile affinché il paese funzioni in modo democratico: che i militari accettino la loro subordinazione al potere civile. Questa condizione è ancor più necessaria per far sì che i militari servano lo Stato in maniera efficace".

Sono le parole di un uomo che ha diretto, in Spagna, il processo di controllo democratico delle forze armate. Parole pubblicate nel libro La transicion militar (Debate, 2008). Narcis Serra è stato il ministro della Difesa europeo in carica per più tempo. Civile e professore di economia, ha gettato le basi per le relazioni tra civili e militari in un paese in cui, 40 anni prima, un gruppo di generali aveva provocato una guerra civile brutale per riaffermare la sua supremazia sulle istituzioni elette.

Se una simile affermazione fosse ripetuta in Egitto dopo il colpo di Stato del 2013, le reazioni delle autorità sarebbero simili a quelle del generale Franco nella Spagna degli anni Quaranta: reprimere l'idea e i suoi sostenitori.

Aspetto curioso, diversi partiti islamisti del mondo arabo si trovano oggi nella stessa situazione delle compagini comuniste dell'America Latina o dell'Europa meridionale un secolo fa. Possono vincere le elezioni ma non gli viene concessa la possibilità di governare. Questi partiti godono di grande popolarità tra le classi medio-basse, ma le classi dominanti applaudono e finanziano la loro esclusione e la loro repressione. Ancora più importante: le istituzioni militari credono che queste formazioni siano una minaccia per la loro supremazia, nonostante i discorsi e le politiche avviate dagli islamisti indichino l'esatto contrario.

La crisi tra civili e militari nel mondo arabo va avanti da secoli, tanto da sembrare eterna. Nella sua versione moderna, è cominciata con il colpo di Stato di Hosni al-Zaim in Siria nel 1949, seguito da una decina di altri eventi simili. Questo episodio ha segnato l'avvio di una "tendenza regionale", la cui comune finalità è stata la riaffermazione della supremazia delle istituzioni armate su tutte le altre, di natura politica o legale.

L'Egitto ha seguito il cammino della Siria con un golpe nel 1952 e un altro nel 1954, che ha messo fine alle libertà fondamentali nel paese per i 57 anni successivi, fino al rovesciamento di Mubarak nel 2011. La propensione golpista ha intanto contaminato il resto dell'area, favorendo l'instaurazione delle "repubbliche dei generali": Iraq nel 1958 e nel 1970, Yemen nel 1962, Algeria nel 1965 e nel 1992, Libia nel 1969, Siria nel 1970 e Sudan nel 1989.

Le "rivoluzioni arabe" hanno sfidato questi regimi in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Siria e in altri paesi. Lo slogan "pane, libertà, dignità e giustizia" è così entrato - direttamente e indirettamente - in conflitto con i vantaggi acquisiti dalle istituzioni armate. Dall'altra parte, l'idea di un "controllo delle forze armate ad opera di civili eletti democraticamente" era non soltanto estranea e radicale agli occhi dei generali al potere, ma scaturiva addirittura - secondo la loro interpretazione - da una "mancanza di spirito patriottico" e costituiva un "tradimento" del paese.

Per fare un esempio, nel settembre 2011 facevo parte di un gruppo di attivisti egiziani - che racchiudeva diverse tendenze, dai liberali ai salafiti - creato con un solo obiettivo: convincere tutti i candidati alle elezioni presidenziali ad impegnarsi formalmente nel tenere i militari fuori dalla politica e a non ricorrere né alle armi né all'esercito per fomentare scontri interni (in caso di disfatta alle consultazioni).

Quando questo gruppo ha inviato la petizione al Consiglio supremo delle forze armate (SCAF) al potere, chiedendogli di sottoscrivere questa stessa promessa - mettere fine al governo militare e proporre una data per rimettere il potere nelle mani dei civili - il Consiglio non si è nemmeno degnato di rispondere, mentre il documento era già stato firmato da sette candidati alla presidenza. L'episodio riflette la scarsa considerazione che gli alti in grado egiziani ostentano nei confronti dei rappresentanti politici. Una considerazione, in verità, che va ben al di là del solo esempio egiziano.


Repubbliche popolari o di generali?

Come negli altri casi, le radici della crisi tra civili e militari in Egitto risalgono ad alcuni decenni fa: per la precisione al colpo di Stato del luglio 1952. Tra questa data e il novembre 1954, l'Egitto era un paese diviso, pressappoco come lo è oggi. Parte della cittadinanza desiderava una democrazia parlamentare, un ritorno al costituzionalismo e il ritiro dei militari nelle caserme. Un'altra parte però invocava la presenza di un capo carismatico forte e la promessa di terre, pane e stabilità.

Nel novembre 1954 questa seconda parte ha schiacciato la prima e ha messo fine alle sue richieste: tra le vittime, le libertà fondamentali e il costituzionalismo parlamentare. Gamal Abdel Nasser si è rivelato il capo carismatico atteso, capace di sconfiggere o incorporare le altre fazioni all'interno della giunta militare e quasi tutti i leader politici di riguardo. Nasser ha poi mantenuto alcune delle promesse fatte, tra cui quelle di confiscare-redistribuire le terre e di opporsi al Regno Unito, la vecchia potenza coloniale. Il prezzo da pagare è stato però l'instaurazione di una "repubblica di generali": un paese in cui le istituzioni armate sono state poste al di sopra di tutte le altre, comprese quelle elette.

La rivoluzione del gennaio 2011 ha sfidato a più riprese questo statu quo ereditato dal 1954. I giovani e le organizzazioni scese in piazza si sono confrontate ad una giunta militare del XXI secolo: lo SCAF, un corpo incostituzionale politicamente conservatore, che ha governato l'Egitto tra il febbraio del 2011 e il giugno del 2012. La riforma del settore della sicurezza, il controllo democratico dell'esercito, la sua supervisione da parte di istituzioni civili, l'obbligo di rendere conto delle proprie azioni e la trasparenza budgetaria delle forze armate sono apparsi concetti radicali ed estranei al Consiglio militare. Peggio, una vera e propria minaccia da eliminare o disinnescare.


Le petizioni e i timori dei generali

Dopo aver escluso Mubarak nel 2011, lo SCAF si è mostrato intransigente su tre punti: diritto di veto sulle questioni di "alta politica", l'intangibilità del budget pubblico destinato ai militari e del loro affarismo, e l'immunità di fronte ai procedimenti giudiziari per corruzione e repressione. Prerogative che, stando alla richiesta dell'esercito, dovevano essere sancite per via costituzionale.

Tali pretese, in effetti, sono poi state certificate da un annesso costituzionale del luglio 2012, che concedeva al Consiglio supremo delle forze armate un controllo assoluto sul primo parlamento post-rivoluzionario, peraltro dissolto il 30 giugno dello stesso anno con la decisione 350 firmata SCAF (dopo una sentenza della corte costituzionale che definiva una parte della legge elettorale "incostituzionale"). Il provvedimento, che trasferiva il potere legislativo nelle mani del Consiglio, interveniva pochi giorni prima della data prevista per l'insediamento del primo presidente civile eletto democraticamente in Egitto.

Altra questione è l'impero economico dei militari. L'esercito beneficia di diritti doganali e tassi di cambio preferenziali, di esenzioni fiscali, di vaste proprietà terriere, del diritto di esproprio e può contare su una folta schiera di lavoratori a basso costo (una sorta di corvée militare). Questo impero, oltre ad essere un notevole strumento di pressione e di influenza, costituisce un buco nero finanziario più o meno equivalente al 20-40% della malridotta economia egiziana.

Per cercare di risollevare la situazione, era molto probabile che i politici eletti dopo la rivoluzione decidessero di adottare misure per limitare tali privilegi ed imporre un controllo legale sulla fortuna accumulata dall'esercito. Tuttavia, nel marzo 2012 il generale Mahmud Nasr - membro dello SCAF incaricato delle questioni finanziarie - ha lanciato un avvertimento pubblico, a dir poco perentorio: "[l'impero economico militare] è frutto del nostro sudore e lotteremo con il sangue per difenderlo.. Non permetteremo mai a nessuno di indebolire lo status delle forze armate".

Nonostante il suo potere, il Consiglio è sembrato comunque vulnerabile sotto certi aspetti. In primis la pressione degli Stati Uniti, fonte di armamenti, addestramento e finanziamento. Ma anche per la tensione scaturita dalla piazza. La maggior parte delle decisioni pro-democratiche dello SCAF sono state prese in particolari momenti di pressione da parte dei manifestanti: l'allontanamento di Mubarak, l'inizio del suo processo, la convocazione anticipata delle elezioni presidenziali (nel giugno 2012, anziché nel giugno 2013 come inizialmente previsto).

La coesione interna dell'esercito ha rappresentato poi un terzo fattore di influenza sulle azioni del Consiglio militare. […] Per mantenere questa coesione ed evitare contrasti o defezioni - come sembrava potesse accadere durante le proteste di Tahrir - la soluzione è stata la fabbricazione di "demoni" esterni, una strategia già rodata in altri contesti come la "guerra sporca" combattuta in Algeria durante gli anni '90. I manifestanti copti erano un bersaglio facile per rinsaldare soldati e ufficiali. Così nell'ottobre 2011, ad esempio, l'esercito ha adottato misure severe contro un raduno di protesta che condannava l'incendio di una chiesa. Nel quartiere di Maspero, al Cairo, 28 cristiani copti hanno trovato la morte e circa 200 sono stati feriti, mentre la televisione di Stato ha mostrato solo un soldato in barella che gridava: "i cristiani, maledetti, volevano ucciderci!".

La diffamazione sistematica dei gruppi rivoluzionari contrari allo SCAF e l'escalation di violenze che si è prodotta tra novembre e dicembre 2011 rispondevano ad uno stesso obiettivo. Dopo il colpo di Stato militare del luglio 2013, Fratelli musulmani e islamisti sono diventati i nuovi "demoni".


Tentativi presidenziali

Dopo l'elezione del presidente Mohammed Morsi sono stati compiuti alcuni piccoli progressi verso un riequilibrio delle relazioni tra civili e militari nel paese. Nell'agosto del 2012, ad esempio, Morsi ha annullato l'annesso costituzionale che era stato approvato dallo SCAF due mesi prima. Il presidente ha poi dimesso i generali che l'avevano promulgato, il maresciallo Tantawi e il suo secondo, il generale Sami Anane.

Queste misure però avevano un prezzo, pagato al momento della redazione della costituzione. Nel testo approvato a fine 2012 dal 63% dell'elettorato egiziano, le relazioni tra civili e militari erano lontane dall'essere paritarie. Il ministro della Difesa doveva obbligatoriamente essere un ufficiale (art. 195) e il Consiglio di difesa nazionale doveva essere composto da una maggioranza di comandanti militari (art. 197). Questo organo concedeva ai militari un diritto di veto su tutte le questioni legate alla sicurezza nazionale e sui temi delicati di politica estera.

"Se aggiungete uno dei vostri io farò lo stesso con uno dei miei", ammoniva il generale Mamduh Shahin, rappresentante dell'esercito all'Assemblea costituente, rivolgendosi a Mohammed El Beltagy, dirigente della Fratellanza oggi ricercato dalla polizia. Quest'ultimo aveva proposto di includere un altro civile nel Consiglio, ma la sua mozione era stata rigettata.


Colpo di Stato 2013: ritorno al 1954 o qualcosa di peggio?

Le esperienze passate dimostrano che, quando la forza militare si sostituisce alle istituzioni elette, il risultato non è mai favorevole al progresso democratico. Alcuni esempi: Spagna 1936, Iran 1953, Cile 1973, Turchia 1980, Sudan 1989, Algeria 1992.. Il colpo di Stato del luglio scorso, quindi, sembra destinato a condurre l'Egitto verso scenari funesti. L'esito non è certo, ma è chiaro che la dinamica democratica è destinata a subire l'ennesimo contraccolpo. I provvedimenti repressivi assunti dal maresciallo Tantawi (2011-2012) e da Nasser (1954-1970), del resto, erano leggeri se paragonati a quelli ingaggiati recentemente dal generale Abdel Fattah Al Sisi. Oltre agli arresti e ai processi, l'intervento armato contro il sit-in in piazza Rabaa - lo scorso agosto - ha fatto da solo circa mille morti e innumerevoli feriti.

Il colpo di Stato presuppone l'ennesima affermazione della supremazia relazionale dei militari sui civili nel paese. E le sue conseguenze sul piano regionale sono ancora più inquietanti. Il messaggio che i golpisti hanno inviato a Libia, Siria e Yemen, tra gli altri, è un invito alla militarizzazione della sfera politica: solo le armi garantiscono successo e stabilità, non la costituzione né istituzioni democratiche né tantomeno gli scrutini.

La lezione impartita da questa situazione è che nessuna transizione può essere veramente possibile senza che prima vengano eliminati gli abusi, la tortura e l'impunità, senza un controllo efficace sull'esercito e sulle forze di sicurezza da parte di organi civili. E' questo l'unico indicatore in grado di prospettare un reale cambiamento in Egitto.

(Traduzione pubblicata su Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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