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mercoledì 26 maggio 2010

Zahra Boudkour torna in libertà

Alle otto e trenta di mattina del 15 maggio 2010 la più giovane detenuta del Marocco, Zahra Boudkour, è uscita dal carcere di Ben Guerir dopo due anni di reclusione. Ad attenderla fuori dalla prigione, oltre ai parenti, ci sono i compagni della giovane militante, lo stato maggiore dell'AMDH al completo e a alcuni giornalisti. La carovana poi si è diretta a Zagora, città natale di Zahra, dove le celebrazioni hanno coinvolto tutti gli abitanti della zona.

Zahra Boudkour fuori dal carcere di Ben Guerir

sabato 1 maggio 2010

L’identità

Da quando ho lasciato il Libano nel 1976 per trasferirmi in Francia, mi è stato chiesto innumerevoli volte, con le migliori intenzioni del mondo, se mi sentissi “più francese” o “più libanese”. Rispondo invariabilmente: “l’uno e l’altro!”. Non per scrupolo di equilibrio o di equità, ma perché, rispondendo in maniera differente, mentirei. Ciò che mi rende come sono e non diverso è la mia esistenza fra due paesi, fra due o tre lingue, fra parecchie tradizioni culturali. E’ proprio questo che definisce la mia identità. Sarei più autentico se mi privassi di una parte di me stesso?
A coloro che mi pongono la domanda, spiego dunque, con pazienza, che sono nato in Libano, che vi ho vissuto fino all’età di ventisette anni, che l’arabo è la mia lingua materna, che ho scoperto prima nella traduzione araba Dumas, Dickens e I viaggi di Gulliver, e che nel mio paese di montagna, quello dei miei antenati, ho conosciuto le mie prime gioie di bimbo e sentito certe storie cui mi sarei ispirato in seguito per i miei romanzi. Come potrei scordarlo? Come potrei mai staccarmene? Ma, d’altra parte, vivo in Francia da ventidue anni, bevo la sua acqua e il suo vino, le mie mani accarezzano ogni giorno le sue vecchie pietre, scrivo i miei libri nella sua lingua, per me non sarà mai più una terra straniera.
Metà francese, dunque, e metà libanese? Niente affatto. L’identità non si suddivide in compartimenti stagni, non si ripartisce né in metà né in terzi. Non ho parecchie identità, ne ho una sola, fatta di tutti gli elementi che l’hanno plasmata, secondo un “dosaggio” particolare che non è mai lo stesso da una persona all’altra.
Talvolta, quando ho finito di spiegare, con mille particolari, per quali ragioni precise rivendichi pienamente l’insieme delle mie appartenenze, qualcuno mi si avvicina, mi mette una mano sulla spalla e mormora: “ha avuto ragione di parlare così, ma nel suo intimo che cosa si sente?”.
Questa domanda insistente mi ha fatto sorridere a lungo. Oggi, non ne sorrido più, perché mi sembra rivelatrice di una visione molto diffusa e, a mio avviso, pericolosa. Quando mi si chiede che cosa sia “nel mio intimo”, si presuppone che “nell’intimo” di ciascuno ci sia una sola appartenenza che conta, la sua “verità profonda” in certo qual modo, la sua “essenza”, determinata una volta per tutte alla nascita e che non cambierà più; come se il resto, tutto il resto – il suo percorso di uomo libero, le sue convinzioni acquisite, le sue preferenze, la sua sensibilità personale, le sue affinità, la sua vita insomma – non contasse minimamente.
E quando si incitano i nostri contemporanei ad “affermare la loro identità” come si fa così spesso oggi, equivale ad esortarli a ritrovare in fondo a se stessi tale pretesa appartenenza fondamentale, che è spesso religiosa o nazionale o razziale o etnica, e a sventolarla fieramente in faccia agli altri.
Chiunque rivendichi un’identità più complessa si ritrova emarginato. Un giovane nato in Francia da genitori algerini porta in sé due appartenenze evidenti, e dovrebbe essere in grado di assumerle entrambe. Ho detto due per la chiarezza del discorso, ma le componenti della sua personalità sono assai più numerose. Che si tratti della lingua, delle credenze, del modo di vita, delle relazioni familiari, dei gusti artistici o culinari, le influenze francesi, europee, occidentali, si mescolano in lui ad influenze arabe, berbere, africane, musulmane… Un’esperienza arricchente e feconda se il giovane si stente libero di viverla pienamente, se si sente incoraggiato ad assumere tutta la propria diversità; al contrario, il suo percorso può risultare traumatizzante se, ogni volta che si dichiara francese, certuni lo considerano come un traditore, addirittura come un rinnegato, e se, ogni volta che afferma i suoi legami con l’Algeria, la sua storia, la sua cultura, la sua religione, si trova esposto all’incomprensione, alla diffidenza o all’ostilità.
La situazione è ancora più delicata dall’altra parte del Reno. Penso al caso di un turco nato trent’anni fa nei pressi di Francoforte e sempre vissuto in Germania, di cui parla e scrive la lingua meglio di quanto faccia con quella dei suoi padri. Agli occhi della sua società di adozione non è tedesco; agli occhi della sua società di origine non è più veramente turco. Il buonsenso vorrebbe che egli potesse rivendicare pienamente la doppia appartenenza. Ma nulla, nelle leggi e nelle mentalità, gli consente di assumere armoniosamente la sua identità composta. Ho preso i primi esempi che mi sono venuti in mente. Avrei potuto citarne altri. Quello di una persona nata a Belgrado da madre serba e da padre croato. Quello di una donna hutu sposata a un tutsi, o viceversa. Quello di un americano di padre nero e di madre ebrea…
Sono casi molto particolari, penseranno certuni. A dire il vero, non lo credo. Le poche persone che ho menzionato non sono le sole a possedere un’identità complessa. In ogni uomo si incontrano molteplici appartenenze che talvolta si contrappongono fra loro e lo costringono a scelte penose. Per alcuni, la cosa è evidente alla prima occhiata; per altri, bisogna fare lo sforzo di guardare più da vicino.
Chi, nell’Europa odierna, non avverte un conflitto, destinato ad aumentare, fra la sua appartenenza ad una nazione plurisecolare – la Francia, la Spagna, la Danimarca, l’Inghilterra… - e la sua appartenenza all’insieme continentale che si va costruendo? E quanti europei sentono anche, dal paese basco fino alla Scozia, un’appartenenza potente, profonda, a una regione, al suo popolo, alla sua storia e alla sua lingua! Chi, negli Stati Uniti, può ancora considerare il suo posto nella società senza riferimenti ai suoi legami anteriori – africani, ispanici, irlandesi, ebraici, italiani, polacchi ecc.?
Detto ciò, ammetto che i primi esempi da me scelti hanno qualcosa di particolare. Tutti riguardano esseri che recano in sé appartenenze che, oggi, si affrontano con violenza; esseri frontalieri, in un certo qual modo, attraversati da linee di frattura etniche, religiose o di altra natura. Proprio a causa di tale situazione, che non oso definire “privilegiata”, hanno un ruolo da sostenere per tessere legami, dissipare malintesi, far ragionare gli uni, addolcire gli altri, appianare, riconciliare… Hanno la vocazione degli intermediari, dei tramiti, dei mediatori fra le diverse comunità, le diverse culture. Ed è proprio per questo che il loro dilemma è carico di significato; se queste stesse persone non possono assumere le loro molteplici appartenenze, se si vedono ingiungere di continuo di scegliere il loro campo, di rientrare nelle file della loro tribù, allora abbiamo il diritto di preoccuparci per il funzionamento del mondo.
“Se si vedono ingiungere di continuo di scegliere”, dicevo. Ingiungere da chi? Non solo dai fanatici e dagli xenofobi di ogni ambiente, ma da voi e da me, da ciascuno di noi. A causa, per l’appunto, delle abitudini di pensiero e di espressione così ancorate in tutti noi, a causa della concezione ristretta, esclusivista, bigotta, semplicistica che riduce l’identità intera a una sola appartenenza, proclamata con rabbia.
E’ così che si “fabbricano” dei massacratori……

AMIN MAALOUF, L’identità, Bompiani, Milano, 2007. (Traduzione di Fabrizio Ascari)

Gli attivisti saharawi interrompono lo sciopero della fame

“La detenzione preventiva non deve essere un pretesto per trattenere illimitatamente in carcere gli oppositori. Il tempo per le indagini è stato ampiamente superato, ora i detenuti devono essere liberati o accusati formalmente davanti ad un tribunale”. Questo è l’avviso rilasciato da Khadija Ryadi, presidente dell’Associazione marocchina per i diritti umani pochi giorni fa, in merito alla vicenda del “gruppo Tamek”, conosciuto anche come il “gruppo dei sette”. Dopo oltre sei mesi di detenzione, senza accuse formali né processi a loro carico, e uno sciopero della fame durato quarantuno giorni, sembra che i sei attivisti saharawi in carcere a Salé (il settimo elemento del gruppo era stato liberato lo scorso febbraio) siano ormai sul punto di lasciare le loro celle. La protesta, sostenuta da una pressione internazionale crescente (agli appelli delle Ong per i diritti umani si era unita anche la “preoccupazione” del Segretario Generale ONU Ban Ki Moon), ha spinto le autorità marocchine a tornare sui propri passi e ad avviare il dialogo. Stando alle dichiarazioni filtrate dalla prigione di Salé, il “gruppo Tamek” avrebbe raggiunto un accordo con il governo di Rabat, pronto a tutto pur di non ripetere il naufragio mediatico e diplomatico a cui portò la gestione miope, rivelatasi alla fine disastrosa, della vicenda Aminatou Haidar.