Dopo l’imponente mobilitazione che domenica scorsa ha portato in strada, nelle principali città del regno, decine di migliaia di marocchini per dire basta all’assolutismo monarchico, la protesta è continuata in settimana con scioperi e manifestazioni in tutte le università. Il Movimento 20 febbraio sembra aver risvegliato definitivamente la coscienza di un popolo stanco di essere suddito e desideroso di dignità, democrazia e uguaglianza. Per capire meglio la natura di questo movimento, dalle caratteristiche inedite nella storia della dissidenza nel paese, (r)umori dal Mediterraneo ha incontrato Nadia Yassine, uno dei volti più rappresentativi dell’associazione islamica Al Adl wal Ihssane (“Giustizia e Carità”). Assieme ai militanti amazigh, alla sinistra radicale e alle ong per i diritti umani, l’organizzazione fondata negli anni ottanta da shaykh Abdessalam Yassine (funzionario al Ministero dell’Educazione e discepolo sufi della confraternita Bushishiyya) è infatti una delle forze sociali che più si è implicata, fin dall’inizio, a sostenere le azioni e le rivendicazioni promosse dal “20 febbraio”.
Giustizia e Carità nella manifestazione del 20 marzo a Rabat |
Nadia Yassine, figlia della guida spirituale e politica e “portavoce de facto” dell’associazione (come lei stessa si definisce), ci ha accolto in un appartamento di Salé, non troppo lontano dalle mura della prigione al cui interno i detenuti della salafiyya stanno portando avanti da giorni la loro protesta (revisione dei processi-farsa e scarcerazione). L’abitazione è in realtà la sede della sezione femminile di Giustizia e Carità, fondata dalla stessa Nadia nel 1991: “attualmente non ho nessun incarico ufficiale, la sezione è diretta da un comitato di quindici sorelle, che lavorano all’educazione della base, all’interpretazione dei testi e allo studio della giurisprudenza islamica. A me hanno lasciato questa stanza, una piccola libreria e le poltrone per ricevere gli ospiti”, scherza la signora Yassine, capelli ricoperti da un foulard di colore viola e la battuta sempre pronta.
Nell'aprile del 1984, a qualche giorno dalla tradizionale parata del 1° maggio organizzata dalla sinistra sindacale, nessuno immaginava che le centinaia di giovani seduti sull'asfalto ed abbracciati l'uno all'altro davanti al tribunale, pronti a sfidare in maniera pacifica le cariche dei poliziotti, appartenessero ad un gruppo islamista. Il processo del 1984 (il terzo in pochi anni a carico del ribelle Abdessalam Yassine, costretto poi agli arresti domiciliari dall’89 al ’99) ha rivelato all'opinione pubblica l'esistenza di Al Adl wal Ihssane (anche se questa appellazione viene usata solo a partire dal 1987), un movimento determinato e ben radicato nella società, pur non essendo riconosciuto dal regime, capace di fondere assieme le virtù carismatiche del suo mentore, il misticismo di matrice sufi e l'attivismo politico-sociale. Le cifre sulla reale consistenza di Giustizia e Carità restano tuttora un tabù (40 mila secondo le autorità, quasi 200 mila per i responsabili dell’organizzazione), quello che è certo è la diffusione capillare dell’associazione in tutto il territorio nazionale, sia nelle grandi città che nelle regioni interne. “In origine erano i quadri dell’insegnamento e gli studenti delle università a rappresentare il grosso delle adesioni, mentre negli ultimi anni all’interno dell’organizzazione sono presenti tutte le categorie sociali, tranne quelle che stanno divorando le risorse del paese”, precisa Nadia, con un sorriso che non riesce a scomporre il suo stile sobrio e allo stesso tempo elegante, come il piccolo studio in cui ci ha accolto.
Laureata in giurisprudenza all’università di Fes, questa cinquantenne colta e carica di ironia (che sembra aver ereditato a pieno il carisma del padre) è stata costretta nei primi anni ottanta ad abbandonare il master in Scienze Politiche “poiché alcuni professori stavano facendo di tutto per ostacolarmi, assegnandomi delle valutazioni ideologiche e non di merito”. Erano gli anni della maturazione, l’inizio del suo impegno militante all’interno del gruppo islamista, “anche se il mio era più un bisogno spirituale che una convinzione politica”, confessa Nadia, divenuta suo malgrado una delle più note oppositrici del regime, un compito assunto, almeno in principio, “quasi per caso, o meglio, per necessità”. “In realtà la mia indole propendeva più per la letteratura e per l’arte in generale. Ma il giorno in cui rapirono mio padre, per poi rinchiuderlo in un ospedale psichiatrico (1974), sono caduta nel paiolo dell’attivismo politico, come Obelix con la pozione magica. E’ stata una reazione immediata, tanto era l’affetto che provavo (e tuttora provo) per lui. Sono stata in un certo senso costretta a schierarmi in prima linea. Ricordo che quando andavo a trovarlo portavo sempre con me, nascosti sotto la jellaba, quaderni, penne, lettere e ogni cosa potesse essergli utile in quel luogo infernale. Stessa cosa nel 1981, quando mio padre fu imprigionato nel carcere di Lahlou, costretto a dormire per terra in una cella infestata dai topi. Dovevo battermi, dovevo fare qualcosa per lui, così iniziai a parlare con i giornalisti, a spiegare il perché di una simile repressione e che cosa fosse in realtà la nostra organizzazione. Da allora non ho più smesso, anche se oggi penso sia giunto il momento di ritirarmi e di dedicarmi ai miei veri interessi, la scrittura e la pittura”. Dopo la pubblicazione di Toutes voiles dehors (2003), Nadia Yassine sta ultimando infatti la stesura di un nuovo testo, “questa volta un romanzo, ambientato in uno scenario avanguardista”, che vuole offrire lo spunto per una rilettura critica “dell’ormai noto scontro di civiltà”. Nadia approfitta dell’intervista per concederci un breve anticipazione: “tra le scorie del Mare del Nord viene ritrovata una ragazza. Non parla, nessuno sa chi sia e l’equipe scientifica che la segue, dopo averle insegnato la lingua, le lascia la possibilità di presentarsi e di raccontare il suo passato. Le parole svelano la sua identità, si tratta di Sherazade, che comincia a raccontare una storia ben differente da quella delle mille e una notte. Una storia fatta di bombardamenti e distruzione…ma lasciamo da parte Baghdad e il Medio Oriente per tornare nell’estremo occidente maghrebino, che credo a lei interessi di più”.
Intervista a Nadia Yassine (Salé, 19 marzo 2011)
Signora Yassine, nel 2005 è stata accusata formalmente di “attacco alle istituzioni sacre della nazione” per aver espresso le sue convinzioni repubblicane e per aver auspicato la fine dell’autocrazia alawita nel corso di un’intervista rilasciata al giornale al-Usbu’iya al-Jadida. Fino ad ora non è stata emesso alcun giudizio. A che punto è il processo?
E’ una vera spada di Damocle che pesa tuttora sulla mia testa, così funziona il makhzen. Quando qualcuno lo disturba con le sue affermazioni, o viene condannato velocemente o viene coinvolto in processi di eterna durata, come un cappio stretto attorno al collo. Sono sei anni che le udienze vengono rimandate. Il prossimo appuntamento è il 5 maggio, al tribunale di Rabat.
In questi anni ha per caso cambiato idea o preferisce sempre la repubblica alla monarchia?
Sono rimasta della stessa idea, non cambio parere come se fosse una camicia o meglio un foulard. Tuttavia, quando ho dichiarato la mia preferenza per il modello repubblicano, un sistema di governo che ritengo molto più vicino a quello originario tramandato dalle sacre scritture, l’ho fatto non solo per convinzione, ma anche per ribadire il mio diritto alla libera opinione. D’altro canto faccio parte di un movimento estremamente pragmatico, oltre che non violento, che deve fare i conti con quello che gli succede attorno. Non siamo dei sognatori e crediamo che l’avanzamento debba essere progressivo funzionale ai bisogni del popolo.
E’ per questo motivo che avete deciso di “collaborare” con altre correnti ideologiche, come per esempio la sinistra radicale?
Non siamo noi ad aver cambiato atteggiamento, piuttosto lo sguardo esterno nei nostri confronti, in un contesto in ebollizione come quello attuale. Ma il movimento Al Adl wal Ihssane si è sempre mosso su due livelli. Il primo, diciamo teorico, che ci vede intransigenti rispetto alla questione della monarchia ereditaria. L’autocrazia reale non ha nessun fondamento nei principi dell’islam, lo abbiamo sempre affermato forte e chiaro. Il secondo, diciamo più pratico, che prevede il rifiuto della violenza e la necessità dell’implicazione sociale, e da qui il bisogno pragmatico di confrontarci con le altre realtà sociali e politiche. Da quando è stato creato il “comitato politico”, nel 2000, non abbiamo mai smesso di chiedere l’apertura di un dibattito pubblico tra tutte le realtà politiche e sociali nazionali. Nel libro Islamiser la modernité mio padre l'ha scritto nero su bianco: “Giustizia e Carità sostiene la democrazia, il multipartitismo, la separazione dei poteri, e vuole arrivare ad un’intesa con tutte le componenti della società civile che si riconoscono nella comune appartenenza all’islam”, un’identità a mio avviso inclusiva e federatrice.
Nessun problema quindi, dopo anni di scontri nei campus universitari, a scendere in piazza al fianco degli attivisti berberi e della sinistra radicale?
La ritengo un’unione sacra, un gesto estremamente interessante che denota la maturità politica raggiunta da tre forze democratiche e ben ancorate nel tessuto popolare. Se oggi il Marocco può ambire ad un futuro diverso, fatto di dignità e uguaglianza, è grazie all’unione di intenti raggiunta sul campo da queste tre componenti, una strategia basata sul rispetto reciproco in cui Giustizia e Carità crede profondamente.
Resta comunque il discorso legato alla religione di Stato. Alcune delle componenti sociali che manifestano oggi assieme a voi si dichiarano apertamente laiche (AMDH, movimento amazigh, Annhaj Addimocrati). Come pensate di confrontarvi con questa realtà?
Sarò sincera, è inutile girarci intorno. Non posso certo dirvi che al movimento Giustizia e Carità non interessi uno Stato che sia basato, tra le altre cose, sull’identità islamica. D’altronde nemmeno le forze politiche che fanno ora parte del sistema (parlamento, elezioni, etc..) hanno mai rigettato questa identità islamica, sancita perfino dalla costituzione, né un istituto obsoleto come la commanderie des croyants. Si fa presto ad innescare la paura e a gridare all’oscurantismo sostenendo che Al Adl vuole uno Stato islamico. Ma io quando ho parlato di repubblica non l’ho mai definita islamica. Non è certo al modello iraniano che faccio riferimento, non ci interessa un’altra autocrazia e una nuova dittatura basata sulla religione. L’identità islamica, che noi immaginiamo come una delle caratteristiche del Marocco del futuro, dovrà essere il frutto di una concertazione sociale, dovrà rispondere alle esigenze democratiche della popolazione. Per questo l’esempio dell’Iran non deve essere preso in considerazione, mentre quello turco, un sistema alla base laico dove un partito islamico ha saputo intervenire soddisfacendo la grande maggioranza dei cittadini, è molto interessante. Erdogan ha promosso un islam moderno, democratico e pragmatico, che ha dato i suoi frutti sia sul piano sociale che su quello economico. La monarchia marocchina ha giocato per decenni sulle differenze etniche e tribali della popolazione e il paese potrebbe correre il rischio di una frantumazione (non solo sociale). Per questo ritengo che l’islam resti comunque un elemento federatore, un collante a cui è prematuro assegnare uno status, ma che le correnti laiche, che come noi spingono per il cambiamento, non possono permettersi di escludere a priori.
Come spiega l’unione tra la modernità e l’identità islamica dello Stato, difesa dal suo movimento?
La cosa più importante da fare, in questo dibattito sull’identità islamica che noi proponiamo, è chiarire di quale islam stiamo parlando. L’islam che ci interessa è quello dell’ijtihad, quello dell’interpretazione e della contestualizzazione continuativa, che è stato di fatto escluso dalla gestione del potere alawita. Anche per questo noi mettiamo in discussione la natura stessa del regime. Già dal tempo degli Omayyadi l’ijtihad, e dunque l’intervento della ragione, della razionalità, è stato messo al bando. Una scelta politica. Ora, questo non è un motivo sufficiente per gettare il bambino assieme all’acqua sporca. Gli Omayyadi hanno fatto un vero colpo di Stato, hanno utilizzo l’islam per le loro esigenze, per il loro potere personale, modificando un messaggio che era all’origine profondamente democratico, mentre il potere non è che uno strumento per veicolare un messaggio universale. Ci accusano di oscurantismo, ma uno dei compiti principali della nostra associazione è proprio il lavoro di rilettura e di reinterpretazione delle scritture, in tutti gli ambiti, dallo statuto della donna nella società alla relazione tra la umma e l’alterità. Cerchiamo di tornare alle fonti primarie dell’islam non per riproporre un modello arcaico, ma per dimostrare che quelle stesse fonti, confiscate e travisate dagli ingranaggi del potere, ci permettono di essere musulmani e allo stesso tempo estremamente moderni. Tuttavia, per riportare alla luce quei testi bisogna lottare contro un regime che non ne vuole sapere, che vuole perpetuare un’immagine arcaica e falsata della nostra religione, compromettendone anche il lato puramente spirituale. Come ha scritto recentemente Edgar Morin nel libro La voie, “l’uomo non ha solo bisogno di mangiare e dormire, occorre che la sua vita abbia un senso”. La gente è in cerca di spiritualità, ha sempre più bisogno di trovare un senso all’esistenza ed io credo che l’islam, un messaggio in sé universale e universalista, possa restituire questo senso. Sarebbe un vero peccato dovervi rinunciare a causa delle scelte sbagliate e delle false interpretazioni che sono state imposte a livello politico.
Può fornirmi degli esempi concreti della lettura moderna che Giustizia e Carità applica ai precetti dell’islam?
Per prima cosa sono qui di fronte a lei e le sto parlando in assoluta libertà. Nell’islam radicale e in quello tradizionalista una donna non ha il diritto di ricevere e intrattenere gli ospiti senza la presenza del marito, del capofamiglia o del tutore. Già mio padre, nei suoi scritti, si è rivolto alle donne affermando: “nessun altro a parte voi e la vostra lotta riuscirà a liberarvi”. Non mi sembra una dichiarazione poi così oscurantista. All’interno del movimento ci sono donne che stanno studiando per acquisire lo statuto di alim, che rivedono testi giuridici e preparano nuove interpretazioni, per diffondere tra la popolazione una lettura progressista dell’islam con argomentazioni solide. In Amir al muminat mio padre parlava già di divorzio e non di ripudio, un diritto riconosciuto nel Corano stesso purché liberato dalle interpretazioni retrograde e maschiliste che hanno dominato fino ad oggi. Nella nostra storia ci sono un’infinità di esempi e esperienze progressiste da riprendere, come quella di Ibn Aardoun che ha imposto la divisione dei benefici familiari e dell’eredità in parti uguali tra l’uomo e la donna (nella regione di cui era mufti). Ibn Aardoun (a mio avviso un vero alim e non uno pupazzo manovrato dal consiglio degli ulama che impone le linee rosse e le interpretazioni gradite al Palazzo) ha fatto uno sforzo di riflessione personale ed è riuscito a trovare una soluzione al problema dell’eredità pur restando fedele alle linee guida degli Hadith e del libro sacro, che predica per prima cosa la giustizia sociale. Il fatto che il makhzen abbia deciso di lasciare ai margini questo tipo di esperienze e di interpretazioni è la risposta ad un bisogno politico. Al regime serviva una giurisprudenza che veicolasse la superiorità dell’uomo sulla donna, poiché la società doveva essere il riflesso di un sistema politico fondato sull’obbedienza dei sudditi ad un capo assoluto.
Mi sembra che stia facendo leva soprattutto sullo statuto della donna e sulla questione della moudawana (il codice di famiglia marocchino), non è così?
Sì, è uno degli aspetti che più mi sta a cuore, soprattutto dopo le accuse che hanno lanciato contro Giustizia e Carità al momento della riforma del codice (2004). Hanno detto che il nostro movimento si è opposto al cambiamento e all’ingresso nella modernità, ma non è vero. Sono stata una delle prime donne a schierarmi contro il vecchio codice di famiglia, assieme ad alcune femministe di sinistra. Il patriarcato e l’autocrazia sono due facce della stessa medaglia. Non si può mettere in discussione l’una senza coinvolgere anche l’altra. Per questo legame intrinseco il potere ha atteso decenni prima di cedere alle pressioni della società. Se Al Adl, in quell’occasione, ha affermato che “bisogna cambiare la moudawana pur restando in un registro islamico”, è perché ci sono svariate letture interpretative dell’islam, moderne e interessanti, oltre a quella arcaica e oscurantista adottata dal makhzen. Quindi, perché cercare soluzioni altrove, quando sono disponibili già nella nostra cultura? Il problema quindi non sta nella riforma in sé, ma nel modo in cui viene attuata.
Seguendo le dichiarazioni che ha rilasciato negli ultimi anni, il suo giudizio sul nuovo codice resta comunque critico. Perché?
La prima cosa da fare è contestualizzare la moudawana. Quella marocchina è una società affetta da un alto tasso di analfabetismo, fenomeno ancor più rilevante nel caso delle donne e delle regioni rurali o montagnose, e dalla diffusione endemica della corruzione, una pratica che colpisce l’universo femminile con maggiore intensità. Dunque le donne sono le prime vittime di un sistema violento e corrotto, su cui è stata calata quella che io definisco una riforma-fiction, che non influisce minimamente nella realtà quotidiana di un popolo per metà ancora contadino. Quando critico la nuova moudawana non lo faccio da un punto di vista religioso, ma da una prospettiva politica e sociale. Sono stati riconosciuti alle donne dei finti diritti, dal momento che nulla è stato fatto per accompagnare queste misure sul piano sociale e politico, per renderle effettive ed efficaci.
Mi spieghi meglio il suo concetto di “riforma-fiction”. Perché afferma che i diritti sanciti dalla moudawana non sono “effettivi ed efficaci”?
Concedere diritti è un gesto lodevole, ma non concedere i mezzi per appropriarsi di questi diritti è un inganno, una mela avvelenata. Al momento, non esistono sevizi sociali che possano accompagnare le donne nella pratica della nuova legge, né tanto meno le condizioni sociali perché la moudawana possa trovare applicazione. Sono problemi che oggi vengono riconosciuti perfino dalle associazioni e dalle ong ritenute “femministe”. Noi avevamo lanciato l’allarme già durante la fase di approvazione del codice, poiché avevamo la distanza necessaria, essendo all’esterno del sistema, per vederne le contraddizioni e le insufficienze, per capire che la rivoluzione femminista annunciata dal sovrano sarebbe rimasta nei fatti l’ennesima maquette. Concretamente, prendiamo l’età minima per il matrimonio, che è stata portata da quindici a diciotto anni. Bene, anzi benissimo dal mio punto di vista, quello di una madre che appartiene ad una classe sociale medio-alta. Ma il Marocco non è composto solo da donne benestanti che possono accedere agli studi e scegliere quale istituto frequentare. La maggioranza vive nelle campagne, nelle montagne o nei sobborghi urbani in condizioni precarie. Ora immagini una qualunque famiglia povera nel contesto rurale, un contesto affetto da analfabetismo sia maschile che femminile e da un maschilismo intrinseco nella coscienza marocchina da quattordici secoli a questa parte. I genitori, se possono mandare a scuola un figlio, scelgono il maschio. Le ragazze, invece, si trovano di fronte a tre possibilità: il matrimonio, la prostituzione, o partire verso la città più vicina e mettersi al servizio di una famiglia benestante. Non mi invento niente è la realtà marocchina che parla da sola e finché queste saranno le condizioni non ci sarà nessuna moudawana che tenga. Basta fare un’inchiesta sul campo, come ho fatto io assieme alle sorelle dell’associazione, per rendersene conto. Sa qual è la conseguenza di una simile realtà? Sa cosa succede oggi nei tribunali? Ci sono code infinite di ragazze che vogliono sposarsi a quindici/sedici anni e che per legge hanno bisogno dell’autorizzazione del giudice. Alcune famiglie mi hanno confessato di aver speso 2 mila dirhams solo per gli spostamenti dall’inizio della procedura, senza contare i soldi necessari per corrompere il magistrato. Può immaginare i sacrifici, sapendo che 2 mila dirhams corrispondono al guadagno annuale di una famiglia contadina povera. Qual è allora la soluzione a cui ricorre la gran parte di queste famiglie? Il matrimonio religioso, un imam, dodici testimoni ed è risolto il problema senza troppe spese o sbattimenti per avere la validazione legale. Se fossimo degli oscurantisti dovremmo gioire di questa situazione, invece ci battiamo per denunciarla e riceviamo pure gli insulti. La religione dovrebbe proteggere i diritti, invece oggi migliaia di ragazze sono doppiamente vittime, della società e di questa moudawana che le difende solo sulla carta. Se fosse una questione religiosa, si potrebbe alzare l’età del matrimonio anche sopra i diciotto anni, basta il consenso dei giuristi e l’accordo della società (maslahah). Ma il problema, il nodo della questione sollevata da Giustizia e Carità è prettamente sociale e politico. Quelli che affermano il contrario sono solo dei pedofili che giustificano le loro voglie servendosi di una religione a proprio uso e consumo.
Approfitto di questa sua lunga analisi per proporle una valutazione dei primi dieci anni di regno di Mohammed VI, di cui la riforma della moudawana è uno degli aspetti che più hanno interessato gli osservatori occidentali. Parlando di “eccezione marocchina”, alcuni di questi osservatori definiscono il Marocco di Mohammed VI come un paese democratico. Che ne pensa Nadia Yassine?
Le elezioni ogni cinque anni e la presenza, direi esclusivamente fisica, di un parlamento, non hanno niente a che vedere con la democrazia. Il parlamento in Marocco è un regalo di Hassan II, che prima si è divertito a dividere le forze politiche uscite dal blocco nazionale poi, dopo averle tenute al margine, le ha inserite nella sua scacchiera personale al fianco dei partiti makhzeniani. “Il parlamento è un circo”, lo aveva dichiarato lo stesso Hassan II di fronte alle telecamere e negli ultimi dieci anni non è cambiato niente. Il re continua a muovere le pedine a suo piacimento, a giocare a scacchi con il morto. E’ sufficiente leggere l’attuale costituzione. Articolo 19 e articolo 35, tutti i poteri sono nelle mani del sovrano, conclusione: il parlamento continua ad essere un circo. Per poter parlare di democrazia non bastano i simboli, nel nostro caso parlamento ed elezioni, ma serve una costituzione che statuisca delle garanzie concrete, che riconosca l’uguaglianza dei cittadini e che protegga i loro diritti e le loro libertà. Siamo ancora molto lontani e finché le basi di questo regime resteranno immutate i marocchini non avranno voce in capitolo sul proprio destino.
Lei ha appena parlato di diritti e libertà. Crede che almeno su questo piano qualche avanzamento negli ultimi anni ci sia stato?
Si, obiettivamente sono stati fatti dei passi in avanti rispetto agli “anni di piombo”. All’epoca di Hassan II, per esempio, non sarebbe stato possibile riceverla e parlare con lei. Tazmamart non c’è più e per mettere a tacere gli oppositori vengono utilizzati metodi meno brutali, come una giustizia asservita al sistema. Prima erano i rapimenti e i bagni penali, ora sono i tribunali. Tuttavia, il fatto che la tutela dei diritti umani sia stata inscritta nella costituzione, non dipende da un cambiamento della natura del regime, ma è il risultato delle lotte portate avanti da una società civile cosciente e democratica e della presenza di un contesto internazionale sempre più vigile e pressante, anche grazie al ruolo dei media di massa.
Il miglioramento sul piano dei diritti e delle libertà è innegabile, ma ciò non significa la fine degli abusi e delle prevaricazioni da parte di un regime che resta intrinsecamente autoritario e dispotico. Prendiamo il caso della legge anti-terrorismo e della repressione contro gli islamisti della salafiyya dopo gli attentati di Casablanca. Migliaia di arresti, sparizioni, condanne senza l’ombra di una garanzia legale. Il centro di detenzione segreta e di tortura della DST (i servizi di sicurezza interni, ndr) a Temara è stato oggetto di un rapporto di Amnesty International nel 2004 ed è tuttora attivo, nonostante le autorità continuino a negarne l’esistenza. Del resto i membri di Giustizia e Carità continuano a sperimentare sulla loro pelle l’atteggiamento repressivo del makhzen, tanto che il nostro movimento ha finito per raccogliere l’eredità delle organizzazioni di sinistra nella denuncia delle violazioni, mettendo in atto una contro-strategia di resistenza pacifica fin dagli anni novanta.
Giustizia e Carità è un movimento per l’appunto pacifico e dichiaratamente democratico. Perché il regime continua a negarvi il diritto all’esistenza legale?
Per il messaggio di cui siamo portatori. Nella nostra teoria fondativa, la monarchia ereditaria è considerata un’aberrazione sul piano religioso e uno scandalo su quello politico. Di conseguenza, siamo considerati dei pericolosi sovversivi da un potere che trae legittimità dalla discendenza profetica e dall’Imarat al muminine (art. 19, il sovrano è Capo dei credenti. Ndr). Possiamo definirlo il nodo gordiano attorno a cui ruota la questione del riconoscimento ufficiale di Giustizia e Carità.
Dunque la vostra esistenza non è riconosciuta, ma viene ugualmente tollerata…
Hassan II aveva fatto bene i suoi calcoli. Quando l’organizzazione è apparsa all’opinione pubblica nazionale eravamo in piena rivoluzione komeinista. Il timore di una deriva all’iraniana ha spinto il regime a rimanere vigile e diffidente. Ma allo stesso tempo non è mai arrivato allo scontro frontale. Hassan II sapeva che Giustizia e Carità sarebbe potuta tornare utile al sistema. Prendiamo ad esempio i tre punti che guidano l’azione del movimento: la non violenza, l’autofinanziamento da parte dei membri cioè la rinuncia a donazioni esterne da qualunque parte esse provengano, e la trasparenza. Per trasparenza intendo il rifiuto della clandestinità come strategia operativa, la chiarezza negli obiettivi dell’associazione e nella sua composizione (l’organigramma è disponibile on-line nel sito aljamaa.net). In altre parole, non abbiamo niente da nascondere, non siamo dei terroristi e il regime, che ci conosce, lo sa bene. Per questo ha voluto conservarci come una valvola di sfogo sociale. E’ meglio che la collera di ampi strati della popolazione, che si riconosce nei fondamenti dell’islam, sia canalizzata all’interno di una realtà nota e dichiaratamente non violenta, piuttosto che lasciata alla mercé delle reti qaidiste o affini. Ecco più o meno il ragionamento che relega l’organizzazione in questo limbo esistenziale.
Avete la possibilità di organizzare incontri o assemblee pubbliche?
No, per questo genere di cose serve la ricevuta del Ministero dell’Interno, il famoso riconoscimento legale, che noi non abbiamo. Negli ultimi mesi la polizia sta cercando perfino di impedire le riunioni private che si svolgono negli appartamenti, soprattutto quelle della sezione femminile. Aspettano le sorelle all’uscita e le portano in commissariato con una messa in scena da film americano, per impressionare gli altri abitanti del quartiere che si domandano se tra loro non si nasconda per caso Bin Laden. Qualche ora di accertamenti, a volte interrogatori per tutta la notte e poi vengono rilasciate. Deve sapere che in Marocco, quando una donna sola entra in commissariato, non si fa una bella nomea agli occhi della gente….
Oltre a queste forme di intimidazione, negli ultimi giorni il regime ha puntato chiaramente il dito contro di voi per giustificare la repressione a Casablanca e a Khouribga. Che cosa ne pensa?
E’ l’ennesima montatura, una strategia di diffamazione mediatica per gettare discredito sul movimento. Mio padre nel 1973 aveva scritto L’islam ou le deluge (“L’islam o il diluvio”), una lettera indirizzata ad Hassan II che può essere considerata il manifesto di Al Adl wal Ihssane. Non parlava del diluvio di Noè, ma di un “diluvio politico”, di uno sconvolgimento. Il makhzen, se prendiamo in considerazione le sue dichiarazioni in merito alle violenze di Casablanca e Khouribga, è entrato pienamente in questa fase di sconvolgimento, i responsabili sono in stato confusionale e non sanno più che misure adottare per salvare il sistema. Una soluzione possibile è sembrata quella di far paura alla popolazione e di dividere il Movimento 20 febbraio, attaccando e screditando una delle sue componenti più solide.
Una delle “componenti più solide” e allo stesso tempo la meno visibile, al contrario dei militanti amazigh e delle associazioni per i diritti umani per esempio. Come mai?
Nel momento in cui abbiamo aderito al Movimento 20 febbraio, decidendo così di apportare il nostro sostegno a questi ragazzi coraggiosi, ci siamo imposti di mantenere un basso profilo. La nostra scarsa visibilità, dunque, è il frutto di una scelta consapevole, ponderata. In primo luogo per non dare adito a chi approfitta di ogni occasione per accusarci di estremismo e di voler gettare il paese nel caos. Poi, per non prevaricare nessuna delle altre “anime” del Movimento, che resta alla base una rivolta di giovani indipendenti e democratici, di cui Giustizia e Carità non vuole appropriarsi. In più bisogna tenere conto del contesto internazionale, con l’esempio tunisino ed egiziano in testa. Tra le potenze occidentali sembra esserci un consenso tacito, in riferimento a quanto sta accadendo nel mondo arabo: “fintanto che gli islamisti restano al margine, possiamo lasciare le cose evolversi secondo il loro ritmo naturale”. Noi vogliamo che si arrivi ad un vero cambiamento, non assumiamo certe posizioni per farci belli o al solo scopo di avere visibilità, a maggior ragione se un tale atteggiamento rischia di diventare controproducente, pregiudicando l’obiettivo finale. Per questo siamo là, siamo presenti, ma allo stesso tempo cerchiamo di rimanere lontano dai riflettori.
In conclusione, cosa pensa del discorso pronunciato da Mohammed VI pochi giorni fa?
E’ una tattica di diversione, tante belle parole che in concreto non apportano niente di nuovo. Gli intenti all’apparenza possono sembrare interessanti, il riconoscimento costituzionale della lingua amazigh, la condivisione del potere esecutivo con il primo ministro. Ma che significa poi condividere il potere esecutivo? Che cosa si può condividere con un sovrano che è rappresentante supremo della nazione e capo dei credenti? Forse Mohammed VI ha voluto prendere tempo, nella speranza che la contestazione si indebolisca. In ogni caso il discorso del 9 marzo non annuncia nessun cambiamento sostanziale. Per poter parlare di democrazia, la costituzione attuale deve essere buttata nella spazzatura, l’ho già detto nel 2005 e lo confermo. Serve una nuova costituzione che scaturisca dal popolo, non l’ennesima concessione reale che non è più una novità per un paese che in cinquantacinque anni di storia indipendente ha già vissuto quattro riforme costituzionali, con relativi referendum, senza che la situazione politica e sociale sia mutata di una virgola. E’ stato un colpo di teatro, con cui la monarchia assoluta ha confermato la sua esigenza primaria: perpetuarsi a discapito della volontà popolare. Vorrei ricordarle che ad un anno dall’ascesa al trono di Mohammed VI, un giornalista del Time chiese al nuovo re quale fosse l’ultimo consiglio datogli dal padre prima di morire e la risposta fu: “durare!”. E’ questo il titolo da dare al discorso del sovrano. Sinceramente, non ho nulla di personale contro Mohammed VI, lo considero solo una vittima del suo stesso sistema.
2 commenti:
Molto interessante, intervista veramente bella!! Alberto Lunardi
http://www.looponline.info/index.php/ultimo-numero
E' in edicola il nuovo numero di Loop con l'articolo di Jacopo Granci dal titolo "Due anime per un movimento"-intervista a Nadia Yassine
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