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venerdì 7 febbraio 2014

Migranti. "Messaggeri di un'epoca senza più dignità"

In anteprima a Rabat, il film "Les Messagers" riporta le voci e le storie di chi ha lasciato la propria terra e si è messo in cammino. Di chi viene privato di umanità e in molti casi anche della vita. E' nella memoria dei sopravvissuti che rimane traccia della loro esistenza.
(Foto Laetitia Tura)

"Non avevo mai visto tanti cadaveri. Rientrando verso la costa, pensavamo che fosse scoppiata una guerra di cui non eravamo al corrente". Sono le parole pronunciate da alcuni pescatori, sconvolti, al momento dell'attracco al porto. Su questa immagine si apre Les Messagers, ("I Messaggeri") documentario girato tra Tunisia e Marocco dalle registe francesi Hélène Crouzillat e Laetitia Tura.

Il film, ancora in fase di ultimazione in alcuni dettagli di postproduzione, è stato presentato in anteprima la settimana scorsa all'Istituto di cultura francese di Rabat, in occasione del festival Migrant'scène (organizzato dalle associazioni Dabateatr e Gadem). A sei anni dall'avvio dei lavori, il progetto - nato dall'incontro e dalla fusione dei percorsi professionali delle due giovani realizzatrici (fotografica la formazione di Laetitia, storiografica quella di Hélène) - è così arrivato a conclusione, grazie anche al successo della campagna di crowdfunding che l'ha sostenuto.

Il risultato è un'opera dura, violenta nell'asprezza dei contenuti, essenziale per capire un fenomeno - lungo e complesso - come quello migratorio, di cui tanto si parla in Europa ma di cui poco si conosce, o si vuole conoscere.

"In Francia, suppongo anche in Italia, si parla di migrazione nel momento in cui i migranti arrivano sul territorio, o sfiorano la frontiera Shengen. Qui inizia il problema, dal punto di vista delle autorità e di quello della stampa che le segue. E' in questa fase che si manifesta il loro interesse. Noi abbiamo voluto capovolgere la prospettiva", spiega Hélène Crouzillat al termine della proiezione. "L'arrivo al confine europeo è solo l'ultima parte del viaggio. Un cammino iniziato anni prima e in molti casi terminato anzi tempo in modo tragico".

"Durante gli incontri con decine di ragazzi e ragazze sub-sahariani, sia in Marocco che in Tunisia, la morte e la scomparsa dei compagni era un tema onnipresente nelle storie di cui venivamo rese partecipi. Le loro parole erano chiare, senza appello: i migranti muoiono ogni giorno, nel bianco e nel vuoto delle carte, nel mare e nel deserto, senza lasciare traccia".  

Chi sono? Dove sono i corpi?

Domande che si ripresentano per tutta la visione del film, costruito a mo' di inchiesta. Les Messagers ripercorre le traiettorie dei migranti, dando seguito e respiro alle testimonianze raccolte. Dai luoghi più reconditi, nel deserto del Sahara, a quelli più vicini alla frontiera europea: le enclave spagnole di Ceuta e Melilla, Oujda, al confine marocco-algerino, la costa del Sahel tunisino e il porto di Zarzis.

A mano a mano che ci si avvicina al litorale sud del Mediterraneo, la perdita dei compagni di viaggio si fa più brutale e definitiva. A causa della malnutrizione, del freddo, di malattie banali che non possono essere curate nelle loro condizioni. Oppure a causa delle retate dei poliziotti marocchini, che non esitano a sparare sui migranti ammassati alle reti di confine con la Spagna e ad abbandonare feriti, donne e bambini nel deserto oltre frontiera.

Le immagini - in alcuni passaggi - mostrano i cimiteri cristiani di Oujda e Rabat, invasi da erbacce ed erosi dall'indifferenza, dove sono sepolti alcuni di loro, sotto lapidi anonime contrassegnate solo dal paese di origine.

I racconti e le ricostruzioni sono scioccanti per il sentimento di impotenza che trasuda dalle parole dei protagonisti. Una ragazza nigeriana parla del naufragio avvenuto sotto lo sguardo inerte della marina spagnola e di quella marocchina: "cercavamo di tenere con noi i corpi di chi era già morto per impedire alla corrente di portarseli via. Ma dovevamo anche restare aggrappati al relitto, in attesa di un intervento che non arrivava mai. Alla fine non ce l'abbiamo fatta".

E ancora. Un uomo racconta incredulo la scomparsa della moglie e dei figli: "il gommone era appena partito dalla costa quando una lancia marocchina si è messa sulla sua scia. I poliziotti hanno affondato la barca con delle lame fissate in cima alle pertiche, mentre la gente a bordo alzava i bambini sulle braccia per chiedere pietà. Questi sono esseri umani?".

Con la scomparsa dei corpi viene meno anche la possibilità del riconoscimento, della sepoltura e dell'osservanza del lutto. Quando i cadaveri vengono restituiti dal mare, restano ammassati per giorni negli obitori degli ospedali più vicini, prima di volatilizzarsi. Dove finiscono, se non ci sono familiari o conoscenti in grado di identificarli?

Almeno in un caso Hélène e Laetitia sono riuscite a dare una risposta. Negli ultimi giorni di riprese (2012), a pochi chilometri dal litorale di Zarzis, le due registe e alcuni attivisti locali hanno scoperto l'esistenza di una fossa comune, scavata qualche anno prima e ricoperta di sabbia e plastica con i bulldozer, come in una discarica.

Il sintomo di un sistema, quello orchestrato a nord del Mediterraneo e appaltato alla sponda sud, che rifiuta e cancella quello che non vuol vedere, che sotterra quello che non vuole ammettere: la perdita di umanità.

Chi sono allora i "messaggeri"? Sono i sopravvissuti, i primi testimoni di queste morti, dei naufragi e della repressione silenziosa. Sono i migranti che, pur rischiando ritorsioni e nuove espulsioni, si organizzano per dare un nome alle vittime, per ricostruire le loro storie e avvertire le famiglie in attesa di notizie. Sono la prova che è possibile resistere ad un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità.


Al termine della proiezione, in cui erano presenti Hélène Crouzillat e Laetitia Tura, Osservatorioiraq si è intrattenuto con le due registe del film Les Messagers.

Nella vostra introduzione avete sottolineato la lunga durata dei lavori. Le prime riprese erano iniziate nel 2007..come mai tutto questo tempo?

Ci sono diversi motivi. Prima di tutto non è facile trattare certe tematiche in questi paesi, il Marocco e ancor peggio la Tunisia di Ben Alì. Impossibile ottenere un'autorizzazione per le riprese, di conseguenza abbiamo dovuto girare tutto di nascosto o fingendoci turiste, il ché ha rallentato molto i ritmi di lavoro. Bisognava prendere precauzioni, quasi mai abbiamo viaggiato con tutta l'attrezzatura al seguito.

Poi, oltre ad un tempo tecnico necessario a metabolizzare il materiale raccolto, bisognava verificare l'attendibilità delle testimonianze, fare indagini, confrontare le fonti. I racconti riportati nel film denunciano violazioni gravissime, serviva un minimo di cautela. Senza contare che, data la lunghezza delle riprese, molte volte ci siamo ritrovate con interviste rimaste a metà, non utilizzabili, poiché i nostri testimoni nel frattempo erano stati espulsi, erano partiti o più semplicemente erano scomparsi. In questo caso bisognava ricominciare tutto da capo.

Tutte le video-testimonianze sono state girate in ambienti chiusi. E' una scelta voluta o una conseguenza delle difficili condizioni di lavoro?

Una scelta obbligata, tranne per le interviste girate in Tunisia dopo il 2011. Non potevamo far parlare le persone nei contesti che stavano descrivendo, come la frontiera di Melilla dal lato marocchino o il confine di Oujda con l'Algeria. Ci avrebbero fermate subito. Per questo, per restituire quegli ambienti, ci siamo basate soprattutto sulla fotografia.

Nel documentario non viene mai specificato il luogo dove sono state girate le immagini. La realtà marocchina e quella tunisina si intrecciano e si confondono, a parte i dati desumibili dalle voci dei protagonisti. Perché?

Perché la condizione di fondo a cui si trovano confrontati i migranti è la stessa. Sia all'interno del paese che al momento del passaggio della frontiera con l'Europa. C'è un'uniformità nelle politiche attuate da Marocco e Tunisia. Del resto, gli accordi conclusi in materia dai due paesi, con l'UE e con gli Stati europei frontalieri, sono molto simili. Prendiamo poi l'esempio estremo, quello della fossa comune. L'abbiamo scoperta in Tunisia perché lì è stato possibile fare ricerche, almeno negli ultimi due anni. Ma se ci fosse la possibilità, siamo convinte che se ne troverebbero anche in Marocco.

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