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mercoledì 27 gennaio 2010

I “dannati del carbone”

Reportage da Jerada/1
di Aziz El Yaakoubi e Jacopo Granci

Rivolte, arresti sommari, torture e processi: la piccola cittadina di Jerada ha vissuto gli ultimi giorni del 2009 nel segno della repressione. Interessi economici e clientelismo hanno trasformato i vecchi minatori della zona in nuovi schiavi-fantasma, nell’indifferenza delle autorità.

Lasciando Oujda in direzione sud e percorrendo una cinquantina di chilometri lungo la statale che conduce a Fguig, si arriva a Jerada, una piccola e all’apparenza anonima città di minatori. L’intera area, all’inizio del secolo, non offriva niente di più di una fitta boscaglia disabitata. Ma nel 1927, una rivelazione inattesa cambiò in poco tempo il volto del paesaggio. Una compagnia belga, giunta sul posto per effettuare dei rilievi geologici, scoprì che nel sottosuolo della regione erano nascoste immense riserve di carbone. Dopo qualche anno iniziò lo sfruttamento dei filoni. Furono scavati i primi tunnel e, nelle vicinanze, venne costruito un villaggio destinato ad ospitare i lavoratori e i responsabili della miniera, ufficialmente operativa dal 1945. Così nacque Jerada.



E’ domenica mattina, il ritmo della città è ancora lento, per le strade non si vede quasi nessuno. Nei giorni scorsi ha nevicato e la temperatura resta al di sotto dello zero. Un freddo glaciale. All’orizzonte si staglia nitida una montagna nera, da cui sale verso il cielo un rivolo di fumo bianco. “Quello è il simbolo di Jerada. Rifiuti e scarti provenienti dalla miniera accumulati lì anno dopo anno”, ci informa l’autista del grand taxi prima di depositarci nella piccola piazza del centro.
Seduto al tavolino di un bar, mentre stringe un bicchiere di tè alla menta con mani tremolanti, Jilali racconta quanto accaduto due settimane fa al suo compagno di cella: “lo hanno spogliato e poi l’hanno steso su una tavola. Gli hanno sistemato quattro barre di ferro appuntite sulle cosce e un poliziotto ha iniziato a camminarci sopra”. Liberato dopo una lunga serie di interrogatori, l’ex-membro della CDT (Confederazione democratica del lavoro), più o meno sulla cinquantina, è riuscito ad evitare questo genere di maltrattamenti. Ma il dolore e l’umiliazione della tortura non hanno risparmiato gli altri abitanti di Jerada finiti in carcere in quella stessa notte. “Forse perché sono vecchio, oppure perché facevo parte del sindacato. Chi può saperlo?”, aggiunge Jilali, che poi continua: “mi hanno fatto una fotografia e poi l’hanno rielaborata al computer per far apparire sullo sfondo il fuoco appiccato durante le rivolte. Un lavoro fatto veramente male, cosa che non ha impedito al giudice di istruzione di utilizzare la foto come prova contro di me”. Le rivolte di cui parla Jilali sono scoppiate il 25 dicembre scorso. La piccola città di carbonai è stata teatro di violenze che hanno scatenato la repressione feroce delle autorità locali. I minatori manifestavano per denunciare la “trappola” orchestrata da un misterioso imprenditore, che con false promesse aveva convinto gli operai a tornare al lavoro dopo due settimane di sciopero. Tuttavia, questa non è che la punta dell’iceberg. Solo l’ultima di una lunga serie di ingiustizie. “Jerada è un’enciclopedia della sofferenza umana. Mi sembra il titolo adatto per chi volesse scrivere un libro sulla storia della città”, butta lì senza troppa ironia Jamal Allay, presidente della sezione locale dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo).

Un passo indietro
Tutto comincia nel 1998, quando lo Stato decide di chiudere la grande miniera di antracite, un tipo di carbone detto “magro”, che contiene meno del 10% di polveri sottili. L’iter burocratico va avanti per cinque anni. In questo lasso di tempo vengono licenziati circa settemila operai. La decisione che ha portato alla morte della miniera è ancora contestata dagli abitanti della città. Il governo di alternanza guidato dal socialista Youssoufi, dal canto suo, aveva sostenuto il provvedimento: secondo la tesi ufficiale, la miniera non era più produttiva e le malattie da questa provocate costituivano un fardello troppo pesante da portare avanti. Quasi i quattro quinti degli operai, in effetti, sono malati di silicosi. Ma per i minatori si è trattato di una “soluzione politica”. “Le autorità sapevano che i giacimenti erano ancora redditizi, ma non tolleravano la presenza di un forte movimento sindacale che negli anni aveva maturato una inaspettata coesione. Così il governo ha colto al volo le direttive degli organismi economici internazionali e i loro inviti all’abbandono dei vecchi combustibili”, commenta Said Zeroual, membro della sezione locale dell’AMDH e impiegato alla centrale termo-elettrica dell’ONE (Ufficio nazionale per l’elettricità). Sempre nel 1998, l’esplosione della contestazione popolare, sfociata in settimane di violenze, ha costretto Charbonnage du Maroc (CDM), la società di Stato che ha gestito la miniera dal momento dell’indipendenza, ad indennizzare gli operai licenziati, in accordo con le richieste avanzate dalle centrali sindacali. Le trattative hanno permesso di fissare il tetto delle indennità a due mesi di salario per ogni anno lavorativo. Una soluzione che ha fruttato, in media, dei risarcimenti compresi nell’ordine dei 300 mila dirham (28 mila euro), mentre le cifre più basse si sono attestate attorno ai 70 mila dirham (poco meno di 7 mila euro). “Il protocollo di intesa firmato dal governo, dalla CDM e dalle centrali sindacali prevedeva il rimborso di tutti gli operai impiegati nelle attività della miniera e, in più, la creazione di risorse alternative per gli abitanti della città, totalmente dipendenti dagli introiti dell’estrazione del carbone”, spiega Abderrahman, un membro dell’UMT (Unione marocchina del lavoro) che aveva partecipato alle trattative.
I risarcimenti hanno assicurato, almeno per un po’, la sopravvivenza della popolazione. Le alternative promesse, invece, non le ha ancora viste nessuno. “A parte le persone che lavorano alla centrale e i pochi commercianti, gli abitanti della città sono tutti disoccupati dal 2002”, si rammarica Said. Di fronte ad una tale situazione, alcune decine di ex-minatori, già dal 2001, avevano deciso di rientrare nella miniera, illegalmente. L’obiettivo era estrarre un po’ di carbone e venderlo nel mercato cittadino per l’utilizzo domestico. Ma la società che stava liquidando la CDM ha vietato definitivamente l’accesso al giacimento. Rassegnati, gli operai hanno abbandonato le gallerie e si sono diretti verso le montagne. Hanno cominciato a scavare loro stessi dei “pozzi”, chiamati descendries nel gergo dei carbonai, in modo totalmente artigianale e in condizioni di sicurezza proibitive. “Gli strumenti di lavoro sono arcaici – conferma Azouz, altro membro dell’AMDH – attrezzature obsolete che mettono in pericolo la vita degli stessi minatori”. Pur di rimediare qualche sacco di carbone, sono disposti a calarsi fino a sessanta metri di profondità, il più delle volte muniti soltanto di martello e scalpello. Dal 2002 la sezione locale dell’AMDH ha accertato la morte di quindici operai, rimasti intrappolati in seguito al cedimento delle pareti delle descendries. Il prezzo da pagare è alto, tutti ne sono consapevoli, ma ad oggi, questo resta l’unico mezzo concreto di sostentamento per gli abitanti di Jerada. Durante le vacanze scolastiche, anche gli studenti raggiungono i pozzi per provvedere alle necessità della famiglia.
Nelle colline che circondano la città si scava a caso. Ci si affida ai ricordi e all’esperienza dei vecchi minatori. Per anni si sono introdotti nelle gallerie tentacolari che, partendo dalla miniera, si disperdono lungo chilometri e chilometri su tutto il territorio della provincia. Le descendries sono puntellate e rafforzate con gli arbusti delle foreste limitrofe. In meno di dieci anni sono stati scavati migliaia di pozzi e la superficie verde che circonda Jerada si è ridotta di due terzi. “Quando la miniera era in funzione – ricorda Azouz – il legno per armare le pareti dei camini veniva acquistato altrove. Non si pensava nemmeno ad intaccare una risorsa così vitale per la città”. La deforestazione, oltre all’erosione del territorio, ha prodotto un notevole aumento dell’inquinamento: prima le emissioni di anidride carbonica, dovute alla centrale e al lavoro dei minatori, venivano assorbite dalle conifere, che in questo modo assicuravano il ricambio di ossigeno e purificavano l’aria. “Ora il processo è stato interrotto. L’aria di Jerada si sta facendo sempre più irrespirabile e le precipitazioni di piogge acide sono in costante aumento”, spiega allarmato l’attivista dell’AMDH.

L’arrivo dei “baroni”
Dal 2002 le perforazioni sono andate avanti in maniera ininterrotta e i pozzi continuano a spuntare come funghi nei dintorni della città. Più o meno ne vengono scavati una decina al giorno. Né la Direzione delle acque e delle foreste, a cui appartengono i terreni (una volta considerati parco nazionale protetto), né il Ministero dell’energia e delle miniere hanno reagito. Le condizioni di sicurezza dei nuovi minatori e i costi tremendi dell’impatto ambientale non sembrano preoccuparli. “Sono circa duemila gli operai che lavorano alle descendries in questo periodo dell’anno”, precisa Azouz. Dietro ad ognuno di loro c’è un’intera famiglia, che riesce a tirare avanti solo grazie ai proventi del carbone. Ogni pozzo dà lavoro ad almeno sei persone: due minatori che scavano (in genere proprietari del pozzo) e quattro operai che si occupano del trasporto in superficie del prodotto. I primi due si spartiscono i proventi della vendita, mentre gli altri ricevono una paga giornaliera che oscilla tra i 70 e i 100 dirham (7 e 10 euro). Poi ci sono gli addetti al triage. Uomini e donne provvedono alla selezione del materiale estratto, che viene scelto, lavorato e poi separato, a seconda della grandezza e della destinazione. Il loro compenso varia da un minimo di 50 dirham (per le donne) fino ad un massimo di 80 dirham (per gli uomini).
Alcuni notabili della regione hanno subito fiutato le grandi possibilità di guadagno offerte dal nuovo sistema di estrazione dell’antracite ed hanno imposto l’esclusiva sul mercato del prodotto. In accordo con le autorità locali, hanno ottenuto dei permessi per la ricerca, lo sfruttamento e la commercializzazione del combustibile fossile. “I primi permessi sono stati concessi nel 2002, cioè al momento della chiusura effettiva della miniera”, specifica Abderrahman. Stando alla legge, le autorizzazioni vengono rilasciate solamente a condizione che il beneficiario crei una impresa regolare, rispettando i diritti dei lavoratori. Anche le zone di sfruttamento sono definite in maniera rigorosa. Secondo l’ultimo rapporto della Delegazione regionale del Ministero (2009), sono ancora in vigore ottantuno permessi. Ma nella lontana provincia di Jerada, la realtà si dimostra ben più complessa di quanto stabilito dalla legislazione nazionale. “Solo quattro o cinque figure hanno il monopolio del mercato”, affermano i minatori appena risaliti in superficie, dopo un’intera giornata trascorsa in fondo alle descendries. Quasi tutti gli operai lavorano per loro, senza contratti regolari né garanzie legali. I “baroni”, così sono conosciuti nella regione, si limitano ad acquistare il carbone direttamente dai proprietari dei pozzi. Poi, grazie ai loro permessi, immettono il prodotto nel mercato nazionale ad un prezzo quattro volte superiore a quello di acquisto. Tuttavia, “la gran parte dell’antracite prodotta viene estratta in zone non consentite dalle famose autorizzazioni”, conferma Jamal Allay.
Decidiamo di andare fino in fondo a questa storia, così contattiamo telefonicamente Mustapha Toutou, uno dei baroni di riferimento nel territorio. “Nella mia società do lavoro a cinquantasette persone, tutte dichiarate alla Cassa di previdenza sociale”, cerca subito di difendersi. Allora perché continua ad acquistare il carbone proveniente da terreni non contemplati nel suo permesso di sfruttamento? “Lo faccio solo per aiutare queste persone che, sprovviste delle autorizzazioni necessarie, non possono commercializzare il prodotto estratto”, replica il signor Toutou. Un ingranaggio ben rodato che trasforma l’impotenza di molti (minatori e operai) nel lauto guadagno di pochi (i baroni). La cifra d’affari a cui ammonta l’intera produzione carbonifera della regione si aggira attorno ai 10 milioni di dirham al mese (poco meno di un milione di euro). Una somma spartita interamente tra i cinque notabili che controllano il mercato.

La rabbia dei nuovi schiavi del carbone
“Il malcontento è cominciato alla fine del novembre scorso”, ci informa Said Zeroual. L’inverno è in arrivo e le temperature si abbassano. I baroni dettano legge e cercano di approfittarne. Si rifiutano di pagare ai minatori la tariffa standard stabilita, cioè 80 dirham la cassa (misura equivalente ad un quintale). “Come tetto massimo ci hanno proposto 60 dirham”, ricorda Abderrahman. Dal momento che un pozzo arriva a produrre tra le dieci e le quindici casse al giorno, secondo i nuovi parametri, gli operai sarebbero costretti a lavorare in perdita. “Servono due settimane di perforazione prima di arrivare allo strato di carbone e in più bisogna calcolare gli altri costi, come il noleggio delle attrezzature”, spiega il membro dell’UMT. Per contrastare la voracità dei baroni, minatori e operai indicono uno sciopero. L’intera attività estrattiva è bloccata per due settimane. Poi, il 18 dicembre, quattro rappresentanti del “popolo della miniera” diffondono tra gli scioperanti una notizia inaspettata: un ricco imprenditore è arrivato in città con nuove autorizzazioni di sfruttamento. La sua proposta, se gli operai interromperanno la protesta, è di acquistare la produzione di un’intera settimana, pagandola 100 dirham al quintale.
Così lunedì 21 dicembre lo sciopero finisce e il lavoro nei pozzi riprende a pieno ritmo. “Le riunioni tra i quattro rappresentanti e l’enigmatico imprenditore si sarebbero tenute nella sede della provincia, alla presenza del governatore”, riferisce Jilali con aria scettica. Definire “enigmatica” questa persona non è abbastanza. In paese nessuno l’ha mai visto e la sua identità viene celata dagli stessi rappresentanti dei minatori. Un vero mistero, come conferma Jamal Allay: “sono ancora in molti a dubitare della reale esistenza di questo personaggio. Una delle ipotesi è che l’intera vicenda sia stata montata dalle autorità in combutta con i baroni al solo scopo di fermare lo sciopero e tamponare le perdite”. Qualche giorno dopo la ripresa delle attività, per la precisione venerdì 25 dicembre, i rappresentanti tornano ai pozzi per annunciare la scomparsa del famoso imprenditore. Con lui si sono dileguate anche le sue promesse. I minatori, radunatisi nella zona del deposito fin dal primo mattino, scendono in strada. La manifestazione, del tutto spontanea e improvvisata, si dirige verso la sede della provincia: gli operai sono stufi di essere sfruttati e raggirati. Vogliono essere pagati. Reclamano quello che gli è stato promesso, ma il governatore, anziché difendere i diritti dei lavoratori, cerca di imbonire la folla prospettando soluzioni vaghe e ipotetiche.
Sul far della sera il corteo rientra in città quando, sotto lo sguardo attento delle forze dell’ordine, scoppiano i primi disordini. Nel momento in cui il vigore della protesta inizia a calare, la polizia passa all’azione. Una sessantina di abitanti vengono arrestati, cominciano gli interrogatori e il dossier passa velocemente nelle mani della magistratura. “Diciotto persone sono ancora in carcere e altre tre si trovano in libertà provvisoria. Attendono il verdetto di primo grado, che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni”, fa notare Abdelkader Bouchkhach, un avvocato dell’OMDH (Organizzazione marocchina per i diritti dell’uomo) che si occuperà della difesa in tribunale. Tra i fermati ci sono minatori, operai, ma anche disoccupati e studenti. Su di loro pendono accuse piuttosto pesanti: manifestazione non autorizzata, furto e turbamento dell’ordine pubblico.
“La polizia ha rastrellato tutte le strade della città. Gli arresti e le violenze che si sono prodotte tra la notte del 25 e le prime ore del 26 dicembre non hanno seguito nessuna logica precisa, soltanto il bisogno di infliggere una punizione esemplare”, ricorda con rabbia Jamal Allay. La vicenda di Mimoun Abdi (vedi scheda) è la triste conferma alle parole pronunciate dal responsabile dell’AMDH. Con lo sguardo fisso a terra, Jilali apporta la sua testimonianza sull’accaduto: “quando i poliziotti mi hanno portato in commissariato ho visto mio figlio. L’hanno spogliato, picchiato e insultato. Alla fine ha confessato tutto quello che le guardie volevano sentirsi dire”. Anche Jilali aspetta il responso del giudice, l’hanno rilasciato fino al momento del processo. L’altro figlio, invece, non è tornato a casa dalla notte del 26. Per le autorità è ufficialmente ricercato. Mohamed Ben Driss, pure lui minatore, fornisce ulteriori dettagli sulla vicenda: “mio figlio è accusato di furto. Secondo la versione ufficiale, la sera della manifestazione sarebbe sparito un computer da un internet point del centro. Lo hanno costretto a dichiarasi colpevole a forza di botte. Quando l’ho rivisto piangeva ancora come un bambino”. Seduto al nostro stesso tavolo, sorseggiando timidamente il suo bicchiere di tè alla menta, Abderrahman cerca di fare il punto della situazione. “Alla base della nostra protesta c’era la voglia di denunciare l’asservimento esercitato su di noi dai baroni. Tutte le persone che lavorano all’interno dei pozzi contraggono gravi malattie ma, con il sistema dei permessi di sfruttamento, nessuno ci assicura più la copertura delle spese mediche”. Al tempo in cui era attiva la miniera, Charbonnage du Maroc aveva costruito e finanziato una clinica specializzata nel trattamento della silicosi. Quando la miniera è stata chiusa, la clinica è passata alle dipendenze del Ministero della sanità, che ne ha ridotto progressivamente le prestazioni, fino alla cessazione definitiva delle attività avvenuta all’inizio del 2009. Ignorati del regime, i minatori di Jerada non sembrano più aver diritto ad una esistenza umana. Coperti di fuliggine dalla testa ai piedi, si aggirano silenziosi sulle colline che circondano la città, come fantasmi abbandonati in un mare di sofferenze e indifferenza ben più profondo dei buchi neri dove sono costretti ad immergersi ogni giorno. Ma a volte anche i fantasmi si risvegliano, con l’assurda pretesa di veder rispettati i propri diritti. Ecco allora che l’indifferenza si trasforma in repressione…


Scheda
TORTURE. MIMOUN, TREDICI ANNI, DENUNCIA...
Si chiama Mimoun Abdi, ha tredici anni. Entriamo nella casetta di famiglia, timidi. Lui è disteso sopra un materasso, non riesce ancora a muoversi. Ci accoglie con un sorriso spento e gli occhi languidi, ma non mostra il minimo timore. Parla senza riserve. Vuole che tutti sappiano quello che ha passato. Venerdì 25 dicembre, dopo essere uscito da scuola, Mimoun percorre le vie del centro di Jerada per andare a fare la spesa. “Verso le sette mia nonna mi ha chiesto di andare a comprare un po’ di verbena”, racconta con voce sommessa. C’è ancora gente in giro, anche se la rivolta sembra aver esaurito la sua furia. Una camionetta della Sicurezza Nazionale si ferma di fronte a lui. “Quattro poliziotti e un agente delle forze ausiliari sono scesi ed hanno cominciato a picchiarmi. Sono caduto per terra, ma loro hanno continuato a colpirmi con calci e pugni”. Viene caricato sul furgone e portato via. “Hanno fatto un giro per la città, arrestando altre persone che non conoscevo. Poi ci hanno portati tutti al commissariato cittadino”. All’interno le torture riprendono. Mimoun riceve altri colpi alla testa e un po’ dappertutto nel corpo. Le fotografie che ci mostrano i parenti, seduti per terra a fianco a noi, non lasciano il minimo dubbio su quanto accaduto in quella notte. Ma non è tutto. Dopo qualche ora trascorsa all’interno del commissariato, inizia ad accusare un dolore “orribile” alla zona genitale. Mimoun comincia a gridare e a chiedere aiuto. Nel frattempo suo zio entra nei locali della polizia per avere notizie del nipote scomparso. “Appena l’ho visto in quello stato, ho subito chiesto spiegazioni. Ma mi sono sentito rispondere: hai fatto bene a venire anche tu, perché sei ricercato”, racconta lo zio, che ha passato tutta la notte all’interno del commissariato, prima di essere liberato il giorno seguente. “Un agente alla fine mi ha chiesto di abbassare i pantaloni – continua Mimoun - quando ha visto il mio testicolo gonfio e violaceo, mi ha portato all’ospedale. Era più meno l’una di notte”. Il medico gli rilascia un certificato, dove richiede analisi specifiche e urgenti. Ma non serve a niente. Il ragazzino viene ricondotto al posto di polizia e il mattino seguente, assieme ad un’altra decina di persone in stato di arresto, è trasferito ad Oujda. “Il giudice di istruzione ha dovuto liberarmi, perché piangevo di continuo e non riuscivo a parlare dal dolore”. La famiglia è costretta ad arrivare a Oujda per recuperarlo e, una volta lì, lo fa visitare da uno specialista. Il medico illustra subito la gravità del caso e decide di operare senza ulteriori attese. Dopo quattro giorni Mimoun esce dall’ospedale. Ha perso un testicolo. “Aspettiamo i risultati per sapere se anche l’altro dovrà essere asportato”, conclude il padre con le lacrime agli occhi.

(Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata in francese da Le Journal Hebdomadaire, n. 426, 23-29 gennaio 2010)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

bello! nel silenzio nulla da aggiungere

Anonimo ha detto...

rendi bene l'idea, il tutto lascia una sensazione di gelida rabbia mista ad impotenza. Comunque complimenti a Jacopo G.